L e chiese di mezza Europa potrebbero essere stipate di corpi di vampiri scambiati per santi, pronti a risvegliarsi. Sembra quasi di vedere la scena. Un gemito sovrasta le giaculatorie. Silenzio, poi lo sconquasso di pietre divelte e vetri infranti. Ora il santo è lì, in piedi. Uno spasmo del labbro ne mostra i canini aguzzi, rivelando la sua vera identità.
L’idea che i venerabili della tradizione cattolica abbiano qualcosa a che fare con i vampiri si ritrova in molti testi di polemica teologica del Diciottesimo secolo. Nel 1749, l’“illuminista” Prospero Lambertini, già asceso al soglio pontificio col nome di Benedetto XIV, si sentì in dovere di aggiungere uno specifico paragrafo su questi esseri della notte nella seconda edizione del De servorum Dei beatificatione et beatorum canonizatione, il suo monumentale manuale sulle procedure di santificazione.
E se il Papa in persona decideva di pronunciarsi sul tema, voleva dire che allora – un secolo e mezzo prima di Bram Stoker – i vampiri venivano ancora avvertiti come un problema reale.
Vampiri a Mykonos
Era un mondo che grondava sangue, quello del Settecento. I vampiri dell’epoca non erano di quelli imberbi alla Twilight. Erano orridi, gonfi e putribondi, come qualche anno fa Tommaso Braccini ha raccontato nel suo Prima di Dracula. Archeologia del vampiro(il Mulino, 2011).
“Quella che stiamo per narrare” si legge in un resoconto dell’epoca citato da Braccini, “è la storia di un contadino di Mykonos, d’indole violenta e attaccabrighe, ucciso in campagna, non si sa né da chi né come”. A parlare è il botanico francese Joseph Pitton de Tournefort, di ritorno da un lungo viaggio in Oriente. “Due giorni dopo che [il contadino] fu sepolto in una cappella della città, corse voce che lo si vedeva la notte camminare a grandi passi e andare per le case a rovesciare mobili, spegnere le lampade, aggredire la gente alle spalle e fare mille altre bricconate”. In breve, era divenuto un vrykolakas, come in quelle terre erano chiamati i ritornanti.
All’inizio si pensò a voci incontrollate, messe in giro da gente ignorante e superstiziosa. Poi un po’ tutti, anche gli uomini di Chiesa, si persuasero che un fondamento di verità ci dovesse pur essere. Tanto che “il decimo giorno venne celebrata una messa nella cappella in cui si trovava il corpo, al fine di cacciare il demone che si pensava fosse in esso rinchiuso. Detta la messa, si dissotterrò il cadavere e si decise gli si dovesse strappare il cuore”.
Il macellaio del paese fece quel che poteva. All’inizio incise la parte sbagliata. Poi riuscì a farsi chirurgo e
il cuore fu estratto con grande ammirazione di tutti i presenti. Il cadavere intanto emanava un tale fetore che si fu costretti ad ardere incenso: ma il fumo, mescolandosi alle esalazioni della carogna, non fece che accrescere il puzzo e cominciò a scaldare il cervello di quella buona gente, la cui immaginazione, colpita da quello spettacolo, si riempì di visioni. Si cominciò così a dire che dal corpo si levava un fumo densissimo. […] Molti dei presenti assicurarono di aver visto che il sangue dello sventurato era ancora vermiglio; il macellaio giurò fosse ancora caldo.
Non fu un episodio isolato, tanto meno circoscritto alla Grecia. Si racconta, ad esempio, che intorno agli anni Trenta del Settecento fosse praticamente impossibile entrare in una libreria europea senza imbattersi in qualche trattato sui morti viventi che sempre più spesso stavano facendo la loro comparsa soprattutto nelle terre più a est dei domini asburgici. Non le solite voci, ma rapporti ufficiali, come il Visum et repertum, elaborato dal medico militare austriaco Johann Flückinger in missione nel villaggio serbo di Medwegya, dove i cadaveri sembravano non voler restare più nelle loro sepolture, preferendo invece vagare alla ricerca di non si sa bene che cosa.
Scienza e purgatorio
Da dove venivano tutti questi vampiri? Un’ipotesi più volte avanzata negli ultimi decenni è stata quella della protoporfiria eritropoietica, una malattia genetica che, aggredendo i globuli rossi, causa fotosensibilità, anemia e aspetto per l’appunto vampiresco. Epperò la spiegazione pecca di scientismo e appare un po’ tirata per il bavero, visto che, nelle cronache, con dovizia di particolari si descrivono veri e propri cadaveri che, riesumati, venivano trovati incorrotti e rubizzi, come se avessero realmente potuto continuare a vivere e a nutrirsi. Nonché a operare maleficamente.
Pur nella loro variabilità, questi racconti, ridotti ai minimi termini, riferiscono costantemente, per dirla con Braccini, di “uno stato di crisi che colpisce una comunità, l’individuazione di un cadavere anomalo come sua causa, e l’annientamento di tale cadavere come modo per superare la crisi”.
Insomma, se si guarda alla faccenda da un punto di vista antropologico, è come se quei vampiri li si andasse a fabbricare: qualcosa succedeva nel villaggio – fame, epidemie, morti improvvise – e, per trovarne una causa su cui si potesse simbolicamente operare, si creava un capro espiatorio. Era pertanto il non morto a provocare tutto. Poi, a seconda dei contesti, lo si poteva chiamare vrykolakas, tympaniaios, upir, Nachzehrer e in mille altri modi, ma era solo una questione di etichette. Da questo punto di vista, il vampiro, da carnefice, diventa una vittima della società: era il cadavere che, forse conservatosi naturalmente, diventava un monstrum da riesumare, dilaniare e ardere per distruggere, insieme con la sua anomalia tanatologica, i drammi di una comunità smarrita e impotente, che sentiva di poter riprendere così in mano le redini del proprio destino.
