I n Superonda, volume pubblicato un paio d’anni fa, Valerio Mattioli ha raccontato la “storia segreta della musica italiana”: un percorso alternativo e sotterraneo che solo a tratti torna in superficie sfiorando quello più canonico a base di cantautori, Sanremo e rock italiano. Il periodo affrontato è, all’incirca, quello che va dal 1964 al 1976, una finestra temporale focalizzata su quegli artisti che, citiamo la quarta di copertina, “riuscirono a sviluppare linguaggi originali e in grado per la prima volta di proiettare la musica italiana all’estero, esercitando una sotterranea influenza sul mondo dell’elettronica, del rock alternativo, e delle musiche sperimentali”. Autori di dischi passati quasi inosservati all’epoca, dimenticati in fretta oppure circolati in maniera carbonara, ma anche artisti – è il caso di Ennio Morricone e, per certi versi, di Franco Battiato – celebri e celebrati per la parte più emersa della loro produzione ma segretamente influenti, in ambiti spesso lontani da quelli in cui ne è maturato il consenso, attraverso le loro opere più oscure.
Alla prima categoria appartiene il napoletano Luciano Cilio, il cui unico album pubblicato in vita, Dialoghi del presente, viene descritto con tratti immaginifici da Mattioli: “un reticolo di timbri (tutti acustici) che dolenti fluttuano tra i riflessi di un lago di fine estate, di voci che solenni si spogliano di qualsiasi angoscia o pena”. Un disco pubblicato dalla EMI italiana nel 1977, riportato alla luce dopo un lungo oblio nel 2004, con un nuovo titolo, Dell’universo assente. Edizione, quest’ultima, pubblicata dall’etichetta milanese Die Schachtel, specializzata nel recupero della musica di confine a cavallo tra elettronica e avanguardia, e curata da Girolamo De Simone, pianista, compositore e teorico che nel corso degli anni è stato il depositario della memoria artistica di Cilio. Coautore, con De Simone, delle note di copertina è Jim O’Rourke, personalità di spicco del rock di confine a partire dagli anni Novanta, collaboratore di gruppi come Sonic Youth e Wilco, autore in proprio di dischi pop sui generis e di una serie sconfinata di incursioni nell’ambito dell’improvvisazione più radicale, nonché esegeta, già in tempi non sospetti, di Luciano Cilio. Controprova perfetta della tesi che sta alla base di Superonda. Nel 2013 una nuova ristampa, ulteriormente ampliata con partiture reinterpretate e provini, veniva recensita in termini entusiastici su Pitchfork.
Ma chi era Luciano Cilio e come era arrivato a incidere un lavoro inclassificabile, letteralmente inaudito, con il marchio di una major, in una collana che pubblicava Francesco Guccini e che in quello stesso 1977 dava alle stampe l’esordio di Pino Daniele, Terra Mia? Un polistrumentista e compositore autodidatta, con alle spalle studi di architettura e scenografia, affascinato negli anni formativi dalle teorizzazioni di John Cage e dallo studio del rapporto tra suono e immagine, che aveva incominciato a frequentare l’ambiente del teatro sperimentale napoletano e allo stesso tempo i territori della musica pop più irrequieta e aperta alle novità. Un artista che si era ritrovato fin dall’inizio sulla soglia tra due mondi. Quello di una musica sperimentale di orientamento più accademico, che mostrava una certa chiusura, per non dire ostilità, nei confronti di chi non aveva percorsi ortodossi alle spalle. E quello di un assai meno catalogabile universo pop – al di là dei contenuti musicali, pop nel senso di spinta generazionale e comunitaria, quella che si concretizzerà di lì a poco nei grandi festival che faranno sbocciare la scena progressive nostrana – sintonizzato su venti di cambiamento, desideroso di contaminare i generi e soprattutto lasciarsi contaminare da nuove geografie musicali.
Polistrumentista e compositore autodidatta, Luciano Cilio aveva studiato architettura e scenografia, era affascinato dalle teorizzazioni di John Cage e dallo studio del rapporto tra suono e immagine.
