T utti i mercoledì, alle tre del pomeriggio, il coro si riunisce. Il signor G. è sempre il primo ad arrivare. Ha 54 anni, grandi baffi e un passato da cantante. Anche un presente, evidentemente: non manca una prova del coro e partecipa a tutte le esibizioni. Ma tra il suo passato di cantante e il suo presente di corista è capitato un imprevisto ingombrante, chiamato afasia.
La parola “afasia” fa pensare a qualcosa di simile al mutismo. Non è così: l’afasia è un disturbo del linguaggio, e il linguaggio è una funzione non fisica, ma neuropsicologica. Un paziente afasico in genere riesce ad articolare le parole, ma ha difficoltà nel tradurre il contenuto della propria mente in messaggi verbali: a trovare il vocabolo mela quando pensa a una mela, oppure, viceversa, a evocare nella sua mente una mela quando sente la parola mela. Nella maggior parte dei casi l’afasia è la conseguenza di un ictus, quindi un evento improvviso: oggi parli, domani non ne sei più capace. L’AITA, l’Associazione Italiana Afasici, stima 150.000 persone colpite in Italia e circa 20.000 nuovi casi ogni anno.
Per il signor G. il coro è parte della cura. Si chiama “terapia di intonazione melodica”: cantare per aggirare l’afasia. Nel suo caso si è rivelata preziosa, ma i pazienti per cui risulta efficace non sono molti. In genere si rivolge agli afasici che hanno conservato un buon lessico e anche una buona comprensione uditiva. Ma perché cantare può servire, talvolta, a ripristinare una connessione interrotta tra la mente e le parole?
Come in Cina
“I pazienti afasici si trovano improvvisamente nel silenzio. È come se si tuffassero in fondo all’oceano: è un casino. Apri la bocca e ti escono bollicine, e senti tutto attenuato, sai, come sotto il mare”. Sono al telefono con Camilla Buitoni, logopedista alla Fondazione Santa Lucia di Roma. “Apri la bocca e ti escono bollicine”, continua, descrivendo la condizione di un afasico, “parole senza senso, o parole male articolate, o non ti escono le parole, e quello che senti è molto attenuato dalla presenza dell’acqua. Non capisci quello che dicono. È come se ti mandassero in Cina. Che difficoltà ha un afasico? Le stesse che puoi avere tu in Cina.” Mi parla con grande sicurezza, e a seconda dei momenti dell’intervista usa registri molto diversi: un linguaggio tecnico, formale, autorevole, nel descrivere sintomi e quadri clinici; un tono colloquiale e colorito quando mi racconta le storie dei pazienti. Ogni parola è “vestita” con precisione di tono, timbro, emotività. È facile immaginare che questa ricchezza espressiva faccia parte del suo mestiere.
Il suo ruolo di logopedista ha portato Camilla Buitoni a contatto con un’infinità di situazioni cliniche diverse. “Tra i pazienti che ho visto oggi c’è una signora deliziosa, barese. Vive a Roma da 25 anni ma parla ancora con accento barese, e si avvantaggia del suo straordinario accento per sembrare una straniera! Parla malissimo, ma comunica tutto.” In breve da questi racconti emerge qualcosa di fondamentale: per un afasico l’obiettivo non è tornare a parlare come prima, ma riuscire a comunicare efficacemente. “Un mio paziente, quando andava al bar, si metteva le mani in testa per evocare il cappuccino e si faceva le corna per chiedere un cornetto. Un conto è il linguaggio, e un conto è la comunicazione”.
Se mimo un cappuccio vuol dire che ricordo la parola “cappuccino”, ma non la so pronunciare. Ma essere afasici non significava aver perso le parole giuste?
