Treccani ha da poco pubblicato Europa. Un’utopia in costruzione, un’opera divisa in tre volumi tematicamente orientati, per consentire ai propri lettori una migliore comprensione della ricchezza e delle potenzialità del progetto europeo attraverso più piani interpretativi, in un momento in cui il presente e il futuro dei Paesi dell’Unione risultano quanto mai incerti. In questi giorni, a meno di due mesi dalla data fissata per l’uscita del Regno Unito dall’Unione Europa, una selezione dei saggi presenti nei tre volumi è stata tradotta in inglese e pubblicata per i tipi di Hart Publishing: The History of the European Union. Constructing Utopia. Ospitiamo qui le prime pagine del capitolo conclusivo, dal titolo originale di Gli Stati e il futuro dell’Unione: proseguire da soli, tutti insieme, o soltanto alcuni?
A ndare avanti insieme o da soli? Tutti gli Stati membri o solo alcuni? Questa è la scelta che gli Stati membri dell’Unione si trovano ad affrontare. Sicuramente tutto dipende dalla direzione che si vuole prendere.
Ma se andare insieme non è scontato, neppure il solo ‘andare avanti’ è esente da difficoltà. Nel gergo europeo questa idea ha sempre suscitato un entusiasmo messianico: “un’unione sempre più stretta” sono le parole emblematiche dei trattati. Ma un’unione, per essere sempre più stretta, non deve mai smettere di essere in movimento, di avvicinarsi sempre più (anche quando le cose si fanno difficili) alla terra promessa dell’integrazione, seppure illusoria, come suggerisce l’esempio banale e scontato della bicicletta che cade nel momento in cui smette di muoversi. Ma cosa lega il tema dell’‘andare avanti’ tutti insieme o solo alcuni all’aspirazione di ‘raggiungere i Campi Elisi’ (Drang nach Elysium)? Che dire dell’opzione di rimanere uniti (in maniera cooperativa), oppure di restare esattamente dove ci si trova, mantenendo la direzione e accontentandosi di ciò che si è creato senza correre il rischio di perderlo a causa, per es., di un’espansione delle frontiere politiche, geografiche o funzionali?
A complicare ulteriormente il quadro, bisogna considerare anche il modo in cui ci si muove verso tale destinazione. Le modalità con le quali l’Europa è governata – in quali ambiti uno Stato può mantenere il proprio veto, per fare un esempio, oppure quanto l’Unione è capace di rispettare le tradizioni democratiche di un suo membro, per farne un altro – incideranno anche sulla volontà di uno Stato di andare avanti insieme a tutti gli altri, oppure solo con alcuni, o magari anche di uscire. Una scelta, quest’ultima, che potrebbe essere considerata da uno Stato l’unica opzione a disposizione nel caso avvertisse una inaccettabile perdita di voce.
Nelle pagine successive si proverà a districare alcuni di questi complessi nodi partendo da un’analisi dell’opzione ‘da soli-uscita’. A questo fine è di fondamentale importanza considerare due diverse possibilità riguardanti tale scelta – così attuale oggi in Europa –, la più ovvia delle quali è l’uscita dall’Unione Europea (UE) à la Brexit. Ma non meno importante è l’altra, collegata alla prima, della secessione da uno Stato membro, alla maniera della Catalogna, della Scozia e di altri territori con ambizioni simili. Queste soluzioni sono interconnesse in due modi. Prima di tutto è la prospettiva di trovare all’interno dell’UE un porto sicuro a incoraggiare l’appello alla secessione da uno Stato membro. Inoltre, ancora più importante, vi è una visione comune di queste due prospettive che merita di essere approfondita. Entrambe rappresentano un problema e una sfida per l’Europa, la seconda ancora di più della prima.
Le modalità con le quali l’Europa è governata incidono sulla volontà di uno Stato di andare avanti insieme a tutti gli altri, oppure solo con alcuni, o magari anche di uscire.
Si considereranno poi le opzioni ‘tutti insieme’ e ‘solo alcuni Stati membri’. La tesi sostenuta in questo contributo è piuttosto semplice: si tratta di una falsa dicotomia. Almeno sin dagli anni Settanta l’Europa ha cercato di praticare in una miriade di modi la combinazione di queste due possibilità. Si tratta semplicemente di un’altra manifestazione dell’‘unità nella diversità’. Non è più possibile recedere da questo modello combinato che preferiamo denominare con l’espressione integrazione differenziata. Esso è parte della stessa ontologia dell’Europa: è una matrice complessa nella quale la differenziazione si manifesta lungo gli assi del tempo, dello spazio e degli ambiti settoriali delle politiche. Centrale per la nostra analisi è la distinzione tra l’integrazione differenziata ‘nell’ambito dei trattati’ – che si esprime attraverso il meccanismo della cooperazione rafforzata – e l’integrazione differenziata ‘fuori dai trattati’ che invece si esplicita tramite accordi ad hoc, convenzioni internazionali e alcuni meccanismi che operano in una situazione intermedia, sia all’interno sia all’esterno dei trattati. Di questa matrice empirica bisogna mettere in evidenza due caratteristiche: la prima riguarda il paradosso per cui la cooperazione rafforzata nell’ambito dei trattati, malgrado la sua funzionalità, è rimasta marginale, mentre ha assunto un’importanza centrale il modello di integrazione fuori dai trattati, come dimostra il Patto di bilancio, malgrado la sua dubbia legittimità; la seconda caratteristica concerne la situazione di status quo, la quale, benché funzionale e pragmatica, risulta confusa e controversa, lasciando spesso il sapore amaro di un’Europa a due classi invece che di un’Europa a due velocità.