Cilio frequenta Alan Sorrenti, che all’epoca sta elaborando una personalissima e genuinamente sperimentale forma di progressive rock improntata alla ricerca vocale, con maestri ideali come Tim Buckley e Peter Hammill dei Van Der Graaf Generator. Ma anche i Saint Just guidati da Jenny, sorella di Alan, e quel Shawn Phillips, cantautore texano, che a Positano, all’alba degli anni Settanta, aveva creato una sorta di comune artistica frequentata da molti esponenti della scena partenopea, quella meno legata alle rispettive tradizioni di appartenenza.
Alcuni dei frequentatori del laboratorio di Phillips, tra cui il sassofonista Roberto Fix e il percussionista Tony Esposito (l’autore di Kalimba de Luna, all’epoca non ancora autore di successi estivi ma percussionista originalissimo e ricercatissimo), li ritroviamo in studio con Cilio a incidere Dialoghi del presente, che contiene musiche scritte molto tempo prima, presumibilmente al principio del decennio. La terminologia utilizzata nei titoli, con il ricorso a termini come “quadro” e “interludio”, non è quella solitamente associa alla musica pop, e i contenuti sono, come dicevamo, fuori dai canoni: una musica strumentale, acustica, fatta di archi, fiati, voci e percussioni, nella quale riferimenti altri – la tradizione raga indiana, ad esempio: in quegli anni Cilio viaggia parecchio e proprio in India impara a suonare il sitar – si infiltrano tra le maglie di un suono impalpabile. Suono che abita quello che O’Rourke definisce “un grande affresco dipinto con l’aria stessa nel quale è stato composto, come una stanza privata che non debba mai più essere visitata”: descrizione perfetta, con sfumature che toccano concetti come fragilità e incomunicabilità, decisivi ahimé anche al di fuori dell’arte in questo caso. L’autore di quella musica non sa tradurre le proprie idee in spartiti, non ha le competenze formali per farlo, e se da un lato è proprio quello il suo punto di forza, l’idea di comporre direttamente con il suono, lavorandolo e scolpendo gli arrangiamenti in un affascinante work in progress, d’altro canto diventa difficile trovare luoghi in cui – e canali attraverso cui – praticare e diffondere quell’arte così originale.
Quella di Cilio è “una musica che respira, poggiata su elementi di creatività comunitaria, ben al di là di linee soffocanti”, ci dice De Simone. “Una musica rizomatica, almeno finché non venne ostacolata dalle stesse idee accademiche che portarono al soffocamento di un’intera generazione di compositori, innescando una ben nota crisi, lo stallo tra musica contemporanea e mondo della fruizione”. Già, lo stallo. Dopo quel disco Cilio continua a scrivere musica, facendo però fatica, come si diceva, a trovare i contesti in grado di renderla fruibile.
Contemporaneamente, anche la via di fuga che poteva offrire la musica pop libera da steccati formali di inizio decennio si è ristretta. Tutto è diventato più ordinario e conformista anche lì, lasciando a poche oasi carbonare la libertà di sperimentare, con la consapevolezza che la stagione delle rivoluzioni è finita. Il concerto in memoria di Demetrio Stratos, cantante degli Area stroncato da una malattia fulminante nel 1979, è in qualche modo la rappresentazione simbolica della fine di quella stagione. Cilio partecipa al concerto, viene citato sulla copertina dell’album tratto dall’evento, e pubblicato dalla Cramps, ma non appare in scaletta. Anche in quel contesto amico, la sua musica non trova voce.
La vicenda dell’artista in anticipo sui tempi, ignorato dai contemporanei e riscoperto da pochi cultori in giro per il mondo, ha un’appendice: i nastri che si credevano perduti, ritrovati in maniera quasi casuale.
