V incitrice del Pulitzer nel 1975 con Pilgrim at Tinker Creek quando ancora non era neanche trentenne, Annie Dillard è una prolifica poetessa, saggista e critica che, finalmente, arriva in Italia grazie a Bompiani che, come perfetta introduzione alla sua scrittura, ha pubblicato Ogni giorno è un dio (traduzione di Andrea Asioli). The abundance, titolo originale dell’opera uscita nel 2016 negli Stati Uniti, è una selezione antologica di alcuni dei suoi migliori pezzi e, insieme, anche una specie di addio alla scrittura. Sono, infatti, quasi dieci anni che Dillard ha smesso di pubblicare novità: ha commentato il suo ritiro dalla scena letteraria in un’intervista al New Yorker, dicendo che un giorno è entrata nel suo studio e, aprendo un taccuino, si è sorpresa di non riuscire a riconoscere l’andamento delle frasi che lei stessa aveva scritto, dove l’avrebbero portata. Oggi, a 73 anni, Annie Dillard dipinge. Ogni tanto, si concede una partita a ping pong.
In un’intervista rilasciata qualche anno fa, Crystal Pite, coreografa per il Royal Ballet e l’Opéra di Parigi, lamentava l’assenza di guide, manuali e indicazioni per ballerini disorientati e frustrati: i passi di danza, notava, sono condannati a svanire non appena sono stati compiuti, rendendo questa un’arte difficilmente traducibile. Al contrario, nei libri le parole resistono, messe una accanto all’altra, al passare del tempo: per questo nei momenti di difficoltà Pite si era rivolta alla letteratura. Un libro, su tutti, era riuscito ad aiutarla: era The Writing Life di Annie Dillard.
Quel libro “parla di cose concrete, come lo sforzo, il rigore, la perseveranza, la solitudine”, aveva detto Pite, “Dillard ci distoglie da concetti come la speranza o il fine ultimo delle cose: la sua è una lingua severa. Mi ha aiutato a capire che, quando creo, entro in relazione con l’ignoto. È stato questo che mi ha portato ad avere oggi più disponibilità, più fiducia nelle mie stesse opere”.
Online si trovano dei frammenti di Seasons’ canon, una coreografia del 2016 (qui la Primavera, qui l’Autunno) firmata dalla coreografa canadese: sono pezzi straordinari. Più si osservano, più si può cogliere in filigrana la lezione di Annie Dillard, qualcosa che parla di ignoto, di luce e di rigore. In quel libro scriveva che la visione che guida le opere è
una cosa incandescente, una cosa dalla bellezza sfocata. Luminosa e traslucida allo stesso tempo, attraverso di questa si vede il mondo.
A chi le chiedeva se vincere un Pulitzer da giovane l’avesse influenzata, Dillard rispondeva con un aneddoto preso da John Updike, il quale raccontava che la grande maledizione della sua vita era di non riuscire a scrivere neanche una pagina senza immaginare John Leonard, il celebre critico del New York Book Review, che la faceva a pezzi: certo che era successo, soprattutto a lei che non si sentiva altro che una “casalinga della Virginia che scriveva poesie per al massimo nove monaci”. Eppure a leggere i testi di Ogni giorno è un dio sembra essere stata capace di liberarsi completamente da quel tipo di pressione.
Dal racconto di un’eclissi totale, alla selvaggia infanzia, alle barzellette raccontate dai genitori durante le cene con gli amici, Ogni giorno è un dio mostra l’abbondanza, la capacità mimetica e quasi da rabdomante della scrittrice, che nella natura e nel suo linguaggio aveva trovato la propria ispirazione. Una produzione che è a metà tra il saggio e la poesia, tra il personal essay e l’autobiografia. Chiamato a scriverne l’introduzione, Geoff Dyer ne celebra la libertà e la relativa originalità: “oggi la saggistica refrattaria a una precisa collocazione è un genere riconosciuto, ma Dillard ne comprese le potenzialità – e le difficoltà connesse – già all’inizio degli anni settanta, quando stava scrivendo quello che sarebbe poi diventato Pilgrim at Tinker Creek”.
“Thoreau della Virginia”, così come viene chiamata, Dillard ha scritto di Dio, eventi naturali e universo con uno sguardo sempre adolescente, sempre capace di meraviglia: per lei, per parafrasare Luigi Ghirri, non c’è “niente di antico sotto il sole”.
La raccolta si apre con quello che forse è il migliore dei saggi, “Eclissi totale”, sull’eclissi di sole osservata il 26 febbraio 1979 da Yakima. Il racconto dell’esperienza è entusiasmante: dall’hotel in cui alloggia col marito (“L’atrio dell’albergo era una sala buia, fatiscente, angusta come un corridoio, senz’aria”) pieno di stampe dozzinali, al gruppo che in cima a una collina guarda il sole sorgere (“Non c’era nessun punto riparato dal vento. Le erbe rinsecchite urtavano contro le nostre gambe”), Annie Dillard costruisce la scena per tocchi, aggiungendo particolari, mescolando il desiderio per un’epifania, con la noia strisciante dell’attesa perché qualcosa avvenga (“Non c’era niente da vedere”).
Poi ecco l’eclisse: per riuscire a comunicare l’esperienza, Dillard ripete il racconto dell’evento ogni volta da un punto di vista diverso: dal proprio (“Sul suo cranio [del marito] vidi l’oscurità della notte mista ai colori del giorno. La mia mente stava fuoriuscendo; i miei occhi si allontanavano come le galassie si allontanano nell’orlo dello spazio”); da quello della folla (“Non c’era nessun mondo. Eravamo la morta popolazione del mondo che roteava e orbitava in tondo, incastrata nella crosta del pianeta”), da quello della terra, fino a quello delle costellazioni nel cielo, ogni volta andando più in profondità.
