P arla della bellezza, che dura poco e finisce quasi sempre in modo disastroso”, diceva Roberto Bolaño della Pista di ghiaccio, uscito per la prima volta nel 1993 e da poco ripubblicato in Italia da Adelphi con la nuova traduzione di Ilide Carmignani. È uno dei primi romanzi dello scrittore cileno, all’epoca stampato in qualche decina di copie e senza distribuzione, negli anni in cui Bolaño aveva ormai abbandonato le sue aspirazioni da poeta beatnik e aveva deciso di passare alla prosa, puntando ai premi di piccoli concorsi letterari mentre si arrangiava con decine di lavoretti, gli anni in cui scrisse, tra le altre cose, la prima versione di Anversa e dello Spirito della fantascienza.
In questo quasi-esordio sono già presenti gli intrecci di vite di scrittori marginali e di poeti mancati, i racconti delle loro complicate relazioni sentimentali e le piccole esplosioni di furia che stravolgono le loro esistenze. In Bolaño gli accessi di violenza sono lampi che illuminano le storie, scariche lungo le quali si compie il destino dei protagonisti. “La violenza, la vera violenza, non si può fuggire, o almeno non possiamo farlo noi, nati in America latina negli anni Cinquanta, noi che avevamo una ventina d’anni quando morì Salvador Allende”, scrive nell’incipit del racconto ‘L’Ojo Silva’ (in Puttane assassine).
Bolaño era nato a Santiago, ma aveva trascorso l’adolescenza in Messico. A vent’anni – racconta in ‘Carnet di ballo’ (nella stessa raccolta) – tornò in Cile per aiutare la rivoluzione socialista di Allende. Venne arrestato subito dopo il colpo di stato di Pinochet – “la notte sentivo torturare gli altri, senza riuscire a dormire, senza niente da leggere” – ma venne liberato in maniera rocambolesca dopo solo qualche giorno.
Secondo l’autore boliviano Edmundo Paz Soldán, quando Bolaño divenne scrittore non ebbe altra opzione che “mostrare l’orrore e il male, e farlo nella maniera eccessiva che merita”. In altre parole: l’ostentazione della violenza nei libri di Bolaño ha una matrice politica da cui non si può prescindere. In questo senso, l’esempio più esplicito è Notturno cileno, monologo delirante, in letto di morte, di Padre Sebastián Urrutia Lacroix, sacerdote membro Opus Dei, poeta e critico letterario. Notturno cileno è “una lucida riflessione sulle perverse relazioni che esistono in America Latina tra il potere e le lettere”, per citare ancora Edmundo Paz Soldán. In una delle scene chiave del romanzo, l’invitato di un salotto buono del Cile di Pinochet si allontana da un incontro letterario e si perde nei meandri della casa che lo ospita. Finisce in una delle stanze nascoste della cantina, utilizzate per gli interrogatori e le torture:
Sulla branda c’era un uomo nudo, legato ai polsi e alle caviglie. Sembrava addormentato, ma la cosa era difficile da verificare, perché una benda gli copriva gli occhi.
La pista di ghiaccio è ambientato a Z, una cittadina anonima della Costa Brava, località di mare come tante, senza “nemmeno una libreria, un cinema decente”, invasa dal “fetore degli abbronzanti e degli oli solari” dei turisti. Le voci del romanzo sono tre. Quella di Enric Rosquelles, catalano, braccio destro della sindaca socialista, che controlla in maniera poco limpida le attività sociali e commerciali di Z. Quella di Remo Morán, cileno, con un passato da scrittore, che a Z gestisce un bar, qualche locale e un campeggio. E quella del guardiano del campeggio, Gaspar Heredia, messicano, poeta indigente, vecchio conoscente di Morán (tra i tanti lavori, Bolaño fu guardiano notturno in un campeggio vicino Barcellona).
I monologhi dei tre protagonisti si alternano mentre le loro esistenze si annodano attorno alla comparsa di Nuria Martí, “sportiva d’élite”, pattinatrice artistica su ghiaccio, di cui si innamorano sia Enric Rosquelles che Remo Morán (“mi sentii fragile e imbarazzato come un adolescente…”). Gaspar Heredia si invaghisce invece di Caridad, una vagabonda deperita e silenziosa, instabile, che vive a scrocco nel campeggio. Un giorno Remo Morán scopre, per caso, in una villa abbandonata, un cadavere trafitto da decine di colpi di coltello. Gli equilibri già precari delle vite dei tre saltano definitivamente. Si apre un piccolo mistero sul delitto. È proprio uno di quei momenti di svolta che ritornano nella costruzione narrativa di Bolaño: un evento sanguinario e brutale scardina la routine dei personaggi.
