Un’intervista all’antropologo Matteo Meschiari sull’esigenza di educare alla libertà fin da piccoli.
Andrea Staid è docente di Antropologia culturale e visuale presso la Naba, di antropologia culturale presso Università degli studi di Genova, Phd alla Universidad de Granada. Dirige per Meltemi la collana Biblioteca/Antropologia. Tra le sue ultime pubblicazioni: I dannati della metropoli (Milieu 2014), Contro la gerarchia e il dominio (Meltemi 2018), Disintegrati (Nottetempo 2020), La casa vivente (ADD 2021), Essere natura (UTET 2022). I suoi libri sono tradotti in Grecia, Germania, Spagna, Cina, Portogallo, Cile. Collabora con diverse testate giornalistiche.
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l bambino, al cuore dell’agire biopolitico, è anche il grande assente di ogni discorso politico. Chi ne parla? Quale programma di partito va oltre la promessa di un generico aiuto a genitori stressati? Chi si azzarda a pensare che la politica, oggi, dovrebbe ripartire da una seria riflessione sui bambini e sul loro ruolo concreto nella costruzione della vita sociale?” Se lo domanda Matteo Meschiari, classe 1968, antropologo, poeta e scrittore. Insegna Antropologia e Geografia all’Università di Palermo, si occupa del paesaggio in letteratura, di wilderness, del camminare. In Bambini (Armillaria, 2018) ha deciso di analizzare l’infanzia nella nostra società, impresa non semplice: partire dai bambini significa selezionare un tema sociale occulto.
Matteo Meschiari lo ha esplorato, messo a nudo, per criticare i fondamenti di un’ideologia totalitaria: la nostra. Secondo l’autore la gran parte delle nostre posture, dei nostri problemi, delle nostre accettazioni quotidiane di soprusi (piccoli o grandi che siano), arrivano proprio dall’impianto gerarchico dell’educazione che si dà ai bambini. In questo piccolo testo si trova una grande risposta al saggio di Etienne de La Boétie sulla servitù volontaria. Perché voi tanti servite a noi pochi che vi comandiamo? Meschiari risponderebbe: perché così siamo stati educati fin da piccoli.
Nel testo critichi quella che potremmo chiamare l’ideologia della perenne gioventù. Perché è così difficile accettarlo e dargli un valore?
È un discorso complesso, ed è facile scivolare nel cliché sociologico della società contemporanea ossessionata dall’apparire. In realtà la vecchiaia e la morte ci tormentano da sempre e, per limitarci a due racconti classici, Dorian Gray e Faust esplorano questi archetipi nelle loro pieghe più profonde. In modo molto più banale, e comunque solo di passaggio, mi interessava individuare una simmetria: come l’adulto oggi non sa invecchiare, specularmente si tende ad adultizzare il bambino, chiamandolo a comportamenti psicologici, cognitivi e comportamentali che imitano ciò che ancora il bambino non è. Per narcisismo, per proiezione, per incapacità di gestire la carica eversiva e perturbante dell’infanzia. Da un lato dei bambocci (gli adulti), dall’altro dei nani (i bambini): sarebbe semplicemente grottesco se non fosse la traccia di una profonda confusione antropologica.
Nel testo fai una critica non velata a un approccio culturalista dell’essere umano, attacchi la teoria di Francesco Remotti sulla carenza biologica di Homo Sapiens che si completerebbe culturalmente grazie alle sue frequentazioni e contaminazioni. Di questa teoria hai una visione pessimista, scrivi che per l’essere umano “completarsi” culturalmente e recuperare il proprio svantaggio biologico implica una perdita. Quindi cosa pensi, che l’uomo in natura sia completo?
