A lzi la mano chi sa cos’è il Del-Em. Per i molti profani, si tratta di un dispositivo progettato per la suzione del rivestimento endometriale attraverso una siringa e un tubo flessibile inserito nella cervice. Suppongo che non sia molto noto perché io stessa, nonostante abbia le mestruazioni da ormai quasi vent’anni e da numerosi mi occupi di questioni legate al femminismo, ricordo di aver scoperto della sua esistenza solo un paio di anni fa. Ne trovai notizia in un libretto impolverato dalla copertina pop titolato Manuale di autocura e autogestione aborto rinvenuto per caso nella vecchia casa di famiglia di un’amica. Sopra al titolo, la collana (“Controcultura”, numero 10). Era un volume di stampalternativa del 1975. “È il momento della verità!”, si leggeva in stampatello nel balloon lichtensteiniano che usciva dalla bocca della donna disegnata in copertina.
Sapevo vagamente che tra i metodi per abortire, anche e soprattutto tra quelli procurati clandestinamente dalle donne prima della legalizzazione, c’era quello di estrarre con un tubo il contenuto dell’utero. A sconcertarmi fu invece la scoperta che il metodo del Del-Em serviva anche e inizialmente per estrarre il sangue mestruale all’inizio del ciclo, tutto in una volta. Avendo vissuto in un’epoca in cui l’aborto era legale, non mi ero mai preoccupata troppo delle tecniche a disposizione: si trattava di competenze che ero disponibile a delegare ai medici in caso di necessità. Diversamente, non avendo mai fino in fondo accettato l’ingiustizia di avere il ciclo una volta al mese, mi ero spesso interessata all’esistenza in fase di sperimentazione di pillole contraccettive sprovviste dell’inconveniente del ciclo “fittizio” e artificiale provocato dalle pillole in commercio.
Parlandone su forum e siti femministi mi ero sentita dare della “rinnegata” e della “femminista liberale”, perché le mestruazioni erano una cosa “naturale” e volersene disfare equivaleva a piegarsi al sistema neoliberale della produttività a ogni costo, progettato su misura del maschio bianco cisgender eterosessuale e che non si adeguava ai ritmi della femminilità. Scoprire che delle donne molti anni prima avevano autonomamente scoperto un metodo per evitare il sanguinamento mestruale mi fece sentire meno sola, da un lato, e mi rese più consapevole riguardo all’ideologia che permane nella medicina occidentale, soprattutto quando riguarda le scelte riproduttive di genere.
Mi è sembrato quindi molto significativo che il Del-Em sia la tecnologia che la filosofa inglese Helen Hester prende a modello nel suo libro Xenofemminismo recentemente tradotto da Nero. Filo rosso del testo – presentato come contributo basato “su una selezione del tutto personale di materiale critico” – è “la riproduzione sia biologica che sociale”. Il self-help femminista della seconda ondata riguardo l’aborto presenta tutte le caratteristiche del progetto “tecnomaterialista” dello xenofemminismo, già abbozzato da Laboria Cuboniks, il collettivo di cui fa parte Hester, nel Manifesto Xenofemminista del 2015.
Gli strumenti hanno degli utilizzi che vanno oltre le intenzioni dei loro padroni.
In quello stesso manifesto troviamo uno slogan che riassume bene il progetto, che propone una riflessione radicale sui temi della natura, della tecnologia e del genere: “Se la natura è ingiusta, cambiala!” Per capire meglio cosa si intenda, torniamo al Del-Em. Hester spiega che lo strumento era stato inventato per “ripristinare l’autonomia corporea delle persone che si sentivano private dei propri diritti nelle interazioni con il sistema medico, e di quelle che erano escluse dal processo decisionale attivo riguardo le proprie cure” attraverso un protocollo condiviso (veniva utilizzato da donne su altre donne, non individualmente), riproducibile gratuitamente (attraverso materiali comuni e di recupero), ricontestualizzabile e adattabile a seconda dei diversi contesti sociali e geografici d’utilizzo.
Si trattava insomma in questo caso di una tecnologia già nata e progettata per venire incontro a necessità specifiche di emancipazione, ma il discorso può (e deve, secondo il collettivo) valere anche per quanto riguarda altri dispositivi – la rete, in primis, sulla scia del cyberattivismo degli anni Novanta – che possono essere riappropriati e riproposti in direzione di nuovi obiettivi politici.
Gli strumenti del padrone possono demolirne la casa? “Sì”, risponde senza ambiguità Hester riportando le parole di Lucca Fraser, altra componente del collettivo: “gli strumenti sono esattamente questo, hanno degli utilizzi che vanno oltre le intenzioni dei loro padroni”. Il procedimento di riappropriazione e di hacking non può restare appannaggio di gruppi isolati, spiega Hester (prevenendo ogni sospetto di folk politics locale e isolazionista di cui si potrebbe tacciare il progetto): deve situarsi su un piano “mesopolitico”: operare cioè “nello spazio che intercorre tra gli interventi atomizzati e iperlocali (micropolitica), e i progetti speculativi di vasta scala fondati sul completo rovesciamento di potere a livello statale, e oltre (macropolitica)”. Valutare insomma la praticabilità e il valore di interventi politici circoscritti sulla base della loro universalizzazione, e viceversa la validità di progetti universali su quella della loro sostenibilità su piccola scala – anche individuale.
