I
nizi un film; lo interrompi per cercare su Google la storia vera da cui è tratto; clicchi sul profilo Twitter di uno dei protagonisti; da lì vedi la foto di un gatto; la mandi a un amico; cerchi su Wikipedia come è andata a finire la storia vera del film che stai guardando; poi leggi l’articolo su “insonnia congenita fatale”, suggerito come lettura simile; poi torni a vedere il film fino a quando il tuo amico ti risponde con la gif di un vombato che ruzzola. Questo è in larga misura il modo in cui percepiamo, oggi, le storie. Eppure continuiamo a raccontarle secondo una linearità classica, sperimentata, che vede un inizio, una serie di passaggi intermedi articolati in “scene” (ambientazione, azione, reazione, scioglimento) e una fine che chiude sia un arco narrativo che un percorso di scoperta o trasformazione dei personaggi.
Io odio Internet, un romanzo di Jarett Kobek appena uscito per Fazi, è un tentativo di superare questa struttura – che Kobek, con un filo di sarcasmo, definisce quella del “buon romanzo”. Nelle prime pagine di Io odio Internet ci sono: uno scandalo online; una breve analisi delle regole degli scandali online; una digressione sui possibili significati che si annidano dietro alle abbreviazioni sgrammaticate usate negli insulti online; la storia di un fumetto su un gatto antropomorfo che ha conosciuto un piccolo successo negli anni Novanta; una lista di svantaggi strutturali affrontati dagli afroamericani che volevano lavorare nell’industria del fumetto; un rapido profilo di Sheryl Sandberg; e poi: un’alcolista, un turco il cui nome significa inferno, il vincitore di due Academy Awards, due o tre battute amare ma ben riuscite, e ovviamente Facebook.
Nel senso tecnico in cui la intendono i manuali di scrittura creativa, non c’è neanche una “scena”. Questo non significa che non succedano cose, o non ci siano personaggi, situazioni ed eventi; ma che l’esperienza di lettura è meno simile a quella di un Tolstoj o un Franzen che a quella di essere su Twitter. La trama non è una linea, più o meno ricamata di flashback; è una spirale che parte da un evento e si allarga per associazione, prossimità, analogia, approfondimento, e poi torna a riprendere l’evento iniziale prima di perdersi di nuovo. (Forse è anche il modo in cui le viviamo; forse è anche il modo in cui le abbiamo sempre vissute, e la linearità della narrazione classica non era che una superfetazione resa possibile da un medium oggi sempre più minoritario; ma divago.)
La vicenda del romanzo ruota intorno ad Adeline, californiana autrice di un fumetto indie negli anni ’90 e ascesa, per varie ragioni, a una seconda ondata di notorietà nel mondo di oggi, a cui ovviamente segue uno scandalo online. Kobek ne segue le ripercussioni intrecciandole alla storia della vita di Adeline, che orbita fra la San Francisco della controcultura novecentesca e quella del turbocapitalismo startupparo di oggi. Il contrasto non è risolto in forma nostalgica, ma permette di mettere in evidenza alcune trasformazioni che, dal tessuto sociale della città, hanno permeato i suoi prodotti – cultura prima, tecnologia oggi – e quindi la vita di chi li usa. La narrazione procede per capitoli brevi e movimentatissimi, divertenti e sorprendenti e crudeli. È difficile da riassumere, o meglio è inutile da riassumere, come è inutile da riassumere l’ultima mezz’ora che ho passato su Twitter. Ero su Twitter.
Il sottotitolo di Io odio Internet è “un romanzo utile”, e Kobek intende questa espressione in senso politico ed etico. La “vita digitale”, qualunque cosa sia, è ormai una parte estremamente consistente delle nostre vite, eppure per varie ragioni è raffigurata molto di rado nella letteratura e nel cinema. Questo dipende da molte ragioni (differenze generazionali, difficoltà tecniche di rappresentazione, conformismo), ma l’effetto che ha è di aumentare la percezione dell’irrilevanza della narrativa, una scollatura fra ciò che ci si aspetta che faccia – raccontare il mondo – e ciò che effettivamente riesce a fare.
Leggendo Kobek si sviluppa un progressivo senso di fiducia nella possibilità che questa irrilevanza sia solo temporanea. Per questo ne ho voluto parlare con lui.
