H o passato molti anni a studiarle, ma ogni volta che le osservo il cuore batte forte e l’emozione è la stessa. C’è qualcosa di magico che rimanda a luoghi esotici e inesplorati, a storie naturali impro- babili che solo un esploratore di altri tempi avrebbe potuto osservare, tra serpenti, ragni velenosi e chissà quali altre insidie. Eppure sono qui ai miei piedi, in un normale pomeriggio estivo in un parco giochi della mia città, tra anziani signori che passeggiano e bambini che giocano.
Sono le formiche amazzoni, Polyergus rufescens, guerriere color rosso mattone lunghe quasi un centimetro, dalle mandibole acuminate a forma di sciabola. Hanno appena cominciato una delle loro incursioni razziatrici per attaccare altre colonie di formiche. Migliaia di individui ben organizzati in una schiera che si muove compatta a formare un serpentone rosso lungo alcuni metri tra l’erba verde del prato. Stanno arrivando al bersaglio. Improvvisamente si fermano e, dopo un momento di confusione, scompaiono improvvisamente, come acqua assorbita dal terreno. Sono entrate in un nido di Formica cunicularia, una comune formica dei prati. In pochi minuti, riemergono portando tra le mandibole il bottino: sono le pupe racchiuse nel bozzolo delle formiche residenti, razziate a centinaia.
Ogni guerriera si incammina verso casa senza aspettare le altre, aiutata da un persistente feromone di traccia depositato sul terreno dalle formiche nel viaggio di andata. Un’autostrada sicura che indica la via. Visto dall’alto lo spettacolo tra l’erba è bizzarro: come popcorn impazziti, centinaia di bozzoli bianchi emergono dal nido formando una lunga scia. Una volta a casa, le razziatrici lasciano il loro carico all’entrata del nido o lo trasportano direttamente all’interno. Altre operaie, leggermente più piccole e di colore nero, se ne prenderanno cura. Polyergus vuol dire lavori diversi, a questo si riferisce il nome scientifico del genere di queste formiche. Le loro colonie sono, infatti, società miste, popolate cioè da operaie di due specie diverse e con compiti diversi. L’obiettivo del saccheggio non è raccogliere cibo, né distruggere nemici. I bozzoli saccheggiati, infatti, generalmente non vengono mangiati e le formiche in via di sviluppo saranno accudite fino alla schiusa. Una volta adulte, saranno utilizzate come forza lavoro nella colonia adottiva. Svolgeranno le mansioni domestiche a cui le operaie parassite non sono adatte, dalla cura della prole e della regina, alla manutenzione e difesa del nido o alla raccolta del cibo.
Nel nido di Polyergus due specie diverse, la razziatrice e la schiava, vivono quindi in pacifica coesistenza. Questa integrazione è dovuta a un fenomeno simile all’imprinting dei vertebrati: le formiche adottate nascono in un nuovo ambiente sociale e “si imprintano” sull’odore della nuova colonia considerandola a tutti gli effetti casa propria. Le razziatrici sono considerate come sorelle, è infatti verso la colonia adottiva che manifestano la propria dedizione. Se le incontrano, rinnegano le sorelle genetiche della colonia da cui sono state rapite ancora racchiuse nel bozzolo.
Il fenomeno è affascinante e, come tutti i casi di parassitismo, anche la storia di Polyergus rufescens e delle altre specie di questo genere è un’occasione per studiare gli effetti dell’evoluzione e la messa a punto di raffinati adattamenti e contro-adattamenti da parassiti e ospiti.
In dieci anni di studi sia in natura sia in laboratorio, assieme a Francesco Le Moli e Alessandra Mori dell’Università di Parma, e grazie alla collaborazione con altri importanti ricercatori italiani e stranieri, ho affrontato vari aspetti della biologia del parassitismo sociale, con particolare riguardo alle formiche amazzoni e alle loro vittime. Si è scoperto che l’individuazione dei nidi da attaccare è il frutto del lavoro di operaie specializzate (le scout) che in tarda mattinata o nel primo pomeriggio esplorano il territorio intorno al nido allontanandosi anche di varie decine di metri. Una volta trovato un nido della specie giusta, la scout torna a casa in linea retta, seguendo il percorso più breve. Corre a consegnare un dispaccio importante. Non importa quanto tortuoso sia il percorso di andata, il rientro è sempre lineare. Assieme ad Alberto Ugolini dell’Università di Firenze abbiamo scoperto il meccanismo di orientamento adottato da questi individui: si tratta della path integration (integrazione della rotta). Un sistema molto raffinato, scoperto inizialmente in alcune specie deserticole africane del genere Cataglyphis ma che abbiamo riscontrato anche nella nostra schiavista, quindi a latitudini e ambienti completamente diversi. Durante il percorso di andata, la formica registra e integra nel suo sistema nervoso ogni suo spostamento. Ciascun tratto del percorso può essere semplificato e considerato un vettore: un elemento matematico definibile dalla distanza percorsa e dalla direzione di movimento tenuta dalla formica in quel tratto. Al termine del percorso di andata, quando la formica decide di tornare a casa, l’integrazione di questi vettori “di andata” produce un vettore medio “di rientro” che indica direzione e distanza da seguire per rientrare al nido. È come se la formica fosse legata al nido da un lungo elastico che, indipendentemente dalla tortuosità del percorso di andata, la guiderebbe sempre verso casa in linea retta.
