L ea Melandri è tra le figure più importanti e autorevoli del femminismo italiano. Presidente dal 2011 della Libera Università delle Donne di Milano, di cui è stata, con altre, promotrice fin dal 1987 e dove continua a tenere corsi, la sua ricerca sulla problematica dei sessi, che occupa ancora oggi tanta parte della sua riflessione, è stata fondamentale, come provano molte delle sue pubblicazioni: L’infamia originaria (prima ed. 1977; nuova ed. 2018), Come nasce il sogno d’amore (prima ed. 1988; nuova ed. 2002), Le passioni del corpo. La vicenda dei sessi tra origine e storia (2001), Alfabeto d’origine. Memoria del corpo e scrittura dell’esperienza (2017). Sempre intenzionata a portare la sua ricerca nel dibattito pubblico, collabora attualmente con il manifesto e partecipa attivamente al movimento femminista di Non Una di Meno.
Il suo lavoro parte dal “lungo ‘68”, di cui ha attraversato e animato i movimenti non autoritari, in particolare quello nella scuola e quello femminista. Nel 1970 dà vita, insieme allo psicanalista Elvio Fachinelli e a Luisa Muraro, all’esperienza dell’asilo autogestito di Porta Ticinese a Milano. Il libro del 1971, L’erba voglio. Pratica non autoritaria nella scuola (a cura di E. Fachinelli, L. Muraro, G. Sartori, Einaudi) rappresenta una prima testimonianza dell’ampia riflessione aperta sulle pratiche antiautoritarie nel rapporto tra insegnante e alunno. A partire dal grande successo del libro e dal proliferare del dibattito al riguardo, sempre nel 1971 viene fondata l’omonima rivista, L’erba voglio (1971-1977), di cui Melandri è redattrice con Fachinelli, dove l’interrogazione e la critica del rapporto pedagogico si intrecciano con l’elaborazione femminista e con quella psicanalitica e antropologica, al fine di delineare una politica alternativa a quella istituzionale, capace di fare i conti con le profondità dell’umano, con l’inconscio e le sue pulsioni, per rimettere al centro il desiderio, contro la logica dei bisogni (criticata in quanto economicista) che pure imperversava nei gruppi della sinistra extraparlamentare. È nel 1998 che Lea Melandri cura la prima pubblicazione che raccoglie una serie di testi tratti dalla suddetta rivista, Il desiderio dissidente. Antologia della rivista “L’erba voglio” (1971-1977), che pochi mesi fa ha trovato nuova edizione per DeriveApprodi.
La ripubblicazione da lei curata di questa antologia si inserisce nel contesto delle tante iniziative sorte per celebrare il cinquantenario del ’68. La sua intenzione, però, non si colloca sul piano della semplice commemorazione, piuttosto chiama in causa una possibile riattualizzazione di quegli scritti, e soprattutto delle domande, dei gesti e delle vite in rivolta che questi sollevano.
Qual è l’attualità, dunque, del ’68? Per di più in un momento storico in cui i suoi nemici e più sferzanti detrattori sembrano aver avuto la meglio?
I movimenti non autoritari furono allora il sintomo di quella modificazione dei confini tra privato e pubblico che avrebbe conseguentemente portato a ridefinire la politica a partire dal suo atto fondativo, l’esclusione delle donne dal governo del mondo, il confinamento nel “privato” e nella “natura” delle esperienze più universali dell’umano: la nascita, la morte, la sessualità, la maternità, gli affetti famigliari, ecc. Il salto che fece allora la coscienza storica fu l’uscita da tutti i dualismi che abbiamo ereditato, non solo maschile-femminile, ma biologia-storia, individuo-società, sentimenti-ragione. Si trattava di trovare i “nessi” che ci sono sempre stati tra un polo e l’altro di una “rovinosa dialettica”.
Oggi quei confini sono decisamente saltati, e le viscere della storia, su cui poco si è indagato e riflettuto nel corso dei decenni successivi, rischiano di travolgere le istituzioni della vita pubblica e di spingerla verso forme arcaiche di autoritarismo, sorrette come sempre da pregiudizi sessisti, omofobi, razziali, nazionalisti. L’inattuale, il “non politico”, le formazioni inconsce, su cui avevano portato l’attenzione i movimenti del ’68, sono oggi più che mai l’“attuale” al centro dell’agire politico.
Ora che un’ondata neo-autoritaria rinsalda e rinnova le strutture gerarchiche, l’istituzione famigliare, intesa nel suo senso più tradizionale, viene posta al centro della società. L’esperienza dell’asilo autogestito di Porta Ticinese rappresenta un esempio prezioso attraverso cui tornare a interrogarsi sul ruolo decisivo dell’infanzia in ogni progetto di trasformazione radicale della società. Quale pensi sia il portato più rilevante della riflessione e delle pratiche non autoritarie nella scuola?