Ogni afasico è diverso
Fino a qualche tempo fa la classificazione delle afasie prevedeva tre grandi gruppi: afasie di Wernicke, afasie di Broca e afasie globali. Carl Wernicke e Paul Broca, entrambi neurologi vissuti nell’Ottocento, diedero il nome ad altrettante aree cerebrali, che a loro volta si iniziarono a usare per indicare categorie di pazienti. “Il paziente Wernicke”, spiega Buitoni, “era quello fluente: parlava, parlava, parlava, ma non diceva niente, e non capiva niente di quello che diceva lui stesso o di quello che dicevano gli altri. Il paziente Broca invece più o meno riusciva a capire quel che gli dicevi, ma faceva una fatica improba a trovare le parole.” La prima, grossa distinzione era quindi tra comprensione e produzione del linguaggio. Per il paziente afasico globale, infine, erano compromesse entrambe le facoltà. Ma questa visione è stata molto superata con l’avvento della neuropsicologia.
Oggi i neuroscienziati non attribuiscono più uno specifico compito alle diverse aree del cervello. “Esiste un’organizzazione modulare della funzione cognitiva linguaggio, in cui ogni singolo elemento va a comporre il puzzle della funzione nella sua interezza.” Questo puzzle è composto da vari aspetti: fonologia, lessico, sistema semantico, grammatica. “La fonologia è la forma delle parole: ‘C – A – N – E’ sta per cane. Il paziente con deficit fonologico, invece di dirti canile, potrebbe dirti lonache, chinale, chinola. Il paziente con un problema lessicale avrà invece difficoltà a sapere che quello che fonologicamente era ‘C – A – N – E’ si riferisce al cane. Il sistema semantico è quello che ci permette di associare alla parola ‘cane’ tutto quello che riguarda il suo significato: quadrupede peloso che abbaia, con le orecchie, che vive prevalentemente all’aperto, può essere domestico o selvatico, eccetera. E poi c’è la grammatica: le regole che mettono insieme le parole nell’ambito di una frase.”
Il paziente che al bar si produce in imitazioni di corna e cappucci non rientra in nessuna di queste categorie: è un aprassico verbale. Ha la capacità ideativa del termine, ma non sa tradurla da un punto di vista fono-articolatorio. “Io, mentre parlo, non penso esattamente a come, dove e in che modo devo mettere la lingua, i denti e le guance: tutto questo avviene in modo spontaneo. Per lui no. Non riesce più a tradurre in modo spontaneo il suo pensiero.” Anche questa è afasia.
Alle origini dell’afasia
“L’afasia è sempre conseguenza di una lesione, ma le lesioni possono essere di tanti tipi”. Stefano Cappa è neurologo allo IUSS di Pavia e da molti anni si occupa di disturbi del linguaggio. “Ictus, traumi fisici, patologie di tipo degenerativo come le demenze, patologie dello sviluppo: tutte queste malattie possono interferire con la funzione linguistica, proprio perché il linguaggio richiede l’integrità di un complesso sistema cerebrale.” Il linguaggio, insomma, funziona come un’orchestra.
È vero però che ognuno di noi ha un emisfero dominante per il linguaggio: “nella maggior parte dei soggetti destrimani è nell’emisfero sinistro. Nei mancini è variabile, ma anche per loro di solito è a sinistra. Questo non vuol dire,” avverte Cappa, “che il linguaggio stia solo lì”. Come il linguaggio non è solo parlare, così il parlare non è solo dire parole. L’emisfero opposto a quello dominante, quindi in genere il destro, è responsabile di quella che chiamiamo prosodia: la modulazione di una tonalità. Quell’intonazione che ci permette di far capire che cosa proviamo mentre stiamo parlando, oppure dà un senso diverso alle nostre parole, per esempio quando pronunciamo una frase con tono interrogativo.
Ecco quindi la ragione per cui il signor G., in prima linea nel coro della Fondazione Santa Lucia, grazie al canto ha fatto grandi passi avanti: è un po’ come se avesse costruito un percorso neurale alternativo passando per l’emisfero cerebrale destro, quello deputato alla prosodia, quindi all’intonazione e anche al canto. Camilla Buitoni ha avuto in cura il signor G. prima dell’estate. “La sua comprensione uditiva era molto compromessa, però cantava: amava molto cantare. Mi sono resa conto che nel suo caso il canto facilitava la fono-articolazione e gli faceva tirare fuori qualcosa che lo emozionava. L’ho introdotto al coro dell’AITA, che si riunisce qui al Santa Lucia. Ed è così me lo sono tirato fuori. Cantare aiuta”, conferma Buitoni. “Io con i miei pazienti canto, canto tanto”.