Cosa intendi con “buon romanzo”?
Un romanzo diverso da quello che ho scritto [ride]. Il modo migliore per descriverlo è un romanzo scritto da qualcuno che cerca di dare una rinfrescata a un approccio alla narrazione nato fra il diciannovesimo e il ventesimo secolo. Gli ingredienti sono una certa enfasi sull’idea di personaggio, una idea di vita lineare, una catarsi emotiva sul finale, e in generale una tendenza, più o meno nascosta, a risolversi in una presentazione di classe. Un buon romanzo è principalmente un romanzo che parla della classe medio-alta, sconfinando a volte un po’ più su o un po’ più giù, ma mantenendosi principalmente al centro. È una rappresentazione dei suoi lettori, o di quelli che potrebbero ragionevolmente essere i suoi lettori se fossero teletrasportati in un’altra epoca o in un altro luogo. E in questo non c’è nulla di sbagliato, solo che non penso che abbia la minima possibilità di inquadrare il momento che stiamo vivendo.
E un “cattivo romanzo” sì? Ma un cattivo romanzo cos’è?
Un romanzo di Vonnegut! [ride]
Un modello evidentissimo in quello che scrivi.
Esatto. Vonnegut è uno scrittore che ammiro infinitamente, e credo che non abbia mai ricevuto l’attenzione che merita. Ha scritto dei libri di grandissimo successo, ma non è mai stato considerato uno scrittore sperimentale. Ma se ci pensi – e questa è una delle ragioni per cui Vonnegut ha esercitato un’influenza così forte su Io odio Internet – nella letteratura statunitense del ventesimo secolo è stato quasi l’unico a produrre una forma in grado di inquadrare il momento presente. Certo, ce ne sono stati altri, ma sempre chiusi, complessi… la letteratura statunitense è spesso molto formale, manierista. Ma, diciamo così, queste maniere sono datate, adesso, questa forma è morta, ma i romanzi che vengono pubblicati continuano ad attenersi a quell’etichetta. Henry James. La complessa vita interiore di una famiglia borghese di Boston, ambientata nel ventunesimo secolo.
In questo senso Vonnegut è estremamente contemporaneo – anche lui cercava di superare quell’etichetta. Eppure le sue tecniche sono state inventate in un’epoca in cui non erano necessarie come oggi.
Penso che forse il fatto di essere bombardato dal tuo stesso paese mentre sei prigioniero a Dresda gli abbia offerto un momento, come dire, di chiarezza esistenziale. E poi ha passato vent’anni a cercare un modo di rendere su pagina quel momento, e da qui è nato Mattatoio N. 5. Forse era solo più avanti. Non sto dicendo che l’esperienza di un utente di Twitter è paragonabile a quella di un prigioniero di guerra a Dresda, ma forse si prova una punta, minima, di uno spaesamento simile. Un posto in cui le categorie con cui si è abituati a vivere non tengono più. E finché provi a scrivere un romanzo con quelle categorie, be’, non funziona.
Una delle cose che più mi colpiscono di Vonnegut – e anche del tuo romanzo – è che prende atto del fatto che l’attenzione del lettore è fuggevole, corta. E quindi adotta tutta una serie di tecniche per garantire che le questioni che gli stanno a cuore riescano comunque ad apparire chiaramente a chi legge.
Sì! Ma secondo l’etichetta del “buon romanzo” questa ripetitività è un segno di sciatteria. Eppure io ci trovo qualcosa di molto generoso.
Domanda trabocchetto. Una generosità simile io la ritrovo nei romanzi di Ayn Rand, anch’essi considerati brutti e sciatti. Per lei non era un tentativo di apertura, un’esigenza di comunicare qualcosa, ma una strategia politica – il modo di assicurarsi la diffusione efficace di un’idea. E ha funzionato. Si potrebbe dire che i suoi romanzi sono le opere di narrativa che hanno avuto il maggiore impatto sul “mondo reale”, qualunque cosa sia, dopo la Bibbia.