Enrique Vila-Matas conobbe Bolaño a Blanes, città marittima della Costa Brava dove lo scrittore cileno visse dal 1981 fino alla morte. Vila-Matas scrive di dovere a Bolaño la scoperta del fatto che vita e letteratura camminano fianco a fianco, che non è affatto un errore mescolarle, che anzi sono “due cose che si possono assemblare con una naturalezza straordinaria”. I libri di Bolaño sono ricchi di materiale autobiografico nascosto tra le storie e nei cognomi dei protagonisti, per le vie delle città e nei dialoghi dei suoi romanzi. Il trauma della dittatura e dell’esilio dal Cile (dopo il ’73 tornerà in Messico e poi appunto a Blanes) riemerge in brevissime schegge anche nei libri meno politici. Nella Pista di ghiaccio, per esempio, questo succede in poco più di cinque righe, in un flash di memoria di Remo che, proprio dopo aver rinvenuto il cadavere, ricorda “una notte di luna piena del novembre 1973, e nel cortile c’era un ciccione circondato dai poliziotti. Tutti lo picchiavano e usavano mani, piedi e manganelli di gomma. Il ciccione, alla fine, non gridava nemmeno più. Poi stramazzò a terra e solo allora mi resi conto che era scalzo (…) Lo portarono via trascinandolo per i piedi”.
Parallela a questa violenza esplicitamente politica, scorre però in Bolaño anche una violenza privata, più intimamente legata alla sfera emotiva e sentimentale. Rimaniamo ancora sulla Pista di ghiaccio. Caridad, la vagabonda che campeggia a sbafo, gira sempre “con un coltello da cucina sotto la maglietta, gli occhi velati che contemplano qualcosa di invisibile a tutti”. Custodisce il coltello dalla notte in cui il suo ex l’ha abbandonata “piena di graffi, distesa a terra, immobile, che quasi non respirava”. C’è violenza anche nell’arroganza sgraziata di Gaspar Heredia, l’uomo politico di Z, che pure pensa di fare un gesto nobile quando, sfruttando il suo potere, costruisce con i soldi del comune, e dona a Nuria, una pista di ghiaccio in un’antica villa in rovina appena fuori città. E la violenza prende infine il sopravvento nel “disastro finale”, quando proprio su quella pista di ghiaccio, emblema fin troppo evidente dell’amore non ricambiato tra Gaspar e Nuria, Remo Morán trova il cadavere.
Il sangue, colando da diversi punti del corpo disteso, era andato in tutte le direzioni, formando disegni e figure geometriche che a colpo d’occhio presi per ombre. Qua e là i rivoli raggiungevano quasi il bordo della pista. In ginocchio, forse perché ebbi dei capogiri e conati di vomito, osservai come il ghiaccio indurito cominciava ad assorbire tutta quella carneficina.
Tracce di questa consonanza di amore e violenza compaiono in gran parte dei suoi romanzi; d’altronde l’universo narrativo di Bolaño è fatto di temi e personaggi che ritornano, e sono interconnessi: ogni suo libro può considerarsi l’appendice di un altro.
Quando scrisse La pista di ghiaccio, Bolaño aveva già lavorato allo Spirito della fantascienza, poi pubblicato postumo nel 2016. Uno dei protagonisti dello Spirito della fantascienza è un ragazzo di nome Remo, e anche se non è esplicitamente dichiarato, sappiamo che è lo stesso Remo Morán della Pista di ghiaccio, qui ventunenne, scrittore acerbo e spaesato che si innamora di una ragazza di nome Laura.
La loro storia si consuma tra i vapori dei bagni pubblici di Città del Messico. È tutt’altro che un idillio, però. L’intimità che cercano tra le docce calde e le saune, nei privé dove passano le loro giornate indolenti, è violata da gruppi di sconosciuti spesso malintenzionati, e la tensione sessuale si intreccia a quella nervosa.
