“S e sono innamorata, lo capisco dalla paura”: a confessarlo nel secondo romanzo di Ester Viola è la protagonista Olivia Marni, perché: “quando vai a vivere con lui, devi prepararti a sopportare la presenza del terzo inquilino: la paura. Paura di perderlo, paura di rovinare tutto, paura di una relazione stabile, paura che diventi meno stabile”. Per Olivia l’inizio della felicità, dopo le sofferenze che le aveva inferto nel romanzo precedente Dario con la sua danza dell’abbandono, corrisponde al fantomatico terrore romantico. La voce narrante di Francesco Piccolo nel suo ultimo L’animale che mi porto dentro, invece tuona: “ho pensato al sesso gran parte della giornata, per gran parte della vita. Dentro questa protezione, non soffrivo mai”. Due testi di letteratura di consumo ultra contemporanei che raccontano la relazione eterosessuale come la realizzazione da parte della donna del proprio sogno d’amore a prezzo di enormi sacrifici e pochissimo sesso, mentre per lui il matrimonio corrisponde al godimento sfrenato in relazioni extraconiugali per diventare “un uomo di cui la comunità (maschile n.d.r.) avrebbe potuto essere orgogliosa”.
La protagonista di Gli spaiati di Ester Viola rientra a tutti gli effetti in uno stereotipo femminile di cui non conosciamo con esattezza la data di nascita, ma sappiamo molto bene che sagoma ha: una donna che fin dall’adolescenza ha cercato di riuscire a stare dentro una relazione monogama soddisfacente e a margine ha anche risposto alla necessità imposta dal neoliberismo – vero maestro di pari opportunità – di realizzarsi dal punto di vista professionale, diventando anche autonoma economicamente. Per Francesco Piccolo, invece – che di nuovo fa il ventriloquo col priapo che lo abita come già ne La separazione del maschio – la consapevolezza di sé come uomo si fonda sul suo matrimonio, non a caso: “ho deciso che avrei scritto questo libro durante un viaggio a Helsinki con mia moglie”.
Per Francesco Piccolo la stabilità della relazione con la moglie è la cartina di tornasole della sua forza maschia, di essere “stocazzo”: “come ha detto mia moglie mi sono creduto stocazzo, e ho pensato di avere diritto a tutto”. La voce narrante del romanzo di Piccolo esplicita infatti che il suo matrimonio è la condizione necessaria per sentirsi realizzato come uomo, ovvero fare molto sesso con varie donne: “sono sereno e forte. Sono a Helsinki con mia moglie, quella traduttrice vuole scappare con me…”. Il narratore del romanzo di Piccolo, che ha invero tutte le caratteristiche del mémoir, associa proprio alla stabilità del suo matrimonio la libertà di sedurre le altre, di amarle anche: “ho finalmente capito cosa stava provando mia moglie […] mi è apparso nitido l’amore per lei e allo stesso tempo ho finalmente capito che ero innamorato di Marta”.
Per la protagonista del romanzo di Viola l’arrivo, dopo anni di dolorosa attesa, di una storia d’amore felice, cioè corrisposto, comporta invece la rinuncia: alla propria città, alle amicizie, alla vita come l’aveva conosciuta prima di entrare in una relazione stabile con Luca: “Il più bravo qui è Luca. Lasciare Napoli, casa mia e tutto… Non mi ricordo neppure com’è stato, dove, perché gli ho detto sì”, con in più l’aggravante che a decretare per Olivia il trasferimento è stata la ex moglie di lui: “il trasloco a Milano di tutti – ovvero lei, i due figli, e quindi Luca e poi io – è stata un’idea sua.” Di Carla.
Questa cifra del sacrificio, che sta a fondamento della sua relazione stabile, ha un riverbero piuttosto canonico anche sul sesso: dai tempi della diffusione del cristianesimo la rinuncia per accedere al regno dei cieli prevede se non la castità, quanto meno un’opaca moderazione. Olivia Marni non fa eccezione: finalmente dopo anni di ricerche spasmodiche dell’amore vero e felice ha incontrato Luca, ma questo amore è favolesco, di conseguenza il sesso non ha spazio nel racconto:
Mi prende da un lato, il fianco, poi inizia a baciarmi e mi solleva la maglia. Gli fermo le mani: – Luca… Mi trascina sul letto, quel controllo che mette nei movimenti, una persuasione lenta anche quando deve soltanto sbottonarti la camicetta e prenderti i seni, come imponesse a qualcosa di succedere senza bisogno di forzare. Quando mi toglie i vestiti, mentre chiudo gli occhi, il pensiero mi va a Carla, e poi a Viola. Sono stata una scelta, o una questione di circostanze? Non so se lui se ne accorge, rallenta e inizia a sussurrarmi qualcosa all’orecchio. E mi abbandono.
Questa è l’unica scena di sesso presente nel testo di Ester Viola: all’abbandono della personaggia da cui avrebbe quindi dovuto cominciare il racconto dei due corpi che si mescolano e di come lo fanno, del sesso, l’autrice chiude la sequenza narrativa. Inutile dire che nel romanzo di Piccolo il sesso è il fulcro del testo, considerato che è lo strumento attraverso cui il protagonista afferma la propria mascolinità e quindi la realizzazione della sua vita sulla terra: la parola “sesso” compare 47 volte e il verbo “scopare” trentadue.