Sul piano della ricerca, la teoria che sta dietro alla terapia di intonazione melodica ha avuto un certo successo anni fa. “È un filone di indagine tuttora abbastanza attivo”, osserva Cappa. ”Invece di far parlare i pazienti con intonazione normale, li addestri a usare un’intonazione accentuata sul piano melodico. Il grosso problema è poi riuscire a togliere questa intonazione.” Accade anche questo: afasici che non si tolgono più il vizio di cantare. “Comunque è un approccio su cui si continua a lavorare: ci sono alcuni studi più recenti che cercano anche di dare un’interpretazione neurobiologica un po’ più raffinata”.
Dai papiri a Oliver Sacks
Le prime osservazioni cliniche di pazienti afasici sono antichissime. C’è un riferimento all’afasia sul primo documento al mondo in cui appaia la parola “cervello”: il papiro Edwin Smith, risalente al 1600 a.C. “Pensi a quanto dovevano essere frequenti, nell’antichità, le lesioni di tipo traumatico al capo”, osserva Cappa. “Una randellata poteva indurre, tra le altre cose, un disturbo del linguaggio. Per gli antichi il rapporto tra lesione cerebrale e patologia del linguaggio era chiarissimo, e a partire da un certo punto è anche chiara la differenza tra disturbo del parlare e disturbo del linguaggio: già in trattati del Cinquecento si trova una distinzione tra i casi in cui il paziente non riesce a comunicare perché ha una paralisi della lingua e le situazioni in cui ha un disturbo della memoria – la chiamavano ‘memoria delle parole’. Ottocento e Novecento poi sono stati l’epoca d’oro dell’osservazione clinica.” Lo stesso Freud si occupò di afasia: è il titolo della sua prima opera. E Oliver Sacks, nel suo L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello, descriveva le straordinarie reazioni dei suoi pazienti afasici davanti al discorso del presidente: smascheravano al volo tutte le bugie.
Oggi ci sono buone notizie sul piano della prevenzione delle cause scatenanti l’afasia: “la patologia cerebrovascolare è una delle poche aree dove c’è una reale diminuzione dei casi.” Stefano Cappa su questo è ottimista. “I medici trattano precocemente l’ipertensione, la gente sta più attenta, e nei paesi ricchi sicuramente l’ictus cerebrale si è ridotto. Poi negli ultimi anni è progredita la comprensione dei meccanismi alla base dell’afasia: adesso abbiamo strumenti molto più raffinati. I clinici dell’Ottocento che cosa potevano fare? Aspettavano che il paziente morisse e all’autopsia andavano a vedere che cosa c’era nel suo cervello. Oggi noi riusciamo a studiare qualsiasi disturbo in vivo, sottoponendo il soggetto a studi di neuroimmagine e a tutti gli strumenti che abbiamo per vedere cosa non va.”
Ma in che modo questi progressi possono migliorare le condizioni di vita di un afasico? Dalle storie dei pazienti di Camilla Buitoni emergono problemi di tutti i tipi. “Stamani ho incontrato un uomo afasico di 45 anni, che mi sembrava anche piuttosto ben compensato, ma sua moglie mi ha detto che lui da solo non fa assolutamente niente, non va nemmeno a comprare il giornale in edicola. O meglio, il giornale non può comprarlo, perché non può leggere, ma non va nemmeno a comprare il giornalino per suo figlio.” Poi c’è chi parla troppo, come la signora C., 85 anni: “è una donna molto vispa, molto sveglia, la vedo presente a sé, però ha una stereotipia verbale”. La stereotipia verbale è la ripetizione continua di una certa sillaba, parola o espressione, come quella del famoso paziente Tan, l’uomo che consentì a Paul Broca i suoi studi pionieristici sull’afasia. “La signora dice sempre e solo io io io io io io. Questi son pazienti da prendere freschi freschi, in quinta, sesta, decima giornata dall’evento scatenante. Purtroppo a me è arrivata dopo cinque mesi, ma io comunque farò un tentativo. C’era un mio paziente, pensi un po’, con una stereotipia verbale che era una bestemmia. Ora non ce l’ha più, e a Natale mi chiama per farmi gli auguri per Natale. È chiaro, mi dice solo: ‘Camilla? Natale! Guri, Guri! Ciao!’ E basta. Però, voglio dire: un risultato straordinario.”