Beninteso, nella cultura greco-ortodossa, ma anche in quella riformata, i morti ritornavano con e attraverso il proprio corpo. Erano dei revenants en corps, come li definiva il credulo abate Agostino Calmet (su cui si sarebbe abbattuto il sarcasmo di Voltaire). C’è da interrogarsi sul perché questi fenomeni fossero assai meno attestati nel mondo latino-cattolico.
Una risposta – forse non esaustiva, ma assai interessante – potrebbe essere: per la credenza nel Purgatorio, che ortodossi e riformati non avevano, dal momento che era una invenzione cattolica. Il terzo regno dell’aldilà, concettualizzato come evoluzione di precedenti disposizioni o luoghi di giacenza delle anime, si ergeva come cabina di depressurizzazione anche tra vita e morte, se si intende quest’ultima come il definitivo accoglimento del defunto tra le schiere dei beati, cioè il momento a partire dal quale il consorzio umano avrebbe ragionevolmente potuto sentirsi sollevato dalla minaccia di un eventuale ritorno.
Se si guarda alla faccenda da un punto di vista antropologico, è come se quei vampiri li si andasse a fabbricare: qualcosa succedeva nel villaggio e si creava un capro espiatorio.
A differenza di quanto avveniva ai loro colleghi ortodossi o riformati, i trapassati cattolici non erano più liberi di vagare sulla terra o riposare nelle sepolture in attesa di essere destati dalle trombe dell’ultimo dei giorni. E questo perché si trovavano ormai confinati in un luogo determinato, in qualche modo anche geograficamente.
Tutto ciò consentiva di addomesticare il ritorno di un morto che, nel presentarsi per l’appunto come fantasma, ossia come anima purgante senza corps, usciva temporaneamente dal terzo regno dell’aldilà solo su concessione di Dio. In questo modo si portava al cospetto di congiunti e amici, per chiedere suffragi o indurli al pentimento se non addirittura per garantir loro una intercessione minore. Non inseguivano i propri capricci, non volevano spaventarli o ucciderli, come invece facevano i vampiri.
Per i cattolici, poi, la comunicazione con le anime disincarnate – che si palesavano di notte raccontando delle fiamme che le consumavano – era istituita attraverso la mediazione di Santa Romana Chiesa. Per questo motivo proprio Benedetto XIV redarguiva l’arcivescovo di rito greco di Leopoli, responsabile di dare troppo credito ai fenomeni vampirici: “è forse la grande libertà della Polonia che vi dà il diritto di passeggiare dopo la morte. Da noi, l’ammetto, i morti sono tanto tranquilli quanto silenziosi”.
Le storie dei resti
C’è un altro aspetto non trascurabile, con cui si può ritornare all’immagine splatter di apertura. Per i cattolici la mancata putrefazione di un corpo era un indicium sanctitatis, tutto da valutare ovviamente, ma sempre più rilevante nei processi di santificazione (come recentemente dimostrato da Bradford A. Bouley, in Pious Postmortems. Anatomy, Sanctity and the Catholic Church in Early Modern Europe). Non era così per molte altre confessioni europee e culture locali, per le quali un cadavere intatto era invece indizio di vampirismo o un effetto di qualche azione demoniaca. In ogni caso, un brutto segno.
I resti umani sono una “opera aperta”, per dirla con Umberto Eco, un testo che permette interpretazioni multiple, a cui far raccontare la storia che si vuole. Il giudizio sull’incorruzione di un corpo è pertanto sempre il frutto di una complessa negoziazione intellettuale da parte di chi lo compie. In breve, pur semplificando, si può dire che all’epoca si fronteggiassero due Europe. Da una parte, quella in cui il rinvenimento di resti integri era un buon segno e lasciava intravvedere la grazia divina. In questa Europa si credeva ai santi e si accusava chi parlava di vampiri di dar credito a leggende urbane. Dall’altra parte, vi era un’Europa in cui se si trovava un morto un po’ più in carne del solito, non lo si riponeva in un altare per venerarlo, ma lo si annientava, cannibalizzandolo simbolicamente per liberarsene. Ed è in tale prospettiva che, pur provocatoriamente, si potrebbe ritenere che in fondo santi e vampiri siano la stessa cosa, o almeno cugini (come suggerisce anche Carlo Dogheria nel suo Santi e vampiri. Le avventure del cadavere.)
Con una precisazione: che il mondo non è così semplice come lo descrivono gli storici. Restano infatti aree culturali, come quella greco-ortodossa, anche nelle sue articolazioni slave, in cui si credeva a entrambe le tipologie di morti dal corpo intatto: sia ai santi sia ai vampiri. Un problema non da poco, tanto che nel 1667 il Concilio di Mosca dovette precisare: “Per quanto riguarda i corpi che nella nostra epoca saranno trovati esenti da corruzione, guardatevi bene dal venerarli come santi prima di un esame di persone competenti e senza l’approvazione del Concilio, perché molti corpi trovati intatti e incorrotti non sono tali per la santità, ma appartengono a defunti in stato di scomunica o anatema da parte dell’arcivescovo o del vescovo o per aver trasgredito una norma o legge divina ed ecclesiastica”. Ecco perché bisognava aver paura. Se infatti qualcuno si fosse sbagliato e avesse elevato agli onori degli altari un’anima dannata? Vigilate la prossima volta che andate in chiesa.