Una vera e propria sintesi dialettica, che non si limita a un prontuario per l’attivismo, ma che intende rifondarlo, sanando fratture interne alla sinistra contemporanea mettendone in discussione numerosi e spesso opposti assunti di base. Il dibattito sulla tecnologia, come visto, scisso tra tecnoscettici e tecnoentusiasti, si può ricompattare chiarendo che questa non è neutra bensì legata a utilizzi specifici e politicamente orientati, in cui in altre parole la decisione umana e l’approccio critico restano imprescindibili.
Non vi è alcuna razionalità ‘femminile’, né ‘maschile’. La scienza non è un’espressione, ma una sospensione del genere.
Il mito della natura
L’altro “mito” da contestare, secondo il collettivo, è quello della natura e dell’ideologia che la circonda. Per chiarire questo punto ricorrerò di nuovo alla mia esperienza personale. Con il procedere degli anni le mie preoccupazioni, da quelle legate alle mestruazioni e all’aborto, si sono spostate sulla maternità. Procreare o meno, in una fase storica in cui le politiche riproduttive, il calo della natalità e il problema della sovrappopolazione mondiale sono al centro della retorica politica, diventa un problema di natura ideologica che va ad aggiungersi a quello strettamente individuale. “Il dibattito aperto che lentamente si sta sviluppando penso renderà più chiaro alle donne cosa esattamente vogliono fare della propria vita e del proprio corpo, subendo meno il peso delle pressioni sociali che ancora esistono” auspica Margherita Seppi su Yanez. E che il dibattito sia aperto lo dimostrano interventi usciti lo scorso anno sul tema su una stessa testata. Da un lato Jennifer Guerra si concentra sulle confutazioni scientifiche dell’esistenza di una “tendenza primordiale al desiderio di maternità”, dall’altro Lucia Brandoli afferma che “L’istinto materno non è, a differenza di molte altre sovrastrutture sulla maternità, un’idea sociale, ma è parte della natura, nasce dai nostri stessi ormoni, anche se qualcuno sostiene il contrario”.
Il progetto xenofemminista si pone tra queste due posizioni, rifiutandole e insieme accogliendole entrambe come scelta individuale, sostenendo un controllo “conteso” della natura: la sua posizione è quella di un “rifiuto di inquadrare la natura sempre e soltanto come il limite irremovibile degli immaginari emancipatori”. Insomma, è indifferente se esista o meno un istinto “naturale” alla procreazione, perché qualunque “natura” non è indipendente dalla possibilità di un intervento razionale e soprattutto politico. In particolare questa posizione si basa sulle teorie della filosofa del postumanesimo Donna Haraway, secondo la quale “appellarsi al naturale e al puro non aiuterà nessuno sul piano emotivo o intellettuale, e nemmeno su quello morale o politico”. In particolare, secondo lo xenofemminismo, “la natura offre un’alienazione incantata (…), raggiunta attraverso l’assoggettamento del corpo fecondato a forze che sfuggono al suo controllo. Sarebbe questa, a quanto pare, la fonte della soddisfazione che gli esseri umani cercano: l’esaltazione dell’incertezza, dell’imprevedibilità e della privazione dei diritti”.
Posizioni come quelle di Brandoli sono, per usare la critica del libro di Hester, “a un passo dal romanticizzare la messa in pericolo del corpo”, come dimostra questo passaggio dal suo articolo: “Mi sembra che la ricerca dell’indipendenza di noi donne sia diventata – e si sia confusa con – un’indipendenza dalla natura. (…) Non vogliamo più avere il ciclo, non vogliamo provare dolore durante il parto, senza renderci conto che così ci mettiamo nelle mani della tecnologia farmacologica e dell’uomo”.
Non si tratta di abolire le differenze, piuttosto di moltiplicarle.
Ma, per rispondere con le parole del manifesto, “Affermare che la ragione o la razionalità sia ‘per natura’ un’impresa patriarcale è ammettere la sconfitta. Non vi è alcuna razionalità ‘femminile’, né ‘maschile’. La scienza non è un’espressione, ma una sospensione del genere. Se oggi è dominata da ego maschili, allora è in contraddizione con se stessa – e questa contraddizione può essere sfruttata”. Obiettivo dello xenofemminismo è, in questo contesto, “rifiutare l’inevitabilità della sofferenza”, tenendo in considerazione il fatto che “i soggetti fecondabili apprezzano il controllo attivo sui propri corpi” come ad esempio l’epidurale durante il parto.