Per calcolare le direzioni degli spostamenti, queste formiche, sia le deserticole sia le schiaviste, si servono della posizione del sole o, quando è coperto, di un parametro a essa correlato, il pattern di polarizzazione della luce nella volta celeste, parametro che molti animali, uomo compreso, non riescono a percepire. Un altro valore fondamentale per calcolare il vettore medio di rientro al nido è la distanza percorsa in ogni tratto durante l’andata. Ma come fa una formica a misurarlo? L’enigma è stato risolto grazie agli esperimenti condotti su Cataglyphis fortis da ricercatori svizzeri e tedeschi tra cui Rüdiger Wehner, un maestro nello studio dell’orientamento delle formiche. La distanza è calcolata tramite una specie di “podometro” interno, un sistema di conteggio dei passi effettuati dalla formica che permette, considerando fissa la lunghezza di ogni passo, di registrare la distanza totale percorsa in un dato tratto. Non sappiamo se anche in Polyergus rufescens le distanze siano calcolate in questo modo ma è molto probabile, vista la similitudine dei meccanismi di orientamento adottati dalle due specie.
Difficile non stupirsi di fronte a questi straordinari prodotti dell’evoluzione.
Ma c’è anche un altro aspetto della biologia di Polyergus a essere importante e cioè la capacità di manipolare il comportamento delle loro vittime a proprio vantaggio. Polyergus lo fa in varie fasi del suo ciclo vitale con tecniche di vera e propria “propaganda”.
La propaganda, così come la conosciamo noi, manipola l’opinione pubblica con la comunicazione. Le razziatrici delle formiche schiaviste fanno qualcosa di simile: utilizzano sostanze chimiche per disorientare le operaie residenti al momento dell’incursione. Migliaia di operaie, entrando nel nido bersaglio, rilasciano delle secrezioni chiamate sostanze di propaganda da una ghiandola posta alla base delle mandibole, che inducono nelle residenti una reazione di allarme esagerata e caotica. Un fuggi-fuggi generale che favorisce il saccheggio della prole lasciata incustodita dalle residenti prese dal panico. Per questo motivo i raid di Polyergus durano pochi minuti e si concludono quasi senza “spargimento di sangue”. Le loro mandibole sono un’efficace arma di attacco e difesa, ma in questo caso molto meglio non perdere tempo in combattimenti. L’obiettivo è portare a casa nel più breve tempo possibile una grande quantità di bozzoli senza distruggere completamente la colonia. Il panico e lo scompiglio ottenuti con la propaganda hanno esattamente questo scopo.
Anche le regine di Polyergus si comportano da parassite sociali e non riuscirebbero a fondare una nuova società senza l’aiuto delle schiave. Dopo l’accoppiamento entrano in un nido della specie ospite, ne scardinano la difesa e uccidono la regina residente. Infine, devono farsi accettare dalle operaie come nuove regine e deporre le proprie uova, da cui nascerà la forza lavoro schiavista, quella delle future razziatrici. Questa usurpazione non è semplice perché introdursi impunemente in un nido che non è il proprio può essere fatale. Per farlo, queste formiche ricorrono ancora alla propaganda, in questo caso per calmare gli animi invece di creare panico. Assieme ad altri ricercatori, tra cui Stefano Turillazzi (Università di Firenze), Johan Billen (Università di Leuven) e Graeme R. Jones (Università di Keele), abbiamo svelato alcuni aspetti di questa strategia. Una volta entrata nella colonia ospite, la regina di Polyergus emette un particolare secreto, il cui componente principale è un estere, il decil-butirrato, prodotto dalla ghiandola di Dufour situata nell’addome, che in queste formiche è ipertrofica. La secrezione attenua l’aggressività delle formiche residenti (per questo l’abbiamo chiamata sostanza di pacificazione) permettendo all’intrusa di insinuarsi nella colonia senza danni e di usurpare il ruolo della regina dopo averla uccisa. In altre ricerche si è osservato che, sfregando il proprio corpo su quello della malcapitata, la regina parassita acquisisce gli odori coloniali, operazione a cui contribuiscono anche la permanenza nel nido e gli stretti contatti con le operaie. L’inganno è perpetrato. La nuova regina, killer della regina madre, viene assistita e riverita dalle operaie ospiti che ne favoriscono la riproduzione. La prole della regina usurpatrice verrà accudita normalmente e porterà a una schiera di nuove amazzoni, pronte a compiere razzie per rimpinguare la forza lavoro. Schiave inconsapevoli che aiutano una specie che non è la propria, un altruismo estremo ma carpito con l’inganno.