La mia è una provocazione, ma una provocazione che viene da premesse che considero serie. Ovviamente l’uomo è un mix di geni e cultura, e ovviamente la plasticità e l’adattabilità umana dipendono dalla capacità di affrontare culturalmente gli ostacoli della vita. Ma nella rappresentazione dell’uomo come scimmia nuda, fragile e impaurita, mi sembra di cogliere un paternalismo settecentesco. Biologicamente parlando, non siamo troppo incompleti, e anche se non abbiamo zanne, pelliccia e artigli non riesco a vedere l’uomo come un mollusco rosa senza conchiglia. Siamo primati onnivori che dopo un’apocalisse in grado di cancellare ogni traccia di cultura potrebbero comunque sopravvivere, magari come semplici animali preculturali, e in fondo che male c’è? I casi dei cosiddetti “ragazzi selvaggi” (non tutti sono dei fake) ci mostrano che è possibile. Quello che forse non ci va di vedere è il fatto che senza la nostra gloriosa cultura “scadremmo” al rango di semplici prede, e questo ferisce in qualche modo il nostro orgoglio di esseri “superiori”. Comunque, quello che volevo criticare è il culturalismo radicale, quello a tutto tondo che non include nel discorso antropologico l’orizzonte biologico e genetico. Questione anche di tradizioni accademiche locali. Ora, secondo me, il lato disturbante del bambino è proprio la sua biologia prepotente, la sua resistenza all’addomesticamento culturale.
Parli di una società che costruisce bambini come mini adulti performativi, competitivi e stressati, pronti allo psicofarmaco.
Potrebbe sembrare una esagerazione se non fossimo al corrente dell’utilizzo del Metilfenidato cloridrato (MPH) un farmaco analgesico dal nome Ritalin che viene somministrato a sempre più bambini nei quali viene “riscontrato” l’ADHD (Attention Deficit Hyperactivity Disorder), ovvero il disturbo da deficit di attenzione e iperattività, caratterizzato secondo i medici da problemi a mantenere l’attenzione, eccessiva attività, difficoltà a controllare il proprio comportamento in aule scolastiche o durante cene di famiglia… Sembra assurdo dover anestetizzare dei bambini che forse avrebbero solo bisogno di correre, giocare, sperimentare, ma è invece ovvio in una prospettiva neoliberista, dove il conformismo sociale significa rinchiudere il bambino in una gabbia di regole per renderlo un cittadino omogeneo, condizionandolo proprio a partire dal corpo: servilmente immobile, devotamente attento, rispettosamente silenzioso. L’incapacità sociale di riconoscere nei singoli bambini dei tempi e dei modi individuali nell’apprendimento, leggere l’irrequietezza non come un modo che ha il corpo di resistere a una regola sbagliata ma come una trasgressione del modello richiesto, imputare alla famiglia o alla psiche del soggetto la colpa di una “irregolarità” individuale invece di leggerla come il sintomo di una più ampia crisi sociale, tutti questi per me sono sintomi di un fraintendimento in malafede: isolare gli “strani” per evitare un esame di coscienza collettivo. Credo invece che molti bambini “difficili” siano la cartina al tornasole di una società in cui individualismo, produttivismo, repressione dell’empatia e controllo standardizzante dei comportamenti sono promossi a sistema.
In un paragrafo dal titolo Radici spieghi al lettore che con la nascita dell’agricoltura si comincia la lunga strada che porta al comando e all’obbedienza e che di conseguenza struttura la nascita del capitalismo. Cosa pensi del recente articolo Come cambiare la storia dell’umanità di David Graeber e David Wenrow, dove sostengono che non è stato l’avvento dell’agricoltura a segnare una svolta irreversibile nell’evoluzione sociale?
Per me bisogna capire anzitutto le premesse dell’articolo che citi. Graeber e Wenrow hanno la necessità di dire una cosa per me verissima: non è vero che la civiltà implica automaticamente la disparità sociale. Detto altrimenti, quello che vogliono criticare è l’applicazione un po’ deterministica del modello cacciatori-raccoglitori egualitari vs agricoltori stratificati e autoritari… Non accettano insomma l’idea di una “tragica necessità”, proprio come esiste una tradizione libertaria che attacca (giustamente) il principio hobbesiano del leviatano, della necessità di uno stato di controllo per scongiurare l’homo homini lupus. C’è poi un’altra preoccupazione nei due autori, cioè quella di sgonfiare il “primitivismo” di John Zerzan, perché è impraticabile e perché, in quanto irrealizzabile, tende a frenare ogni pratica di eversione/trasformazione sociale. Terza critica, lo “stato di natura di Rousseau”, le “utopie primordiali”, e qui potremmo parlarne per mesi.