Cilio incontra tuttavia pianisti come Eugenio Fels, che diventerà il suo esecutore di fiducia, e continua a organizzare eventi, nel tentativo di allargare il discorso al mondo esterno. La sua città non sembra però essere particolarmente ricettiva (“città bellissima ma autoreferenziale, capace di condurre a un’emigrazione interna i suoi figli migliori”, dice De Simone di Napoli), gli ambienti accademici tengono le loro porte ben chiuse, e questa situazione di stallo protratta alla fine incide anche sulla creatività del musicista, che scrive sempre meno, approssimandosi a quel silenzio in precedenza così brillantemente inglobato nel tessuto della sua musica. “Credo fosse diventato, per lui, un problema di sopravvivenza: semplicemente non riusciva a vivere del suo lavoro. Fu poi segnato in modo indelebile e dannoso dall’incontro con l’accademia: il mondo della musica ‘sperimentale’ uccise materialmente o creativamente molti compositori, di cui potrei farti nomi e cognomi”, ci dice. “Era l’epoca degli ‘ismi’, delle furibonde liti sul modo di comporre. Si riteneva che solo un certo tipo di produzione ‘colta’ avesse dignità estetica”. Il 29 maggio del 1983, a soli 33 anni, Cilio decide di togliersi la vita. Al di là delle poche menti affini che lo frequentano, anche nell’ambito delle musiche di confine non sembrano accorgersene in molti.
La sua storia, la classica vicenda dell’artista in anticipo sui tempi, ignorato dai contemporanei e riscoperto da pochi ma motivati cultori in giro per il mondo, ha un’appendice: quella dei nastri che si credevano perduti, ritrovati in maniera quasi casuale lo scorso anno, che sono diventati prima un vinile in edizione limitata, poi un CD. I Nastri Ritrovati, pubblicati qualche mese fa con la doppia firma di Cilio e De Simone.
“Ho cercato per quasi quarant’anni, in ogni direzione possibile, la musica scomparsa di Luciano Cilio”, ci dice De Simone, il quale ha pubblicato i nastri attraverso Konsequenz, che è stata una rivista di critica e teoria musicale creata dallo stesso pianista e ora è una associazione culturale e una etichetta discografica orientata alla “ricerca storiografica, scientifica e didattica”. Il discorso implicito è piuttosto chiaro: d’accordo i culti sotterranei e le nicchie illuminate degli appassionati di musiche di confine, ma questa è una musica che va divulgata il più possibile.
De Simone si è dedicato a lungo alla ricerca del materiale inedito di Cilio, parte del quale è finito nelle ristampe ampliate di Dialoghi del presente: “Ho cercato i master registrati da Eugenio Fels e dagli altri suoi interpreti nel 1982-83, per la Cramps. Invano. Ho trovato qualcosa in alcune bobine, che hanno dato alla luce una versione differente, più lunga, del Primo Quadro di Dialoghi del presente, forse un pre-missaggio. In quelle bobine sono riuscito a rinvenire anche uno studio per fiati. Le mie ricerche mi hanno portato a trovare anche una vecchia cassetta, che conteneva delle improvvisazioni al pianoforte di Luciano. Ma sia le condizioni del nastro, sia il materiale musicale, non mi parvero degne di un riversamento digitale, e sono andate perdute. Nel frattempo, procedevo a decodificare le semiografie musicali lasciate da Luciano a me e a Eugenio Fels, suo interprete ufficiale, e a trarne spartiti leggibili da chiunque. Abbiamo suonato spesso in pubblico quelle musiche e alla fine le ho consegnate a Youtube, e a chiunque me le chiedesse, per garantire una continuità anche con un ‘segno’ più convenzionale”.
Poi, lo scorso anno, la scoperta, casuale solo fino a un certo punto: “La casualità sta esclusivamente nell’aver reperito una nuova bobina dove non mi sarei mai aspettato di trovarla. Un po’ come ne La lettera rubata di Poe, dove la lettera è sempre stata sotto gli occhi del narratore. Il nastro è venuto fuori durante un lavoro di digitalizzazione dell’intero archivio di proprietà di Eugenio Fels, che entrambi ritenevamo contenesse esclusivamente sue interpretazioni e composizioni”.