L’idea di aprire un asilo autogestito che potesse diventare un’“istituzione modello per l’educazione collettiva” nasce nell’inverno ’68-’69 nel controcorso di Pedagogia dell’Università statale di Milano, a cui fu invitato lo psicanalista Elvio Fachinelli. Il fine dichiarato, come si legge nel documento degli studenti, era di recuperare alla politica “i rapporti col corpo, con la dimensione biologica degli individui”, tenuto conto che “l’autoritarismo comincia nell’infanzia, attraverso la famiglia, da cui escono caratteri adattati e sfiduciati”. Come scrisse Fachinelli nel saggio Masse a tre anni, “eliminando la figura dell’adulto, astrattamente considerata ‘autoritaria’, si vede sorgere una gerarchia di ferro, basata sulla forza e sulla prepotenza. […] sembra di trovarsi in una società violenta tra il fascista e il mafioso”. E concludeva: “Qui la sola politica che abbia un senso è una politica radicale, nel senso marxiano di ‘prendere l’uomo alla radice’”.
Oggi, più che mai, se vogliamo affrontare le questioni di genere nella loro formazione in gran parte inconscia e archetipica – la fragilità e la violenza maschile come risposta alle libertà che le donne hanno conquistato –, dobbiamo partire dall’infanzia, dal processo di individuazione, che comincia nel rapporto con gli adulti che si prendono cura del bambino e che prosegue con la scuola. Il mio parere è che gli uomini dovrebbero cominciare ad avere quella famigliarità coi corpi – del bambino ma anche del malato, dell’anziano – che hanno lasciato alle donne, mutilandosi di aspetti essenziali dell’umano.
L’attuale ciclo politico reazionario si sta manifestando anche come rinnovata e violenta guerra contro le donne, spesso perpetrata proprio da quella famiglia che si vorrebbe – a forza di leggi – restaurare, ma ultimamente è esploso anche un nuovo movimento femminista di cui colpisce l’ampiezza e la ricchezza delle rivendicazioni. La vita nel suo insieme, in tutte le sue articolazioni, è messa in questione. Quali sono le continuità e discontinuità rispetto al femminismo degli anni ‘70?
Il ritorno a politiche di controllo sul corpo delle donne va di pari passo oggi con la ripresa di leggi ispirate al pregiudizio razziale, alla difesa della “purezza etnica”, all’omo-lesbo e transfobia. Il movimento Non Una Di Meno, oltre a essere internazionale, come lo fu il movimento delle donne degli anni ’70, si pone a mio avviso in linea di continuità con quella che fu allora la sfida ambiziosa del femminismo, la “modificazione di sé e del mondo”: partire dalla vita personale e dalla storia non scritta che vi è rimasta sepolta e naturalizzata per secoli, per ripensare il patriarcato e tutte le forme di dominio a cui ha fatto da fondamento, capitalismo compreso. Nel documento che promuoveva la manifestazione del 24 novembre, si legge: “Noi siamo il cambiamento […] vogliamo trasformare la società, il mondo intero”, manifestiamo contro “la violenza maschile, di genere e razzista e contro i governi che la legittimano”.
I “nessi”, che negli anni Settanta ci auguravamo di poter trovare tra sessualità e politica, sessualità e economia, sessualità e simbolico, oggi sono allo scoperto e sono al centro della “agitazione permanente” di una generazione giovane di donne e altri soggetti – lgbt*qia+ – che da due anni e mezzo riempie le piazze, tiene assemblee locali e nazionali, si interroga sull’intreccio delle appartenenze (di classe, sesso, “razza”, religione, ecc.). A loro si deve uno straordinario Piano femminista contro la violenza maschile sulle donne e la violenza di genere, in cui sono presenti rivendicazioni che vanno oltre il rapporto di potere tra i sessi, attente al dominio e allo sfruttamento in tutte le loro manifestazioni storiche. Quella che vedo e che più mi conforta e appassiona, è, almeno per ora, la continuità.
Recentemente hai scritto che l’esperienza della rivista L’erba voglio ha significato “fare cultura attraverso tutto ciò che la cultura tradizionale considera ‘rifiuti’, ‘scarti’, ‘tabù’, […] addentrarsi nel caotico mondo dell’antiragione”, per “aprirsi a prospettive impensate”. Oggi che l’inconscio collettivo mostra i suoi tratti più reazionari, razzisti e misogini, come si può fare a confrontarsi con le “viscere delle storia”?
È con questo inferno rimosso – fatto di arcaismi, pregiudizi, paure, odio, sogni, pulsioni di morte – che oggi fa i conti una società che ha lasciato incancrenirsi fino allo scollamento più distruttivo la separazione tra il corpo e la polis, tra l’individuo nella sua interezza e il cittadino, tra i bisogni reali di una cittadinanza e chi dovrebbe rappresentarli. La crisi della democrazia quale è stata finora e della rappresentanza, vanno affrontate proprio a partire da quella “parola contaminata”, intreccio di vita e politica, sentimenti e ragione, inconscio e coscienza, che aveva cominciato a farsi strada coi movimenti non autoritari degli anni ’70 e in particolare col femminismo. Parlammo allora, e lo riprenderei per la sua attualità oggi, di un “salvifico bilinguismo”. Laura Kreyder, redattrice della rivista Lapis, così lo definiva: “ragionare con la memoria profonda di sé, la lingua intima dell’infanzia, e, contemporaneamente, con le parole di fuori, i linguaggi della vita sociale, del lavoro, delle istituzioni”.