L’articolo per me è troppo occupato a smontare dei modelli applicati rigidamente, delle “narrazioni” stereotipate, e nel farlo fa un po’ di confusione e manca di fornire delle vere prove a supporto di un modello alternativo: l’analisi delle sepolture del Paleolitico superiore per mostrare forme di potere gerarchico è inconcludente e, per quanto sia forse possibile riconoscere anche in quest’epoca remota delle “sperimentazioni” gerarchico-autoritarie, l’avvento dell’agricoltura nel Neolitico resta l’elemento chiave che ha impresso un’accelerazione incontestabile alla comparsa delle prime società stratificate. Discorso lungo e complesso, per me affrontato dai due autori con un po’ di superficialità, mescolando a freddo competenze paletnologiche e militanza politica. Io suggerisco invece di analizzare altri aspetti molto meno aleatori: quelli di una vera e propria biopolitica preistorica. Il confronto archeologico delle ossa del Paleolitico e del Neolitico mostra che le donne del secondo periodo facevano molti più figli e che li svezzavano prima. Era solo perché potevano permetterselo o perché, invece, dovevano procurare nuova manodopera per il lavoro nei campi?
Credo sia molto interessante focalizzare lo sguardo su una vera e propria biopolitica preistorica. A proposito di parto e svezzamento, ormai siamo abituati a un parto nascosto in spazi di reclusione ospedalieri, come si fa con la morte e la malattia.
Tutto questo è strutturato per far perdere le tracce dell’emotività e dell’auto-racconto della madre, per sostituirli con una narrazione ufficiale, che molto sommariamente prevede quanto segue: la gravidanza è una malattia, la donna è debole e ha bisogno di aiuto, il bambino va affidato da subito a una società di controllo, controllo medico prima, controllo etico-morale-giuridico poi. Nel libro dedico un intero passaggio a questa narrazione, e mostro che di narrazione in senso stretto si tratta, perché è possibile rintracciare nel “Racconto-della-donna-incinta” tutti gli elementi canonici della morfologia della fiaba di Propp.
Del tuo libro ho subito notato i meravigliosi disegni di tuo figlio e ti ho detto: Che bravo! La tua risposta è stata: Era bravo, ormai è troppi anni che va a scuola. La scuola è un tema centrale, che cosa succede in queste strutture che addomesticano all’obbedienza?
Osservando i disegni dei miei figli prima e dopo l’inserimento nella scuola dell’obbligo ho notato quello che tutti possono notare: la tendenza a una standardizzazione delle forme, a una omologazione cromatica, stilistica e dei soggetti scelti, una specie di banalizzazione dello sguardo. Le società si autoreplicano grazie a una forte spinta conformista, e ovviamente la scuola è una delle zone sensibili in cui un gruppo esprime la propria idea di libertà o la comprime. L’educazione alla libertà è certamente possibile, è necessaria. Chiaramente molte società preferiscono mirare al controllo, sotto il pretesto che troppa libertà individuale equivale al caos. La scuola di oggi ovviamente non è più quella dell’Ottocento, sta cambiando, o almeno ci prova. Pedagogie innovative, approcci cooperativi, metodologie rispettose del bambino, dei suoi ritmi, del suo diritto a imparare secondo la sua indole. Ma poi c’è la vita vera, fatta di docenti sottopagati e umiliati da un sistema sotto attacco, trascurato dalle residue politiche culturali, costretto a stringere la cinghia in nome di manovre economiche suicidarie. Il quadro, almeno per l’Italia, è per me molto scoraggiante.
La famiglia mononucleare serve allo status quo, costruisce le fondamenta della nostra società, senza questa tipologia di famiglia che cosa succederebbe?
