I l rapporto tra femminismi e maternità è sempre stato controverso ed è altrettanto complicato riassumere le tante e diverse posizioni elaborate da studiose di diversi orientamenti. La trama è complessa, con conquiste e arretramenti sul fronte di una ridefinizione del catalogo delle infinite figurazioni femminili che il materno inevitabilmente porta con sé. Questione pratica e simbolica, la maternità ha una tale densità di significazioni sia per quel che riguarda l’inevitabile conseguenza nella vita materiale di ogni donna sia per il suo straordinario potere condizionante nella costruzione dell’immaginario femminile; il discorso sul/del materno, infatti, è la dialettica mediante cui dare voce al logos epico di ‘diventare donna’, è l’atto sostanziale di en-genderment, che si configura come meccanismo a sua volta estremamente connesso a processi ineludibili e incrociati, da un lato, il legame necessario con le generazioni di donne precedenti e successive, dall’altro, la trasmissione nel tempo delle loro pratiche, delle loro maniere di decodificazione del reale e del loro inventario di figurazioni per (auto)rappresentarsi.
Che si tratti di considerare la maternità come risorsa (come fanno Adrienne Rich e Nancy Chodorow), come schiavitù (Shulamith Firestone), come genealogia (le filosofe della differenza Luce Irigaray e Luisa Muraro), o come relazione (Adriana Cavarero), certo rimane che la fuga delle donne dal controllo patriarcale su riproduttività e maternità è un atto politico ancora all’ordine del giorno. Oggi più che mai. L’utero delle donne è tornato prepotentemente alla ribalta quale terreno di scontro intergalattico in cui le antiche e rassicuranti fazioni – femministe contro maschilisti; gay, lesbiche e trans contro eteronormativi; cattolici contro laici; comunisti contro fascisti – si sono frantumate per dare origine a schieramenti fluidi in cui le contrapposizioni, spesso violente, configurano alleanze improbabili che rischiano solo di acuire gli scontri e assecondare un arretramento, già in corso e per molti altri motivi, sul tema delle conquiste sociali e dei diritti civili. La matrilinearità è decisamente terreno ancora minato. Rimossa dalla storia perché destabilizzante l’ordine imposto dalla Legge del Padre, l’universo simbolico della madre è continuamente rinnegato per quanto appaia, e lo si intuisce dalla sempre più pressante insistenza con cui è rappresentato, come un’imprescindibile chiave di accesso alla (ri)scoperta di sé. Riconoscere la genealogia, riconoscere cioè che una è figlia di una madre che a sua volta è figlia di un’altra madre (e così via) significa riabilitare la funzione materna come funzione generativa, non solo riproduttiva.
Riabilitazione accidentata nella seconda stagione di Top of the lake di Jane Campion: China girl, in cui si intersecano le storie di una madre naturale (Robin) che, in seguito a uno stupro di gruppo all’età di diciassette anni, ha dato in adozione la figlia (Mary); di una madre adottiva (Julia) che vive il rifiuto di quella stessa figlia (la Mary di prima) anche per alcune sue scelte di autonomia affettiva (ha una relazione lesbica con un’insegnante della figlia) che non sono state metabolizzate; di una wannabe madre (Miranda), collega e fan della prima ora di Robin, che desidera un figlio e si affida alla gestazione per altri; di Cinnamon, che è la China Girl del titolo, e altre giovani thailandesi che sono madri surrogate per coppie benestanti australiane. Rispetto alla prima stagione di Top of the lake, la scena è molto diversa: abbandonata la mistica rurale di una natura a tratti salvifica a tratti ripugnante (la Nuova Zelanda), la detective Robin Griffin si trova immersa nella feroce e spesso insensata brutalità urbana (siamo a Sydney). Lo stato di diritto è in decomposizione, la violenza maschile pervasiva, l’istinto predatorio generalizzato. I punti di riferimento sembrano essere tutti saltati sotto la pressione di una tensione performativa fagocitante: soggettività in balia di desideri svuotati di senso e deprivati di relazione.
L’Altra è rinnegata: espulsa come un corpo estraneo, riaffiora tuttavia come memoria, come risentimento, come senso di colpa. Poco importa in che modo sia morta, che sia stata uccisa o si sia uccisa, elemento che rimane sottotraccia, opaco, incerto: non è quello il mistero che si cela dietro il ritrovamento del cadavere di una donna, chiusa dentro una valigia, gettata da una scogliera e rinvenuta su una spiaggia. Asiatica, lavoratrice del sesso, nel corpo un feto di cui non condivide il dna, è portatrice di una genealogia che non la comprende. Il corpo di una donna non è mai solo un corpo, ma trascina con sé tutto il rimosso del simulacro eteropatriarcale: la razza, il genere, la classe sociale, i diritti riproduttivi, la violenza. Al tramonto l’era dei figli degli uomini, con i vari dispositivi del patriarcato – matrimonio, istituto della maternità, discendenza patrilineare – fatica comunque a prendere corpo una possibile genealogia femminile in cui le donne si identifichino con l’esperienza di altre donne.
Jane Campion, che di nuovo firma la serie tv con Gerard Lee, ne disseziona le potenzialità generative per indagare la crescente dissociazione tra biologia e biografia, identità e origini, legami di sangue e vincoli sociali. «La riconoscenza verso la madre», dice da tempo Luisa Muraro, «è il primo atto di un guadagno di significato di sé nel mondo». Il rapporto con la maternità, come esperienza e relazione, è controverso. Chi è madre in China girl? Ma, soprattutto, oltre la serie tv, la domanda è: che cos’è oggi la maternità? Un istinto, un dovere, un fardello, un diritto, un desiderio, un commercio? Tema attualissimo e controverso su cui si stanno scontrando e sfasciando associazioni di femministe e lesbiche in ogni dove. Jane Campion lo affronta con innegabile maestria, aggirando ogni dicotomia: buone/cattivi, giusti/sbagliate, legittimi/illegittime. La stratificazione delle personagge non permette di formulare un giudizio di condanna delle pratiche e dalle scelte di vita delle singole. Certo si ricava l’immagine di un corpo sociale confuso e smarrito di fronte alla complessità di un reale che non si risolve più, o meglio non soltanto, nel dualismo opprimente del maschile e del femminile.
