I n un’intervista al Guardian, Miriam Toews ha definito il suo ultimo libro Donne che Parlano (Marcos y Marcos, 2018, traduzione di Maurizia Balmelli) una risposta immaginaria ai crimini perpetrati contro un gruppo di donne mennonite in Bolivia. I reati a cui fa riferimento sono stati commessi tra il 2005 e il 2009 da alcuni uomini della colonia ultraconservatrice di Manitoba che ogni notte anestetizzavano le vittime con uno spray sedativo per animali e le stupravano nei loro letti. Al mattino le donne si svegliavano sanguinanti, sporche e doloranti. In un primo tempo hanno tenuto questo orrore per sé, ma quando è diventato chiaro che le violenze notturne riguardavano anche le loro sorelle, madri, nonne e figlie hanno portato il caso all’attenzione del pastore e degli anziani, che hanno liquidato le testimonianze come il frutto della sfrenata immaginazione femminile, dell’azione del diavolo o della giustizia divina. Soltanto quando una donna è riuscita a cogliere uno stupratore in flagrante la comunità è stata costretta a accettare l’evidenza dei fatti.
Toews ci introduce alla vicenda a partire dalle ore successive all’arresto e incarcerazione dei colpevoli. Mentre gli uomini della colonia sono andati in città a vendere capi di bestiame per pagare la cauzione e riportare i compagni a casa, otto donne di generazioni diverse, appartenenti alle famiglie Loewen e Friesen, si riuniscono nel fienile per decidere cosa fare (sebbene quasi tutte le donne abbiano subito violenze, la maggior parte ha preferito non partecipare alle riunioni, rendendosi utile svolgendo i lavori di mungitura e le altre incombenze della colonia). Prima che tornino gli uomini, devono decidere come rispondere all’offerta del pastore: restare e perdonare, così da garantite a ciascuno l’accesso al paradiso o lasciare la colonia. Hanno due giorni di tempo.
Il romanzo è costruito a partire dai verbali delle riunioni che si sono tenute il 6 e 7 giugno 2009, secondo la trascrizione e traduzione in inglese di August Epp, su richiesta di Ona, una delle Friesen. Il compito di compilare i verbali è affidato a un uomo perché le donne sono analfabete – “siamo donne senza voce” – e non conoscono altra lingua che quella parlata nella colonia.
Le donne parlano in plautdietsch, o basso-tedesco, l’unica lingua che conoscono, nonché quella parlata da tutti i membri della colonia […] il plautdietsc è una lingua orale risalente al medioevo, un guazzabuglio di tedesco, olandese, pomerano e frisone. Pochissime persone al mondo parlano il plautdietsc, e tutti quelli che lo parlano sono mennoniti.
Gli uomini della colonia, diversamente dalle donne, masticano lo spagnolo e i più giovani imparano dei rudimenti di inglese. Ona e le sue compagne sono senza voce non soltanto perché non sanno scrivere, ma anche perché sono confinate in una lingua che, anche se uscisse dai confini della colonia, non potrebbe essere capita da nessuno. Nel corso dello svolgimento della storia la lingua con cui sono costrette a esprimersi, così come l’ordine simbolico in cui sono immerse, risultano sempre più inadeguati e scomodi, come i denti finti di Greta, “donati da un viaggiatore magnanimo venuto a Molotscha con un kit di pronto soccorso dopo aver sentito degli stupri”, che sono troppo grandi per la sua bocca e le fanno male.
La voce, quindi, viene prestata, non senza difficoltà, da un uomo recentemente riammesso nella colonia come insegnante di inglese e matematica, dopo un lungo periodo in esilio in Inghilterra e un passaggio nelle carceri della regina. Dalle prime righe sentiamo che l’unica cosa che August ha in comune con gli altri uomini sono i genitali, ragion per cui i membri della comunità lo disprezzano. Mariche, in uno dei tanti momenti di tensione all’interno del fienile lo definisce “un uomo effemminato incapace di dissodare un campo come si deve o di sventrare un maiale”.
August trascrive in un presente continuo i dialoghi delle otto donne, intrecciandoli spesso con le sue osservazioni, che riportano quasi sempre a Ona, l’unica donna non sposata a Molotscha, incinta del suo stupratore, alla quale “è concessa una certa libertà di dire quello che pensa perché le sue parole e i suoi pensieri sono percepiti come insensati”. I verbali, più che verbali ufficiali assomigliano a una lunga conversazione con lei, che non potrà leggerli, ma che se li conserverà potrà donarli a suo figlio o sua figlia.
Attraverso il personaggio di August, Toews ci posiziona sullo scomodo sgabello da mungitura nel fienile in cui le donne parlano, evocano storie e aneddoti che le aiutano a riflettere e orientarsi nella scelta, costruiscono scenari, si pongono domande. Scopriamo insieme a lui cosa hanno passato, vediamo le conseguenze che la violenza ha lasciato sui loro corpi e sulle loro menti e sentiamo con loro, man mano che il tempo scorre, l’ansia per il ritorno degli uomini.
Toews disegna sotto i nostri occhi il lento, sudato, conflittuale travaglio verso l’autocoscienza, con le protagoniste che iniziano parlando di sé confrontandosi agli animali, cominciano a chiedersi chi siano. Salomè si chiede “non era assurdo che le donne dovessero paragonarsi alle bestie, al vento, al mare eccetera? Non c’è un precedente umano, una persona in cui vederci riflesse?”. Pensarsi in relazione e indipendentemente dagli uomini e dai modelli da loro imposti.
Sappiamo che la situazione di Molotschna dipende dagli uomini, che a rendere possibili questi stupri, perfino il concepimento di questi atti, il progetto di questi stupri, la logica che nella testa degli uomini sta alla base di questi stupri sono le condizioni in cui si trova Molotschna. E queste sono state create e stabilite dagli uomini, dagli anziani e da Peters.
Vediamo venire al mondo dei soggetti e assistendo a questa nascita ci emozioniamo. Leggendo Donne che parlano ci sentiamo partecipi delle discussioni, dei dubbi etici e degli sforzi di Ona e delle sue compagne, perché Toews riesce a rendere la loro storia universale, creando un parallelo tra il microcosmo della comunità mennonita e la società in cui le sue lettrici e i suoi lettori vivono.
L’autrice riesce a far emergere dalla sua prosa le numerose sfaccettature della violenza maschile sulle donne; le varie forme che può assumere, dallo stupro al silenzio; la sua dimensione strutturale, quella di un ordine simbolico e materiale disegnato dagli uomini per gli uomini a cui le donne possono conformarsi solo a caro prezzo; l’ambiguità di una violenza che prende forma nella relazione con l’altro (a più riprese le donne di Molotschna si chiedono cosa fare con gli uomini: abbandonarli? Chiedergli di sottoscrivere un patto? Di andare via?), molto spesso una relazione intima; la fiducia nell’educazione e nella possibilità di estirpare la dimensione culturale della violenza.
Dove condurranno le parole delle donne? E di quanto tempo avranno bisogno per produrre un cambiamento? “Sapevate” – dice Ona – “che il tempo che ci mettono a migrare farfalle e libellule è così lungo che spesso i nipotini sono gli unici ad arrivare a destinazione? […] E lo sapete che le libellule hanno sei zampe ma non sanno camminare?”.
Ecco, l’atto femminista di prendere parola apre una pista, per percorrerla può servire molto tempo, ma anche se non saremo noi le prime a vedere la fine del viaggio, vale comunque la pena cominciarlo: nel frattempo possiamo avere il privilegio di scoprire dentro di noi capacità e risorse che non sospettavamo di avere.