L e alterne fortune della ricezione culturale dei Quadri della natura di Alexander von Humboldt insegnano molto sulla storia della scienza degli ultimi due secoli. L’autorevolezza planetaria conquistata da Humboldt in vita non aveva limiti. Tra i testi che più ispirarono il giovane Charles Darwin durante la sua circumnavigazione del globo tra il 1831 e il 1836 vi erano proprio i sette tomi dell’avvincente Personal Narrative (così tradotta in inglese) di Humboldt, che campeggiavano sulla mensola dell’angusta cabina del Beagle insieme ai Principi di geologia di Charles Lyell e a pochi altri volumi eletti. Il botanico John Henslow aveva suggerito a Darwin di partire con i libri di Humboldt nello zaino.
L’ancora sconosciuto naturalista inglese ammirava la prosa immaginifica dei testi humboldtiani sulle Americhe (usciti tra il 1814 e il 1825 e presto tradotti), la curiosità intelligente che sprigionavano e la cura dei particolari descrittivi, tanto da prenderlo a modello. Leggendo pagine come quelle che seguono qui, l’esordiente Darwin mise a punto le sue tecniche di osservazione, di trascrizione dei dati e di raccolta dei reperti da spedire in patria, inaugurando quello stile unico che traspare anche dai taccuini giovanili: una quasi totale indifferenza verso gli steccati disciplinari (molto humboldtiana); una buona dose di irriverenza (in privato) nei confronti delle tesi formulate dai predecessori; la capacità di anticipare le obiezioni che altri muoveranno alle sue ipotesi; una miscela formidabile di fatti corroboranti e di slanci teorici arditi. Le descrizioni humboldtiane dei vulcani, dei terremoti e delle loro relazioni fecero capire a Darwin che la superficie terrestre è un sistema tutt’altro che stabile.
Quando, rientrato a Londra, Darwin pubblicherà il suo acclamato diario di viaggio nel 1839 (e poi in edizione rivista nel 1845), nulla lo gratificherà più del giudizio di eccellenza espresso niente meno che da Humboldt in persona, cioè da colui che era diventato il guru degli esploratori e naturalisti vittoriani. Il giornale di viaggio darwiniano è a tutti gli effetti un dialogo implicito con Humboldt (anche se poi, quando i due si incontrarono nel 1842, Darwin rimarrà deluso dalla logorrea e dalla fragilità del suo anziano maestro di scrittura naturalistica). Anche l’altro padre della teoria dell’evoluzione per selezione naturale, Alfred R. Wallace – il fondatore ufficiale di quella biogeografia di piante e animali che già traspare chiaramente da queste pagine e che sarà fonte di prove fondamentali per la teoria evoluzionistica – vent’anni più tardi nei suoi viaggi prima in Amazzonia (sulle stesse orme di Humboldt) e poi in Malesia si lascerà ispirare da lui. Ma chi era quest’uomo così ammirato e influente da essere riverito da scrittori come Samuel Coleridge, Jules Verne, Edgar Allan Poe, e da rivoluzionari come Simón Bolívar? E perché oggi Darwin e Verne sono molto più conosciuti di lui?
Nato nel 1769 a Berlino da una ricca casata prussiana, educato ai valori dell’Illuminismo e innamorato di Parigi, dopo una gioventù irrequieta scandita da ben tre rivoluzioni (l’americana, la francese e l’industriale), Humboldt diede i suoi primi contributi alla repubblica delle lettere come inventivo ispettore delle miniere e come geologo (anche Darwin si considerava prima di tutto un geologo). Veloce di mente e di parola, il tarlo del viaggiatore già gli faceva compulsare con bramosia i diari di James Cook e Louis Antoine de Bougainville. Tra Jena e Weimar, Humboldt nel 1794 divenne amico intimo di Goethe, suo compagno di passeggiate e discussioni su poesia, natura, galvanismo e geologia. Non meno rilevante sarà il sodalizio con Friedrich von Schiller. Goethe diceva che quel venticinquenne era così pieno di sfrenata energia conoscitiva che da lui si recepiva in un’ora quello che sui libri si imparava in una settimana (alcuni storici ritengono che il personaggio di Faust riecheggi alcuni evidenti tratti caratteriali di Humboldt).