La serie tv mette in scena non solo l’emarginazione del soggetto maschile ormai ridotto a presenza inutile e spesso brutale, ma anche la difficile creazione di una possibile genealogia femminile in cui le donne si identifichino con l’esperienza di altre donne. È come se si fosse rotto il patto che prevede riconoscimento reciproco, impedendo la creazione di nuove figurazioni del vivere: finalmente scardinata la sequenza biologica, ancorata a quel centro di massima concentrazione patriarcale che è la famiglia, fatica a prendere corpo il rapporto della figlia con la madre, che altra non è che la donna che precede ogni donna. Scarsa o nulla empatia, ognuna elabora come può una maniera egotica di pensarsi e autorappresentarsi smentendo il legame con l’origine che, appunto, sfuma e diventa difficilmente rintracciabile. In origine, sembra suggerire Campion, era e rimane il corpo. Oltre il femminismo, la serie tv è ovarica, come sottolineato in più interviste dalla regista neozelandese. Corpi di donne ovunque, sempre perturbanti, ancora una volta abietti, che non rispettano le regole imposte dalla società, che turbano e mettono in crisi un ordine, un sistema, uno status quo. Il corpo della donna gravida, in particolare, incarna una delle declinazioni possibili dell’abietto poiché, in quanto portatore di vita, non nasconde e anzi mette in risalto il proprio debito nei confronti della natura, a cui è profondamente legato.
Abbandonata la natura, in China girl e forse nella collettività tutta, si è opacizzato il contatto con il corpo, soprattutto quando questo implica abuso, sfruttamento, violazione. Scarsa o nulla è l’empatia sui corpi delle madri surrogate osservati e controllati a distanza da onnipresenti telecamere; sui corpi delle prostitute valutati e votati su un sito web (hooker raters) da un gruppo di giovani abituati a comprare il sesso e a simulare esperienze affettive; sul corpo in decomposizione di Cinnamon e del feto che portava in grembo.
Di chi è il figlio in gestazione nel corpo di Cinnamon? Non è forse questa la domanda che più colpisce la spettatrice? Davvero poco importa perché sia morta la donna, per mano di un aguzzino o per disperazione personale, quando una fila di coppie attende di sapere chi ha perso alla lotteria della discendenza filiale. Tra queste Miranda, la detective che affianca Robin e verso cui, almeno così è per me, la spettatrice prova simpatia: fa tenerezza con quel suo corpo, e sì di nuovo il corpo, alto e ingombrante; con la sua infantile ammirazione per Robin; con la sua relazione sentimentale sgangherata. Vulnerabile e emotiva, cede a mille tentazioni, oltre la legalità, la giustizia, la convivenza civile, la natura. Personaggia complessa, umana, troppo umana per non assecondare un processo di identificazione che aggira la trappola ideologica, consentendo a Campion di sospendere il giudizio e di raccontare una storia di fragilità e sofferenza diffuse in cui i ruoli di oppresse e oppressori si invertono e si ribaltano in continuazione.
Le portatrici di un’etica manichea che ben riconosce ciò che è buono e giusto sono respingenti: lo è Julia, una splendida Nicole Kidman dalla folta chioma argentea, femminista radicale seguace orgogliosa di Germaine Greer; lo è la di lei fidanzata, Isadore, insegnante lesbica che dispensa insulsi consigli di vita a chiunque le capiti a tiro; lo è anche Robin inizialmente irrigidita in un rigore morale che la allontana dalla compassione di sé e degli altri. Campion non propone un’unica visione del mondo, ma molteplici punti di vista, andando dal centro alla periferia e ritorno. Fa a pezzi la correttezza politica e mette in cattedra il personaggio indegno, Puss, tenutario del bordello, protettore delle madri surrogate e fidanzato di Mary. A lui, che si definisce femminista pur dichiarando che il destino degli uomini è schiavizzare le donne, il compito di svelare come la tentazione allo sfruttamento sia penetrata a fondo nelle dinamiche sociali e abbia colonizzato l’immaginario collettivo. La verità, dal richiamo vagamente messianico, nella bocca di un impostore, non è verità. Senza intenti didascalici, bensì con grande perizia registica, Jane Campion presenta, attraverso un gioco di rimandi continui tra schermi autoriflettenti, un’umanità fragile e disorientata.
La dialettica sfruttata-sfruttatori si arricchisce di sempre nuovi tasselli, facendo giravolte imprevedibili e rendendo sempre più difficile discernere la ragione dal torto; rimane solo la sofferenza che, a pioggia, cade su tutte e tutti. Costruzioni culturali su eventi biologici hanno incastrato i destini di uomini e donne per troppo tempo. Tra l’autodeterminazione, quando è possibile, e la legislazione, quando è attuabile, sembra che la strada, tortuosa e con ripidissime pendenze, porti a abbandonare le pratiche e le costruzioni simboliche di quel che sapevamo o credevamo di sapere dell’essere madri e padri. Forse la bambina che Robin non ha cresciuto e che vede giocare in una vecchia registrazione video è il passato che dobbiamo lasciarci alle spalle per pensare a una inedita e differente visione sul futuro.
Un estratto da Zapping di una femminista seriale di Federica Fabbiani (Ledizioni, 2018).