S iamo nel 2010 e uno spettro di speranza diffusa si aggira per il mondo: i movimenti Occupy, la Primavera araba, i nuovi movimenti hacker politicizzati, Anonymous e Wikileaks. L’esplosione del fenomeno dei social media sembra dar ragione ai cyberutopisti della prima ora: la tecnologia sta permettendo un’organizzazione di movimenti politici spontanei, nati dal basso, senza leader e autorganizzati su scala mondiale. The Revolution Will Be Digitized, titolo di un fortunato libro pubblicato all’epoca, scritto da Heather Brooke, diventa il motto di quegli anni; tutti o quasi si lasciano trascinare da quella che Manuel Castells definirà rete del disgusto, un rifiuto morale rispetto allo status quo politico-economico post crisi del 2008, che viaggia e si diffonde sull’etere a velocità prima impensabili.
“Tanto fervore, però”, scrive Angela Nagle, “si spense nel giro di pochi anni”. La rivoluzione egiziana ha portato al potere i Fratelli Musulmani. I dimostranti di Occupy Wall Street sono stati cacciati dal suolo pubblico, “tenda dopo tenda” e si ritrovano senza obiettivi, oltre che senza spazio. Contro la vostra realtà. Come l’estremismo del web è diventato mainstream, il libro di Nagle (titolo inglese: Kill all normies) pubblicato in Italia dalla Luiss University Press è un’indagine in grado di sondare l’abisso virtuale e inconscio dal quale riemergono oggi i simboli, le parole e i pregiudizi legati ai fascismi di stampo novecentesco. Un libro sull’alt-right, come lascia intuire il sottotitolo italiano, ma non solo: una discesa nel profondo, nell’inconscio collettivo di una generazione che ha visto fallire i propri ideali di condivisione, comunità e senso d’appartenenza.
E per questo il suo racconto parte da qui, dalle speranze deluse e tradite, da questo viaggio al termine della notte. Come è stato possibile, si domanda Nagle, che in pochi anni il discorso riguardo alle giovani generazioni sia passato dalle proteste anticapitaliste e i movimenti per la democratizzazione, all’elevazione di rancore, misoginia, omofobia e razzismo a forme di presunta resistenza – simbolica e pratica – rispetto al soffocante ordine liberal-democratico dominato dal politically correct e dalle promesse di rinnovamento infrante?
Contro la vostra realtà è il tentativo più che mai necessario di evidenziare in modo deciso il collegamento che intercorre fra il risorgere di queste nuove forme di intolleranza e la ritirata rovinosa della sinistra contemporanea all’interno di spazi sempre più angusti, paranoici e inquisitori. L’entusiasmo della comunità nata intorno a Occupy, in particolare nella politica dei movimenti americani e inglesi, ha lasciato il passo in pochi anni a un altro tipo di comunità, fondata su settarismi e particolarismi, sull’esclusione mascherata da inclusione, in definitiva su una cultura della denuncia caratterizzata da un tratto che non era mai appartenuto fino ad allora ai movimenti sociali posizionati a sinistra, una bizzarra
commistione di vulnerabilità performativa, consapevolezza ipocrita e bullismo. Le dinamiche di questa cultura della denuncia sono state descritte brillantemente da Fisher come “guidate dal desiderio pretesco di scomunicare e condannare, da quello pedantemente accademico di essere i primi a individuare un errore e da quello hipster di essere parte delle persone che contano”
In quest’ottica, la tesi principale sostenuta da Nagle è che negli anni che intercorrono fra l’elezione di Obama e quella di Donald Trump, segnati per altro dai grandi traguardi mancati sia dai movimenti di massa che della politica mainstream, il web non abbia fatto altro che tramutarsi da oasi di speranza a campo di battaglia di una vera e propria guerra culturale i cui effetti si sarebbero poi riversati a macchia d’olio su tutto il tessuto sociale, travalicando agevolmente i confini dell’etere. Il libro si propone di ripercorrere in questo senso
tale periodo analizzandolo dal punto di vista della “cultura” e delle “sottoculture” di internet, cercando di ricostruire le guerre culturali che si sono combattute online, a volte senza essere intercettate dai radar dei media mainstream, su temi quali femminismo, sessualità, identità di genere, razzismo, libertà di parola e politically correct.