L’occasione per il grande viaggio gli venne offerta da Carlo IV di Spagna nel 1799. In cambio di un passaporto per le colonie sudamericane, avrebbe rifornito di meraviglie naturali il gabinetto madrileno. In Venezuela risalì l’Orinoco scoprendo che il leggendario canale Casiquiare si collegava davvero al bacino del Rio delle Amazzoni. Quanto all’agognato Eldorado, capì subito che era soltanto “una fantasia mitologica”. Avventurandosi a piedi o su canoa per migliaia di chilometri in regioni impervie dove pochissimi missionari si erano inoltrati, Humboldt misurava tutto: altitudine, umidità, temperatura, anche l’azzurrità del cielo. Insieme all’amico francese Aimé Bonpland, elencava sui taccuini tutte le specie animali e vegetali che incontrava. Raccoglieva campioni di acqua e aria, insieme a migliaia di reperti. Il figlio dell’aristocrazia prussiana aveva deciso di spendere l’eredità materna nelle durezze delle esplorazioni, rischiando letteralmente più volte la vita tra cataratte, burroni, uragani, febbri e veleni.
Addentrandosi nella foresta pluviale e scalando vulcani (nell’ascensione del 1802 al Chimborazo, sulle Ande, fu il primo uomo a sfiorare l’inusitata altezza di seimila metri), Humboldt sviluppò l’idea che la Terra fosse un unico grande organismo vivente in cui tutto era interconnesso. Per lui la natura era una trama globale di relazioni, un’immensa rete vitale priva di un piano trascendente e tenuta insieme da un’unità profonda.
L’olismo della sua “fisica generale” lo portò a diventare un antesignano dell’ambientalismo e un difensore degli “animi oppressi”: denunciò le devastazioni dei colonizzatori (le foreste decimate da piantagioni di canna da zucchero e miniere, il brutale sfruttamento delle risorse, la caccia e pesca indiscriminate) associandole ai cambiamenti climatici (fu tra i primi a capire che la foresta era cruciale per evitare l’erosione del suolo e rinfrescare il clima) e alle barbarie inflitte ai popoli indigeni (a suo dire, alcuni tra questi sono ottimi geografi e naturalisti, e per nulla “selvaggi”, mentre altri al contrario assai bellicosi e sanguinari). Musica per il libertador Simón Bolívar, che poi lo deluderà a causa delle sue derive dittatoriali.
Nella sua visione unitaria della Terra, natura e cultura non potevano restare separate. I suoi Quadri della natura sono un caleidoscopio geografico di minerali, conformazioni geologiche, montagne vulcani cordigliere colline pianure altipiani, fiumi e torrenti, coste laghi mari e oceani, piante, animali, coltivazioni, paesaggi, maestose vegetazioni, percorsi reali e immaginari, cieli stellati australi e boreali, solenni silenzi, venti e brezze, odori e colori, innumerevoli confini e spartiacque naturali e politici; ma pullulano anche di ipotesi su antiche migrazioni di umani, piante e animali, su scambi linguistici, contatti e commerci tra popoli che solcarono la superficie terrestre. Il suo occhio di viandante planetario fotografa spesso una natura cangiante e traboccante di biodiversità, non ancora schiacciata dall’antropizzazione, disseminata di culture e di lingue native ciascuna portatrice di una storia unica.
Di rientro dal Sudamerica, in una Washington che a quel tempo somigliava più a una fangosa cittadina rurale che a una capitale, Humboldt si intrattenne per una settimana con Thomas Jefferson, terzo presidente degli Stati Uniti. I due avevano in comune gli ideali di libertà, la passione per la scienza e gli interessi pratici per un’agricoltura rispettosa dell’ambiente. Non andavano invece d’accordo sulla schiavitù – sgradevole ma tutto sommato tollerabile per Jefferson, un’infamia da abolire per Humboldt, anche in questo maestro dell’antischiavista Darwin – e sulla discriminazione razziale, poiché secondo questo strano prussiano liberale le razze umane condividevano la stessa fisiologia e andavano considerate soltanto come declinazioni geografiche e culturali dell’unica grande famiglia umana, immersa in un unico grande sistema terrestre.
Estratto dall’introduzione di Quadri della natura di Alexander von Humboldt (edizioni codice, 2018, a cura di Franco Farinelli con la collaborazione di Grazia Melucci. Saggi di prefazione di Franco Farinelli, Telmo Pievani, Elena Canadelli).