Il cantante, la signora C., il bestemmiatore, l’uomo del cappuccino: il neuroimaging e le altre tecnologie di indagine servono ad aiutare tutti loro? “Gli strumenti che abbiamo adesso consentono un enorme incremento nella precisione diagnostica”, spiega Stefano Cappa. “Se l’afasia è dovuta a qualcosa su cui possiamo avere una terapia, è chiaro che fa la differenza. Purtroppo nella maggior parte dei casi l’afasia è un esito di un processo su cui non necessariamente riusciamo a intervenire.” E allora? Nessun progresso nel trattamento? Qualcosa sì, si muove. “Si parla molto di neuromodulazione e neurostimolazione, e poi c’è sempre la ricerca di farmaci che possono essere coadiuvanti. Ci sono tante linee di ricerca che si basano sullo sviluppo della plasticità cerebrale. Però il perno rimane sempre l’intervento di tipo riabilitativo comportamentale.” Cioè la logopedia. “Purtroppo la disponibilità dei servizi logopedia non è qualcosa che è aumentato negli anni. Direi piuttosto che tende a ridursi per motivi di sostenibilità del servizio sanitario nazionale. Ma anche quando il paziente non può più usufruire di intervento professionale da parte del logopedista è molto importante, e ormai lo fanno quasi tutti i logopedisti che si occupano di afasia, coinvolgere anche la famiglia e i caregiver. La mia mentore nel campo dell’afasia, la professoressa Anna Basso, era una delle primissime sostenitrici dell’approccio intensivo, che vede nel logopedista un perno su cui poggia tutto l’ambiente. Credo che la chiave di volta sia la costruzione di un vero e proprio gruppo di lavoro che veda coinvolti paziente, logopedista e famiglia.”
La logopedia è dunque uno strumento cruciale del trattamento delle afasie. Non solo per gli esercizi di lettura, di evocazione lessicale, di dettatura – tutte attività che portano a miglioramenti, più evidenti nei primi mesi di terapia ma possibili anche a distanza di anni. La logopedia è sì esercizio, ma anche un momento di ascolto specializzato. “Tendenzialmente col paziente afasico tirano tutti via”, sospira Buitoni. “Il logopedista gli dà uno spazio: un’ora di spazio di reale comunicazione.” In questo senso “un grosso aiuto può venire anche da interventi di tipo informale, da associazioni dei pazienti come l’AITA”, raccomanda Cappa. “Trovarsi in compagnia di persone che hanno gli stessi problemi o problemi simili ha un grosso valore motivazionale. Altrimenti c’è il rischio dell’isolamento sociale.”
Interagire con un afasico: che cosa dobbiamo sapere
Le afasie sono manifestazioni complesse e variegate, e per un profano non è facile comportarsi nel modo migliore quando ha a che fare con un afasico. Ci sono fraintendimenti molto comuni. Per esempio, in molti casi diamo per scontato che chi non sa comprendere le nostre parole abbia un deficit cognitivo. Non è detto: se andiamo in Cina non capiamo quello che ci dicono i cinesi, ma non per questo siamo regrediti. Allo stesso modo, un paziente afasico può essere cognitivamente integro su tutti i piani che non riguardano il linguaggio. C’è un esempio che Stefano Cappa fa sempre ai suoi studenti: “Se un paziente afasico deve andare in un negozio, farà fatica a fare la spesa, ma lo stesso paziente al supermercato se la cava benissimo. È molto importante tenere presente che un paziente afasico non è né una persona indementita, né un bambino che ha perso la capacità di parlare. È un adulto che capisce molte cose, anche se non tutto quello che gli viene detto.” Bisogna essere solleciti ma non troppo; ascoltare, ma non mettere in bocca al paziente le proprie parole; individuare tutte le possibili strade di comunicazione alla sua portata.