Abolire il genere
Un altro obiettivo fondamentale del progetto filosofico e politico dello xenofemminismo è l’abolizione del genere. Nella Dialettica dei sessi (1970), Shulamith Firestone sosteneva che, come l’obiettivo finale della rivoluzione socialista non era solo l’eliminazione del privilegio di classe, ma quella delle classi stesse, così doveva accadere anche con il genere. Oggi è in questa direzione che “la lotta deve continuare”, scrive Hester, “finché le caratteristiche che oggi vengono sessuate e razzializzate non smetteranno di essere criteri di discriminazione al pari del colore degli occhi, o le efelidi o la capacità di arrotolare la lingua; ovvero finché non smetteranno di essere il criterio di un’identità socialmente decifrabile”.
Si tratta insomma di “demolire ogni marcatore d’identità utilizzato per nutrire ingiustizie”, non di abolire le differenze (anche perché “l’idea di ciò che è ‘di genere’ si associa in modo sproporzionato al femminile”) piuttosto di moltiplicarle, opponendosi e superando anche l’obiettivo di una costellazione plurale ma statica come quella delle identity politics LGBTQI+: in modo ancora più radicale, lo xenofemminismo, si legge nel manifesto, “nomina la ragione quale motore di emancipazione femminista e dichiara il diritto di tutt* a parlare come nessun* in particolare”.
Realizzare il futuro
La stessa radicalità è dimostrata, tornando al tema della riproduzione, nella critica che Hester non lesina alle posizioni di Haraway o dell’ecofemminismo quando invocano un controllo della natalità, argomentando spesso che la popolazione umana è incompatibile con la sopravvivenza dell’ambiente.
Questa invocazione, riassume Hester, ha legittimato storicamente la sterilizzazione di donne di colore, e tuttora rischia di contenere in nuce un privilegio di classe che ignora tanto la storia del proletariato, in cui fare molti figli era una necessità legata alla sussistenza, quanto le circostanze socioeconomiche dei Paesi del sud del mondo e i loro rapporti con l’Occidente. Per questo Hester sostiene che il programma xenofemminista deve “agire in solidarietà con i soggetti fecondabili che svolgono il lavoro riproduttivo”, considerandoli cioè tra i primi alleati e beneficiari del progetto.
Il programma xenofemminista agisce in solidarietà con i soggetti fecondabili che svolgono il lavoro riproduttivo.
Allo stesso modo critica un altro filosofo fondamentale per il pensiero queer: Lee Edelman, che nel suo saggio ormai classico No Future opponeva il godimento immediato, rappresentato dall’omosessualità, all’etica eteronormativa della riproduzione. L’etica “egoista” che rifiuta il futuro, però, è stata già perfettamente sussunta dal neoliberismo, sostiene Hester, che propone invece, sintetizzando ancora una volta tra desiderio individuale e collettivo, un modello di solidarietà “con i bambini realmente esistenti (…) come espressione di un impegno generale a dare asilo, per quanto possibile, ai soggetti precari e gli oppressi. (…) Un atto di solidarietà con i nuovi arrivi di ogni tipo (dai soggetti migranti alle nuove figure tutrici, fino alle persone giovanissime)”.
È proprio in questo che risiede lo “xeno” dello xenofemminismo: “una cornice che non rifiuta il futuro, ma lo intende come il non ancora realizzato, l’emergente, ciò che deve ancora venire”. Si tratta insomma di riconoscere dialetticamente “la possibilità costante che la ripetizione possa far emergere la differenza”, quindi anche attraverso la procreazione, che come la tecnologia non ha nulla di innato, ma che può generare qualcosa di nuovo e diverso, e la cui diversità può proliferare se accolta da un contesto incoraggiante e solidale. Un nuovo nato, insomma, è un essere in potenza, un “alieno”, qualcosa di imprevedibile nei suoi risultati, proprio come ogni forma di relazione, legame e alleanza che si può stringere. “I legami di sangue possono diventare anch’essi xenofamiliari attraverso un orientamento costante alla solidarietà concreta”, una solidarietà “proiettata all’esterno verso l’alieno, l’estraneo e la figura dello straniero, anziché una solidarietà limitata al familiare, al simile e alla figura del compatriota”.
In La teoria freudiana e la struttura dell’antisemitismo, Adorno osservava che la dinamica per la quale tendiamo a distinguere rigidamente tra un gruppo di simili con i quali ci sentiamo solidali e un gruppo esterno, di “diversi” che rifiutiamo, è diventata, all’interno del capitalismo, talmente evidente che la domanda sul perché questo accada (e quanti tratti patologici questo presenti) non viene più nemmeno posta. Non è un caso se Hester sostiene che quella xenofemminista è una “lotta necessariamente orientata al post-capitalismo”. In contraddizione con tanto ecofemminismo, non parla mai di Antropocene, quanto di Capitalocene, a corretta dimostrazione di quanto il sistema economico vigente sia quanto di più contrario a una politica che metta al suo centro l’essere umano.
Perché la razionalità umana, pienamente dispiegata, rifiuta ogni antropologia del dato, non vede una reale contraddizione tra desiderio individuale e collettivo, mira a “progettare un’economia che liberi il lavoro riproduttivo e la vita familiare e al tempo stesso costruisca modelli di famiglia liberi dalla routine mortifera del lavoro salariato”, rivolgendosi “ai bisogni specifici delle persone”. Non c’è niente di più umano, a ben guardare. O forse niente di più alieno.