L’opzione ‘da soli’
Si possono sicuramente perdonare gli autori dell’articolo 50 del Trattato sull’UE (TUE), scritto con un certo pessimismo. Come le armi atomiche, esso ovviamente è stato concepito per non essere mai utilizzato. Tuttavia la Brexit ha immediatamente trasformato questa opzione in realtà. Diversamente da come alcuni pensano, un effetto contagio non appare poi così preoccupante, e anche se uno o due Stati membri dovessero seguire l’esempio del Regno Unito, tale (improbabile) eventualità non sarebbe presumibilmente tanto deleteria quanto si crede. Questi Stati, infatti, ostacolerebbero chiaramente qualunque significativa riforma della costruzione europea, e quindi, per sintetizzare, è meglio che stiano fuori che dentro.
In questa sede non si vuole proporre un esame della fattibilità, dei vantaggi e degli svantaggi dell’opzione ‘da soli’ considerati dalla prospettiva di un particolare Stato membro, né tanto meno sostenerla. L’aspetto più importante della Brexit è stato di avere mostrato l’esistenza di fenomeni ben sedimentati e ampiamente diffusi in tutta l’Unione, fenomeni di cui la decisione britannica rappresenta una manifestazione estrema. Da parte dell’Unione l’entusiasmo per una hard Brexit, e l’adozione a ranghi serrati di una posizione negoziale dura nei confronti del Regno Unito – perlopiù la strategia di un ristretto gruppo per scoraggiare eventuali altre tentazioni di uscita –, si accompagnano però a un prezzo molto elevato che concerne tre aspetti.
Innanzitutto, parte integrante di questa strategia è di sottolineare l’‘eccezionalità britannica’ (‘avremmo dovuto dare ascolto a de Gaulle’; ‘i britannici non sono mai stati veri europei’ e via dicendo, ad nauseam e ad tedium). Ma in questo modo si chiudono gli occhi di fronte a problemi profondamente radicati e presenti in tutta Europa. In secondo luogo, forzando il Regno Unito a una rigida opzione ‘da soli’, l’Unione si è preclusa la possibilità di alternative differenti che in futuro avrebbero potuto essere utili. Infine tale strategia, anche nel breve periodo, riduce probabilmente la possibilità di trovare una soluzione in grado di soddisfare al meglio entrambe le parti.
La svolta secessionista all’interno degli Stati membri (come nel caso della Catalogna e della Scozia) e l’euroscetticismo sembrano contraddirsi, ma la struttura profonda delle loro narrazioni attinge allo stesso pozzo: il ritorno all’identità (nazionale) come potente fattore di mobilizzazione e di unione nella vita politica e sociale.
Le due narrazioni dell’opzione ‘da soli’
Vi sono oggi in Europa due tendenze che attraversano trasversalmente gli Stati membri e che, apparentemente, sembrano contraddirsi. La prima tendenza si esprime attraverso un anelito verso l’opzione ‘da soli’: una svolta secessionista all’interno degli Stati membri, i cui due casi più noti, ma certamente non gli unici, sono rappresentati dalla Catalogna e dalla Scozia. È interessante notare che nel dibattito in corso negli ambienti che sostengono il secessionismo l’integrazione europea è considerata favorevolmente e l’Unione viene vista come un porto sicuro al quale un nuovo Stato indipendente potrebbe saldamente attraccare. Senza la prospettiva di quel porto, il desiderio di secessione diminuirebbe considerevolmente.
La seconda tendenza è legata all’euroscetticismo, alla sua normalizzazione e alla sua affermazione, in forme varie, nell’opinione corrente. Da spettacolo condotto fuori dal campo da gioco, generalmente associato alle frange politiche estremistiche, l’euroscetticismo gode ormai di un notevole sostegno, entrando nelle piattaforme politiche dei partiti istituzionali e promettendo consistenti vantaggi elettorali. Su ventisette governi degli Stati membri dell’Unione Europea se ne contano almeno sette che possono essere ritenuti, in un modo o nell’altro, euroscettici.
In effetti, sebbene il linguaggio utilizzato dai rappresentanti dei due orientamenti appaia in contraddizione (secessionismo interno filoeuropeo e secessione esterna come manifestazione estrema di euroscetticismo), la struttura profonda delle loro narrazioni attinge allo stesso pozzo: il ritorno all’identità (nazionale) come potente fattore di mobilizzazione e di unione nella vita politica e sociale. Si noti che il ritorno all’identità nazionale a scapito dell’Unione rompe il tradizionale assunto secondo cui l’identità in quanto Stato membro equivalga all’identità nazionale. Questa svolta identitaria è quasi ovunque collegata all’insoddisfazione nei confronti del funzionamento della democrazia, sia dentro gli Stati sia dentro l’Unione, e in alcuni casi ben noti si associa all’attrazione verso ciò che viene chiamato, in maniera non eufemistica, democrazia illiberale. Che un regime illiberale possa essere coerente con una concezione moderna di democrazia può sembrare una semplice questione definitoria, ma il potere ‘santificante’ della parola democrazia contribuisce in questo senso a una certificazione di garanzia per gli Stati.
A complicare ancora di più il quadro vi è la frequente combinazione di queste due posizioni con i problemi associati ai flussi di immigrati e rifugiati e alla crescente xenofobia che ne deriva. Si può notare, per es., che nel dibattito interno al Regno Unito, Paese rimasto ampiamente al riparo dai movimenti di massa degli immigrati che fuggivano dal disastro in Medio Oriente, la libera circolazione all’interno dell’Unione Europea è stata volutamente confusa con le migrazioni e strumentalizzata come tale.