Un secondo prima che il sole scomparisse vedemmo un muro di nera ombra accelerare verso di noi. Non facemmo in tempo a vederlo che ci era già addosso, come un tuono. Ruggì sopra la valle. Si schiantò contro la collina e ci distrusse. Era il mostruoso e rapido cono d’ombra della luna. Ho poi letto che quest’onda d’ombra si muove a 2900 chilometri l’ora.
“È impossibile restituire a parole l’idea di una velocità simile”, scrive, eppure c’è riuscita.
C’è una nota di Dillard, che riporta Dyer, che dice “dopo tutto abbiamo avuto il nonfiction novel – ora è giunto il momento della novelized nonfiction”. Si capisce bene perché lo scrittore britannico la consideri una sua maestra (del resto è anche quello che dice Alexander Chee nella magnifica raccolta di saggi How to Write an Autobiographical Novel, in cui ricorda di quando lui era un suo studente e lei gli aveva impedito di leggere i suoi libri prima della fine del corso): Annie Dillard è in tutti i suoi saggi, la vediamo e la sentiamo, come accade con Dyer. A differenza di Dyer però Dillard prende molto più sul serio quello di cui sta scrivendo, non c’è ironia, né humor nelle sue parole: non è un caso se per lei l’eclissi è un momento di epifania reale, mentre il saggio sull’aurora boreale di Sabbie bianche di Dyer gira tutto attorno al fatto che l’aurora, beh, non riesce neanche a vederla, figuriamoci a esserne trasformato.
Nell’introduzione, Geoff Dyer richiama la conclusione del saggio “Svegliarsi”, dove una bambina si tuffa nell’acqua, sigillando il proprio riflesso “e lo indossa mentre si arrampica risalendo dalla piscina, e da allora per sempre”. Scrive Dyer che “trasuda Annie Dillard dall’inizio alla fine, quel brano, quell’immagine”: “Svegliarsi” è un brevissimo saggio sul risveglio della coscienza, sul momento da cui iniziamo a condurre “una vita di concentrazione”, “anziché guadare con passo sonnambulesco la vita, sono state le sue costanti preoccupazioni”.
Lo scrive per sottolineare come Dillard sia una “scrittrice all’apparenza mai stanca, e che mai è arrivata arrancando al termine di una pagina o di una frase” e che “può essere apprezzata solo da un lettore del tutto vigile”. A leggere “Svegliarsi” torna in mente “Per sempre lassù”, il racconto di David Foster Wallace contenuto in Brevi interviste con uomini schifosi in cui un ragazzino, nel giorno del suo tredicesimo compleanno, decide di tuffarsi dal trampolino della “vecchia piscina pubblica all’estremità occidentale di Tucson”. Quel testo si concludeva così: “la tavola annuirà e tu andrai, e i neri occhi di pelle si potranno incrociare e accecare in un cielo maculato di nuvole, luce perforata che si svuota dietro la pietra aguzza che è per sempre. Che è per sempre. Metti piede nella pelle e scompari. Ciao.”
Ricorda Zadie Smith, riflettendo su questo brano in un lungo ricordo che dedica a David Foster Wallace in Cambiare idea, che solo “per pigrizia raccogliamo gli scrittori in base alla nazione, alla maniera, al decennio: immaginiamo che Wallace sia il figlio unico di DeLillo e Pynchon”, dimenticando che “in realtà, Wallace aveva gusti cattolici”. C’è una meraviglia originale in quel testo, così come in quello di Dillard: un rapporto disintermediato con la natura, con la luce e la grazia. Il titolo originale che Dillard dà a “Svegliarsi” è “An American Childhood” e l’infanzia americana a cui fa riferimento qui sembra non solo quella della giovane Annie, ma quella di una nazione che ha prodotto Thoreau, Emerson o Whitman, fino a Marylinne Robinson o agli eremiti ritratti da Alec Soth, dove sembra resistere un’adesione alla natura allo stesso tempo ingenua e terribile. In questa natura vive il divino: ecco il materiale di cui è intessuto ognuno dei saggi di Ogni giorno è un dio.
Abbandonata la chiesa presbiteriana già durante l’adolescenza (“Ho lasciato la chiesa. Ho scritto un’impetuosa lettera al parroco. Il gentile vicario, Dr.James H.Blackwood, mi ha telefonato per un appuntamento” da “Vecchia pietra presbiteriana”), Dillard ha imparato a rivolgere il suo sguardo al mondo là fuori: “Il giorno è reale” scrive, “il cielo saldamente si incastra schioccando sopra le montagne, si serra attorno alle isole, si schianta dritto sulla baia”. Nei suoi saggi celebra gli animali, gli insetti, le falene che da giovane al campeggio le volano intorno mentre cercava di leggere Rimbaud (chi altro?); dice: “io la chiamo semplicità, la liscia, solitaria sostanza della materia”.
Il titolo che è stato scelto per l’edizione italiana viene dal saggio che porta le tracce più evidenti di questo spiritualismo: “Paganesimo”, infatti, si apre così, quasi come una preghiera:
Ogni giorno è un dio, tutti i giorni sono un dio, e la sacralità procede nel tempo. Venero ogni dio, rendo lode ogni giorno scheggiata all’ingiù e avvolta nel tempo come un involucro, multicolore involucro che lesto si spande all’alba sulle crepe dei monti.