Se spesso le famiglie si trovano a sottovalutare le capacità cognitive del paziente afasico, capita anche il contrario. “Capisce tutto”, si sente spesso dire Camilla Buitoni dai parenti dei suoi assistiti. “Capisce tutto, guardi, lui ha difficoltà, non parla, ma capisce tutto”. Anche questo è un problema, perché talvolta gli ostacoli alla comprensione si mimetizzano. “Se lei ha a che fare con un paziente afasico, può notare una maggiore difficoltà a esprimersi rispetto alla capacità di comprendere,” spiega Stefano Cappa. “Può osservare che un paziente ha grossi problemi nella produzione di frasi grammaticalmente corrette. Commette errori, per esempio, nell’utilizzare le particelle grammaticali, o usa l’infinito invece di coniugare il verbo. Può sembrare tuttavia che questa persona capisca perfettamente quel che le si dice, perché la sua comprensione del significato delle parole è buona.” Ma c’è un ma. “Se io gli chiedo di capire la differenza tra la frase ‘Il bambino insegue la bambina’ e ‘il bambino è inseguito dalla bambina’, il paziente può fallire completamente. In questo caso un disturbo di comprensione c’è, ma non emerge perché si riflette poco nelle situazioni comunicative consuete.” E chi ha a che fare con un afasico deve saperlo, per comunicare con lui nel modo migliore ed evitare di metterlo in difficoltà.
È importante che la famiglia e i caregiver abbiano chiaro questo limite, che spesso non colgono. “C’è un test tremendo: il test dei gettoni”. Camilla Buitoni lo conosce bene. “Ci sono sul tavolo dei gettoni colorati, di forme e dimensione diverse, e tu dai delle istruzioni al paziente. Dalla più semplice, come ‘tocca il gettone rosso’, alla più complicata, ‘prendi il gettone giallo e mettilo tra quello verde e quello rosso’”: nessuna facilitazione ambientale, nessun indizio dal contesto. Per un afasico può essere un’impresa. “In genere, assistendo a questo test, i parenti si rendono conto delle effettive difficoltà”. E poi ci sono altre indicazioni per chi interagisce con un afasico, più ovvie ma non meno importanti. “L’afasico è afasico, non è sordo. Non serve gridare. Bisogna lasciar loro il tempo di formulare le frasi, senza mai sovrapporsi.” Per evitare questi e altri errori, sul sito dell’AITA si trova un prezioso vademecum di Anna Basso.
A volte aver perso la capacità di parlare come prima ha conseguenze devastanti sulla stabilità emotiva delle persone colpite. “Nei pazienti con lesioni estese, la depressione è piuttosto frequente”. Secondo Stefano Cappa si tratta di un fenomeno sottodiagnosticato. “Il fatto che uno sia afasico non impedisce certo l’insorgere di depressione, anzi: è un fattore facilitante. In questi casi è fondamentale che la depressione sia riconosciuta e trattata con una terapia adeguata, anche farmacologica.” C’è poi una regola sopra ogni altra che gli afasici devono tener presente per convivere al meglio con la propria condizione. Camilla Buitoni su questo è inflessibile. “Non devono rinunciare a comunicare, mai. Questa è una cosa drammatica, ma succede, e io dico sempre ai miei pazienti: si butti nella mischia. Fa fatica? È frustrato? Non importa. Non rinunci a un impegno, non rinunci a un invito, non rinunci a una cena, non rinunci a una passeggiata con un amico. Anche per stare in silenzio, ma comunque non rinunci mai al tentativo di comunicare. Non importa se non la capiscono! Ci provi lo stesso! Indichi, scriva, mimi, acchiappi per la mano la gente e la porti verso quello che lei vuole: ma ci provi”.