È vero. Nessun altro romanziere ha avuto un rapporto tanto diretto coi centri di potere. E sì, è perché i suoi romanzi sono brutti. Sai, è strano, ma c’è una differenza enorme fra il modo in cui legge la maggior parte della gente e il modo in cui sono scritti i “buoni romanzi”. Specialmente negli Stati Uniti, gli scrittori hanno l’illusione che un “buon romanzo” abbia un pubblico potenzialmente molto vasto – non enorme, ma diciamo centomila persone. È tantissimo, sembra il mondo intero! E per chi fa lo scrittore lo è – l’effetto-bolla non è nato con Facebook. Ma sono convinto che questo mondo non sia neanche lontanamente rappresentativo della società, specialmente se si vogliono toccare temi politici. Questo romanzo è nato dalla decisione di non scrivere per gente con cui ero già d’accordo. Poi, magari, hanno comunque deciso di leggermi, ma Io odio Internet è rivolto agli altri. È un tentativo di capire se si riesce a stabilire un qualche tipo di comunicazione. Perché ci sono cose di cui bisogna parlare, tipo Internet.
E in effetti i romanzi fanno molta fatica, no? Penso a Purity, di Jonathan Franzen, ad esempio, ma anche a The Circle di Dave Eggers. In entrambi i casi (il primo mi è piaciuto, il secondo meno) si percepisce la tensione generata quando gli ingranaggi della narrativa ottocentesca devono macinare un contenuto come Internet. Non sono fatti per questo. Nel tuo caso, la sensazione che ho avuto leggendo Io odio Internet è che Internet non fosse un generico contenuto con cui riempire una forma, ma anche una forma.
Ho la sensazione che molti romanzi letterari che parlano di temi legati alla rete, almeno negli Stati Uniti, non se ne fanno davvero contaminare – in fondo sono sempre la stessa roba, personaggi trama e catarsi. Ma Internet non funziona così. Internet è una serie di spasmi arbitrari di crudeltà inframezzati da foto di gattini. E volevo scrivere un romanzo che funzionasse allo stesso modo.
Certo, uno potrebbe dire: perché un romanzo?
Perché in un romanzo si può mentire. Con un’impostazione saggistica, questo libro non avrebbe funzionato.
No, intendevo: perché un libro? Perché voler raffigurare Internet in una serie di quadrati fatti di alberi macerati? Perché non un altro formato?
Ah. Non so. È una domanda che mi sono posto spesso. Sai, non cedo molto ai sentimentalismi, ma nei confronti dei libri, dei romanzi, forse un po’ sì. Forse non c’era una ragione specifica, intrinseca, perché questa storia fosse un romanzo anziché qualcosa di più fluido, digitale, ma mi sembrava una buona idea. Volevo scrivere un romanzo su Internet, e lo stile è emerso spontaneamente mentre scrivevo. Dopo qualche giorno che andavo avanti ero indeciso se il risultato fosse raccapricciante o bellissimo; poi mi sono detto che era entrambe le cose. E in questo senso era simile a Internet.
Eppure leggendo il romanzo si ha la sensazione che ci sia qualcosa di rigido, di determinista, nel giudizio che dai su Internet – un’arma sviluppata dall’esercito e usurpata dalle corporation, che storicamente non poteva avere altro esito che arricchire pochi plutocrati. Ma mi verrebbe da dire che non doveva per forza andare così: negli anni Novanta la percezione evidente, anche la nostra di utenti adolescenti, era che le potenzialità fossero molto diverse, più libere.
Ciò che poteva andare diversamente dipendeva dalla legge più che dalla tecnologia, non è stato determinato dall’industria. Sono state prese delle decisioni: principalmente il Communications Decency Act del 1996, una legge per contrastare la pornografia che in seguito è stata abrogata tranne che per la parte relativa alla platform neutrality. E da questa parte dipende molto di ciò che è successo poi. Quindi sì, poteva andare diversamente, se le leggi fossero state diverse. Ma la ragione per cui ci sarebbero servite – ci servono – delle leggi è per frenare una tendenza intrinseca di queste tecnologie. Sono tecnologie militari. Sono state sviluppate per l’intelligence e per la propaganda e per il controllo, ed è ciò che continuano a fare. Forse l’unica idea veramente buona di questo libro, l’idea che in fondo è nato per comunicare, è che il sistema ideologico di chi crea una tecnologia informa quella tecnologia stessa, ne determina le possibilità.