L’analisi di Nagle mostra come a cavallo di quegli anni Internet abbia assunto un ruolo decisivo nel dar forma e voce a quelle pratiche violente, deliranti e a tratti non sense figlie solo in parte di scontento e malessere diffuso, perfettamente in grado con il tempo di polarizzare il dibattito culturale a tal punto da permettere un passaggio di determinate tematiche sul piano della politica istituzionale. Forum, social media, piattaforme di microblogging: ogni spazio della rete immaginato in passato come libero e aperto al confronto, veicolo di quel disgusto in grado di sovvertire l’ordine presente, emerge nelle pagine di Nagle come laboratorio di degrado fisico e mentale in cui donne, comunità queer, afroamericani e in generale qualsiasi categoria non riassumibile in quella di maschio bianco eterosessuale esiste in definitiva unicamente in quanto nemico da abbattere. Una battaglia combattuta ai due poli estremi dello spettro politico, che all’interno di questa mappa concettuale mostrano però una chiara radice comune. Da una parte
una strana avanguardia fatta di adolescenti patiti di videogiochi, anonimi appassionati di anime giapponesi che amavano pubblicare svastiche sul web, conservatori fan di South Park, burloni antifemministi, molestatori nerd e troll creatori di meme dotati di umorismo nero e amanti della trasgressione fine a sé stessa
che la destra trumpiana è riuscita parzialmente a intercettare, fornendo un fronte comune, un simbolo, un nome spendibile nell’eterna lotta al politically correct; dall’altra un esercito di anime belle, di liberali borghesi illuminati, di attivisti da tastiera chiamati dal web in modo critico e ironico Social Justice Warrior, colpevoli di aver nascosto dietro un’adesione artificiosa e ipocrita alle fondamentali e rivoluzionarie battaglie per i diritti civili una “cultura della fragilità e del vittimismo, una violenza fatta di attacchi di gruppo, umiliazioni collettive e tentativi di distruggere la reputazione e le vite degli altri nel proprio stesso contesto politico, cultura in seguito denominata del ‘bullo piangente'”.
In sostanza quello che, in un editoriale fondamentale e molto discusso uscito in quegli anni, Mark Fisher, esponendosi a un profluvio di attacchi personali, vendicativi e di massa definirà come “fetore di una cattiva coscienza e di un moralismo da caccia alle streghe”. È così che, come descritto lucidamente da Nagle, in una continua corsa verso l’estremo ai sempre più feroci attacchi condotti da parte di queste comunità online, tenute insieme principalmente dall’odio verso tutto quanto percepito come diverso, la sinistra non ha saputo rispondere se non accelerando il suo stesso processo cronico di distacco dalla realtà.
È importante però sottolineare come la causa di tutto ciò non sarebbe da imputare, come vorrebbe una certa corrente interna alla stessa sinistra, a un’eccessiva attenzione riposta nei confronti delle battaglie sui diritti civili a discapito dell’aspetto prettamente economico e di classe, ma a un desiderio di scomunica, annichilimento e censura mutuato direttamente dall’immaginario repressivo di stampo borghese e clericale, che storicamente non aveva mai trovato spazio nelle narrazioni sviluppatesi a sinistra. In poche parole, uno stato di confusione e di isteria collettiva, colpevole di aver permesso negli ultimi anni alla nevrosi di sostituirsi alla politica, contribuendo sensibilmente a dipingere la destra agli occhi di un’intera generazione come alternativa credibile e a tratti persino rivoluzionaria.
Le guerre culturali combattute sul web negli anni sono diventate orrende, molto più di quanto avremmo potuto immaginare, e non si vede l’orizzonte di un’uscita facile. Tutto d’un tratto sembrano lontanissimi i giorni dell’utopia, della rivoluzione digitale senza leader di internet, quando i progressisti si rallegravano che il disgusto fosse diventato network e fosse esploso nella vita reale. Ora ci si augura semmai che il web possa contenere, e non favorire, ulteriori sviluppi della politica reazionaria e disumanizzante che lì è nata e che oggi, fatto inimmaginabile fino a pochi anni fa, si avvicina minacciosamente al mainstream.
O che forse, più realisticamente, ci è già arrivata.