Se sto parlando con una collega, con la mamma di un compagno di scuola di mio figlio, con la barista so rispettare il grado professionale e di competenza della mia collega, concentrarmi sul lavoro, so chiacchierare del programma di matematica. Ma dentro di me, sempre, sia che io lo voglia sia che non lo voglia, sempre, lavora un pensiero che sta sotto tutti questi: me la scoperei, come sarà nuda…
Questa importanza data al sesso nel testo di Piccolo certo risponde al desiderio di “essere ammirato per soddisfare quei fantasmi che mi girano intorno: i fantasmi dell’appartenenza alla mia categoria di maschio” e fa risaltare la rimozione che incontriamo, invece, in Ester Viola. Eppure, a partire da questa condizione dicotomica i due protagonisti hanno come priorità assoluta la stessa cosa: la stabilità di coppia, perché più forte degli stereotipi, è la nevrosi. Olivia Marni, nel romanzo che ce la racconta finalmente in una relazione stabile, dice: “Felice o infelice evidentemente sono due stati d’animo che mi fanno lo stesso effetto”, o ancora:
so che volevo passare da «disperata» a «felice con qualcuno» e non da «disperata» a «persona con famiglia di un altro a carico». Ma forse dietro ogni grande amore trovi solo grandissimi «nonostante tutto».
Questa ultima considerazione farebbe pensare che questo di Viola è il romanzo sulla disillusione della sua protagonista, ma il libro si conclude invece con la negazione di quella consapevolezza: “sono rimasta solo io a voler essere felice a tutti i costi con qualcuno?”. E in questa cocciutaggine così comprensibile sta acquattata la nevrosi di chi non si è mai permessa o mai ha avuto l’ardire di cercare di stare felice con se stessa. Per questo il prescelto, Luca, è perfetto soprattutto sulla carta: è il capo, è “il più bravo”, è elegante, ma al di là della condivisione dell’avvocatura non emerge mai qualcos’altro che lo renda giusto per Olivia, affine a lei, anzi: “mi sento una spaiata anche quando certe volte di notte Luca mi dice «ti amo»”. O ancora: “qualcosa di Luca che ignoro viene fuori e mi dà un senso di malessere”. Quando emerge ciò che appartiene a Luca e non alla proiezione che Olivia fa su di lui trasformandolo nella fonte della sua realizzazione, lei sta male, forse perché costretta a confrontarsi con la realtà dell’altro, che esula dalla funzione che lei gli ha attribuito. Inevitabilmente, alla fine: “sì, è tutto finto, i posti, le persone, le cose che ci diciamo. E allora?”.
La nevrosi del narratore nel testo di Piccolo riguarda invece la sua concezione della virilità. Buona parte dell’essenza maschile che Piccolo insegue in tutto il testo per coglierla appieno e darcene un distillato connota molto spesso e facilmente anche le donne:
Ho paura di scoprire malattie, di averci a che fare, di dover mettere in atto un percorso; e allo stesso tempo riesco a rimandare per capacità di sopportazione del dolore, di adattamento alle varie piccole menomazioni. Perché in qualche modo è anche questa una delle dimostrazioni, ormai non importa quanto consapevoli, della mia virilità.
Trascurarsi, però, ignorare la propria mortalità, provarci almeno, è una condizione umana più che un segno di virilità. O ancora: “sono un uomo, sto lavorando, sto tornando a casa, ho degli impegni, nessuno mi deve fermare, e quindi tutto ciò che è un malanno fisico, psicologico, un lutto, una sofferenza d’amore, va superato continuando a fare finta di niente”. Capita anche alle donne di costruire su questo atteggiamento la percezione della propria forza, il fatto è che non importa essere maschi o femmine a pensarla così, si tratta in ogni caso di distaccamento dalla realtà. Per non parlare di quando parla delle emorroidi come di una patologia tipica degli uomini virili! Piccolo, poi, attribuisce alla virilità anche la violenza della voce narrante:
A un certo punto divento una belva che fa paura, faccio paura a mia moglie, ai miei figli, perché dentro di me cresce una rabbia incontrollabile […] Mia figlia dice mi fa paura essere diventata come te perché sento che lo sono. C’è una differenza: lei è una donna, io sono un maschio. E il maschio si sente euforico di essere così com’è.
Si tratta di un breve stralcio delle pagine dedicate alla violenza dell’animale maschio che abiterebbe il narratore prendendo talvolta e inevitabilmente il sopravvento. Sequenza narrativa che si conclude con un riferimento etnografico a un popolo delle Filippine che crede che gli uomini siano abitati da uno spirito che risiede nello sperma: “che viene tramandato dai maschi di generazione in generazione. Il Liget è la rabbia, una rabbia incontenibile, distruttiva”. Nella visione nevrotica di Piccolo la virilità sarebbe la causa naturale della violenza del narratore, nella realtà è il riflesso del carattere di vetro che hanno spesso gli uomini che si credono “stocazzo”, che esplode al minimo conflitto in schegge taglienti, ferite, paura.
L’obbiettivo dei due protagonisti, sotto la maschera del “femminile” e del “maschile”, è lo stesso allora, perché entrambi ambiscono alla coppia come al porto sicuro: nella stabilità di quella struttura si possono disperdere le paure, le incertezze e la contraddittorietà proprie a donne e uomini. Insomma, niente di nuovo sul fronte commerciale: nella letteratura di consumo la relazione è ancora intesa come via di fuga dalla complessità inconsolabile dell’io, che in questo modo, saldo alla catena, può abbaiare senza mordersi.