Le prime volte io ero teso, pronto a fare a botte e a cadere sporco di sangue sulle piastrelle del privé. Mi sembrava logico che entrassero per derubarci o per stuprare Laura e magari stuprare anche me, e avevo i nervi a fior di pelle.
In 2666, il romanzo a cui lavorò fino alla morte, troviamo un altro esempio. Nella prima parte del libro, tre critici letterari, Morini, Espinoza e Pelletier, accademici ambiziosi e competitivi, si innamorano di una quarta docente, Liz Norton, una donna istintiva, per cui “la letteratura era direttamente legata al piacere e non alla conoscenza o agli enigmi o alle costruzioni e ai labirinti verbali”. Nasce un ménage à quatre fatto di “vampate fortissime”, “esplosioni emotive”, “crescente eccitazione e insicurezza sempre maggiore”. È un tormento amoroso adolescenziale. Le conversazioni sulla letteratura dei tre si tramutano col tempo in discussioni oziose sull’amore, sulla “necessità dell’amore”.
Liz Norton finisce a letto con tutti e tre e non sa sceglierne uno in particolare. Una sera, Espinoza, Pelletier e Liz Norton si ritrovano a Londra. Tornando in taxi da una cena, un po’ brilli, iniziano a flirtare. Il tassista pachistano non apprezza la disinvoltura, e sbotta dicendo che “la donna lì presente, cioè la Norton, era priva di decenza e dignità, e al suo paese questo aveva un nome, lo stesso che si usava a Londra, ma che coincidenza, e quel nome era puttana” e che anche i signor lì presenti avevano un nome nel suo paese “e quel nome era ruffiani o magnaccia o macrò o papponi”.
I tre fanno immediatamente accostare il taxi, e anche se all’inizio sembra che la cosa finisca lì, in un attimo la tensione trabocca. Espinoza e Pelletier iniziano a riempire di calci il tassista:
Lo insultavano in inglese, senza curarsi minimamente del fatto che l’asiatico fosse caduto, rannicchiato per terra, calci su calci, in culo tu e l’Islam, è lì che dovete stare, questo calcio è per Salman Rushdie (scrittore che entrambi, peraltro, consideravano piuttosto scarso ma che parve loro pertinente menzionare), questo calcio è da parte delle femministe di Parigi (volete smetterla, porca puttana, gridava la Norton), questo calcio è da parte delle femministe di New York (lo ammazzerete, gridava la Norton).
Dopo quella sera tragica, la Norton si innamorerà definitivamente di Morini, l’unico dei tre che non aveva partecipato al linciaggio, il più maldestro e meno sfacciato del gruppo.
Rimane un interrogativo: da dove sgorga la violenza che circonda gli amori di Bolaño? Secondo Enrique Vila-Matas, che di Bolaño divenne amico intimo, il seme dell’anima feroce delle sue storie, quelle non politiche, va rintracciato nelle difficoltà iniziali e nell’isolamento, nella frustrazione che visse prima di venir finalmente riconosciuto come scrittore – avvenne alla pubblicazione di I detective selvaggi, nel 1998, quando ormai aveva quarantacinque anni e per più di venti aveva dovuto arrangiarsi con altri lavori, e nel frattempo aveva vissuto lontano dal giro intellettuale. Vila-Matas scrive che, ignorato dal mondo letterario, il grande sconosciuto Bolaño ha potuto dedicarsi completamente alla scrittura, in privato, vivendo un’esistenza aspra e incerta, che però ha “forgiato il suo carattere e soprattutto il suo potente – e a tratti comprensibilmente astioso – stile”.
Insomma la vita violenta, l’apprendistato faticoso e cruento. Sembra quasi darwinismo sociale, e lo stesso Bolaño si divertiva a raccontare il suo passato come una lotta per la sopravvivenza, ingigantendo traumi e inventando storie (c’è chi pensa che non sia mai stato in carcere, che non sia neanche mai tornato in Cile) e allora anche Vila-Matas esagera, per alimentarne il mito, scrive della sua anima candida che si fa la scorza tra i bruti, di Bolaño tra “pescatori, camerieri, giovani drogati (tutti condannati a morte): la famosa scuola della vita”. “Un samurai a Blanes”, scrive Vila-Matas.