Io non sono contro la famiglia mononucleare. Sono contro l’isolamento e l’individualismo che la caratterizzano nella società neoliberista. Famiglie sole, incoraggiate ad avere paura del mondo, stimolate ad abbracciare anche a livello domestico una mentalità produttiva, inserite in una dialettica individuo-stato che esclude ogni forma di autorganizzazione comunitaria. Se si spezzasse questa strategia di controllo avremmo pratiche di gestione dei figli affidati a caregiver non solo biologici o parentali, in modo da esporli a esperienze di genitorialità diffusa, a un’umanità di gruppo. Oggi da noi è invece tutto affidato a binari ferrei: famiglia-monade, classe scolastica, gruppo sportivo, assemblee religiose. Le pratiche alternative esistono, ma sempre in aree interstiziali, sempre come antagonismo e resistenza. L’antropologia ci insegna che altri modi di curare la prole sono possibili, altri modi di concepire la famiglia esistono, ma non sempre coincidono con una visione aziendale della vita.
L’uomo è alienato anche perché ha smesso di esporsi al selvatico, non conosce il mondo che lo circonda e non distingue un albero da un altro, anche questo ha a che fare con l’educazione dei bambini, con effetti controproducenti.
Nel libro cito l’iniziativa di Lady Marjory Allen of Hurtwood che propose l’adventure playground dove i bambini potevano sperimentare pratiche pericolose, il rischio, sviluppando coraggio, capacità di autogovernarsi e fiducia in se stessi, elaborando tattiche per sapersi orientare. È un tema cruciale: lasciare ai bambini la libertà di farsi male (ovviamente nei limiti), di sperimentare il rischio, di imparare da soli e tra di loro senza sorveglianti o, come si dice oggi, senza “facilitatori” adulti. Il problema è molto più ampio e riguarda quella che potremmo chiamare l’antropologia del limite, cioè le fluttuazioni sociali dell’idea di rischio e la tendenza contemporanea, almeno in Occidente, a cancellarlo dalla mappa, il che poi corrisponde al progetto di dotare un popolo di “pacchetti sicurezza” e di scenari spaventosi per giustificarne l’adozione. Una grande campagna contraccettiva che ci inguaina e ci isola dal pericolo e dalla morte, senza ovviamente liberarcene. Oggi i parchi gioco destinati ai bambini devono rispettare norme internazionali rigidissime. Le statistiche mostrano che gli incidenti però non sono diminuiti, anche perché a diminuire è stata la percezione del rischio. Forse esagero, ma in questo io vedo un altro dispositivo di controllo, che senza effettivamente proteggere i bambini dall’incidente li educa (assieme ai loro genitori) a una retorica della sicurezza che viene declinata in modo omogeneo anche in altri ambiti del sociale, ad esempio la criminalità (ai minimi storici eppure sventolata come spauracchio), il controllo digitale e le videocamere, il rafforzamento delle forze dell’ordine, lo stato di polizia. Beh, per me lo stato di polizia inizia dalle mattonelle in gomma antitrauma nei nostri “innocenti” parchetti.
Chiuderei con una domanda urgente: come salvare i bambini dall’assuefazione tecnologica?
Sappiamo che nelle nuove generazioni, esposte sempre più precocemente alle tecnologie digitali e ai social media, il tasso di depressione e suicidio è in forte aumento. Esistono analisi molto precise su come l’uso di cellulari e tablet esponga i più giovani (ma non solo) a un impoverimento linguistico, emotivo, relazionale. Quello di cui non si parla, però, demonizzando il mezzo e distraendo l’attenzione dal vero problema, è il contesto economico-sociale in cui tutto questo accade. Una società atomizzata, parcellizzata, priva di un senso della comunità, disperatamente individualista, meritocratica, produttivista e, fondamentalmente, molto ignorante, è la vera responsabile dei suicidi tra i minori, perché mostra di avere ben altre priorità, ad esempio la sicurezza e non il benessere psicofisico, il consumo e non la cultura, la legge del più forte e non l’empatia. Non è il cellulare che fa male, il problema sono i modi e i tempi di utilizzo, è il tipo di esempio che proviene dagli adulti, è la “cultura” dell’intrattenimento in cui si cresce, è l’incapacità di riconoscere il lato creativo della noia, è il principio del consumo ormai incistato in ogni tecnologia. Come salvare i bambini? Magari mettendo i bambini al centro delle preoccupazioni sociali.