Le specie di formiche che adottano lo schiavismo come modus vivendi sono una sessantina, ma ci sono livelli diversi di specializzazione. Alcune possono periodicamente razziare nidi di altre specie per ottenerne schiave ma potrebbero vivere anche senza, essendo in grado di svolgere le normali attività domestiche. È il caso di Formica sanguinea, presente anche in Italia. In altre specie, come Polyergus rufescens, le operaie sanno fare solo le razziatrici e dipendono dalle schiave, senza le quali morirebbero in poco tempo. Chi è, allora, il vero padrone?
Come insegna la storia di Spartaco, a volte gli schiavi si ribellano. Ma può verificarsi una rivolta nelle società miste di formiche schiaviste in cui le schiave, assoggettate inconsapevoli, lavorano instancabilmente per quella che considerano a tutti gli effetti la propria colonia? Fino a qualche anno fa sembrava impossibile mettere in discussione la lealtà incondizionata delle schiave nei confronti dei loro padroni, ma studi recenti hanno dimostrato che la ribellione è possibile. Esistono specie in cui le schiave attaccano le loro schiaviste o depongono alcune uova non fecondate, da cui si svilupperanno maschi, nella pila delle uova della regina, mettendo al sicuro una parte dei loro geni. Ma i casi meglio studiati sono i “sabotaggi” di Temnothorax longispinosus (la schiava) ai danni di Temnothorax americanus (la schiavista) in cui le schiave distruggono una parte consistente della prole schiavista, in particolare quella che darà origine a operaie razziatrici e future regine parassite. Probabilmente si tratta di un comportamento adattativo, evoluto in risposta alla pressione parassitaria, una strategia di difesa estrema della specie schiava nei confronti del parassita. In questo modo le schiave favorirebbero le colonie della propria specie situate nei dintorni e con le quali sono strettamente imparentate: diminuendo la forza lavoro delle razziatrici e il loro successo riproduttivo, attenuerebbero così l’impatto negativo sulle potenziali colonie ospiti. Questo è quello che in etoecologia è definito the best of a bad job, cioè trarre il meglio da una situazione di per sé sfavorevole, un principio alla base di molte strategie alternative.
Oltre allo schiavismo, ci sono molti casi di parassitismo sociale di cui le formiche sono vittime e/o carnefici. Varie specie di insetti e altri artropodi sfruttano le colonie e i sistemi sociali delle formiche per trarne vantaggio grazie ad adattamenti e sistemi di inganno molto raffinati. Anche le formiche fanno altrettanto ma per descrivere adeguatamente questi fenomeni ci vorrebbe un intero libro. Uno di questi è particolarmente interessante: quello di Teleutomyrmex schneideri, una formica di cui conobbi l’esistenza da ragazzino grazie a un documentario trasmesso da Quark e commentato da scienziati che anni dopo diventarono i miei maestri di Etologia e Sociobiologia all’Università di Parma: Danilo Mainardi e Francesco Le Moli. Si tratta di un caso di “inquilinismo”, la forma più estrema di parassitismo adottato dalle formiche, d’altra parte teleutomyrmex significa proprio “l’ultima formica, il caso limite”. Questa specie non ha operaie ma solo regine e maschi che vivono totalmente a spese delle colonie del loro ospite, Tetramorium alpestre. Le regine hanno una cuticola sottile e mancano di molte ghiandole e strutture difensive tipiche delle formiche. Misurano poco più di 2 mm e hanno il gastro piatto e concavo. Hanno zampe con unghie terminali e cuscinetti adesivi ben sviluppati, e una irrefrenabile tendenza ad aggrapparsi agli oggetti soprattutto se hanno forma e odore della regina della specie ospite. Queste formiche vivono gran parte della propria esistenza aggrappate (potremmo dire “abbracciate”) al corpo della loro regina ospite, aderendone strettamente. Da qui mendicano cibo e attenzioni da parte delle operaie e non fanno niente altro che produrre uova. Le energie e le risorse della colonia ospite sono in parte devolute all’accudimento dei parassiti a svantaggio della propria produttività. Il danno non è però fatale. Al parassita sociale estremo interessa che la colonia continui il più possibile a sopravvivere e a profondere i suoi atti cooperativi di cui usufruirà ampiamente.
Questa specie è molto rara e vive in ridotte popolazioni sulle Alpi svizzere e francesi. Un’altra forma di parassitismo ne sta mettendo a rischio la sopravvivenza: quella dell’uomo nei confronti della natura. Eccessivo sfruttamento, riduzione degli habitat e cambiamenti climatici stanno trasformando gli ambienti alterandone le dinamiche ecologiche. Le piccole popolazioni di organismi iperspecializzati potrebbero subirne gravi conseguenze. Dalla metà degli anni Novanta Teleutomyrmex schneideri (che oggi si chiama Tetramorium inquilinum) è classificata come specie vulnerabile nella lista rossa delle specie a rischio. La salvaguardia della biodiversità passa anche attraverso questo minuscolo e irripetibile frammento di natura; la sopravvivenza dell’“ultima formica” è anche nelle nostre mani.
Estratto del libro Il formicaio intelligente, come vivono e che cosa possono insegnarci i più sociali tra gli insetti (Zanichelli, 2018)