L’album seleziona un’ora di materiale tratto dai nastri, brani di durata e finitezza variabile, da lunghe composizioni per sitar, percussioni, fiati e violoncello, a studi per soli fiati, a tracce di sola chitarra, suonata dallo stesso Cilio, influenzata dai suoi studi sul raga indiano, nelle quali si possono riscontrare echi di spiriti affini attivi in ambiti e luoghi distanti come Nick Drake e John Fahey. In alcuni brevi frammenti si sente anche la voce del compositore che dà le indicazioni ai musicisti.
L’album seleziona un’ora di materiale tratto dai nastri, brani di durata e finitezza variabile, da lunghe composizioni per sitar, percussioni, fiati e violoncello, a studi per soli fiati, a tracce di sola chitarra.
Si tratta di materiali più grezzi rispetto a quelli di Discorsi del presente, e risalgono al biennio precedente. Ma le idee sono chiare: non si tratta di semplici abbozzi, sono tracce di quel work in progress tendente all’assoluto che anima tutta la musica del compositore. Nella loro scabra luminosità, i frammenti suonano ancora oggi freschi, opera di un artista che vedeva lontano, a malapena percepito dal tempo in cui è vissuto. “Luciano era un leader, uno che là dove metteva mano dava un ‘suono’ particolare. Un visionario, un musicista avanti di almeno trent’anni. Le sue collaborazioni partirono dal mondo del pop, e sono in parte raccontate in un mio librino intitolato Luciano Cilio mi disse. Ma ora, con i nuovi nastri, si può ascoltare quanto Luciano abbia preso dall’India, e come lavorasse con i suoi esecutori; come componesse accendendo un registratore e scolpendo via via le immagini fino ad arrivare alla definizione di ciò che aveva in mente. Ho dovuto compiere un processo, e scolpire via parte della progressione, quella non perfetta. Luciano non scriveva, non padroneggiava il metodo di notazione tradizionale. Quindi ‘annotava’ le idee incidendole, e successivamente procedendo con un lavoro certosino di missaggio, anche artigianale. Non erano tempi di calcolatori, ma lui componeva usando i mezzi che aveva a disposizione. I nuovi materiali ci mostrano anche con quanta facilità potesse dialogare con il jazz e persino con la supercolta, superandola naturalmente in qualità e spessore. Alcuni brani, naturalmente, i più lunghi, riportano rigorosamente ciò che c’è in bobina. Altri, in modo più o meno forte, vedono un mio intervento metacompositivo. Per questo motivo, anche per una forma di rispetto, i Nastri sono firmati da entrambi”.
I Nastri Ritrovati si chiude con l’ultima composizione di Cilio, Liebesleid, in una versione trascritta ed eseguita al pianoforte da De Simone. “È una versione inedita. L’ho messa a punto ben trentacinque anni dopo la morte di Luciano, e suonata a maggio, in prima assoluta, al Teatro Galleria Toledo di Napoli, per ricordarlo in occasione di una mostra a lui dedicata dal fotografo Fabio Donato. L’ho poi incisa quest’estate e pubblicata nel CD – non è presente nell’LP a tiratura limitata. Originariamente per voce e pianoforte, l’avevo resa con l’elettronica in Dell’universo assente, ma la nuova versione sceglie una linea più ardita: ho immaginato Luciano al pianoforte e non m’è parso plausibile che la linea del canto la suonasse forte come può emetterla un soprano ai limiti della sua estensione. Ho quindi prodotto un cluster al basso, quello sì in fortissimo, e su quel cluster ho inserito appena udibile, la sua ultima melodia”.
Liebesleid in tedesco significa “sofferenza d’amore”. Fino ad ora, avrebbe potuto essere interpretato come un messaggio rivolto a quel pubblico troppo a lungo assente. Ma forse finalmente il mondo è pronto per accogliere il linguaggio “arioso e multisegnico”, parole di De Simone, di Luciano Cilio.