U n’improvvisa moria di cornacchie. A New York, nell’estate del 1999, tutto cominciò così. Verso la fine del mese di giugno i residenti dei quartieri settentrionali del Queens iniziarono a notare un numero insolitamente elevato di carcasse di Corvus brachyrhynchos, la cornacchia americana. Nelle settimane successive le segnalazioni di volatili morti si moltiplicarono, estendendosi ad altre specie e altri distretti, anche dai vicini stati del New Jersey e del Connecticut. Un giorno venne trovato senza vita perfino un fenicottero del Cile all’interno dello zoo del Bronx.
A fine agosto, mentre continuano i ritrovamenti di cornacchie morte, un medico specialista in malattie infettive contattò il dipartimento di salute pubblica della città per riferire di due pazienti con encefalite ricoverati in un ospedale del Queens. Una rapida verifica portò all’identificazione di altre sei persone in ospedali vicini. I medici si chiedevano se questi casi potessero essere collegati tra loro ma a parte risiedere tutti nel raggio di pochi chilometri ed essere abbastanza avanti con l’età, i pazienti non sembravano avere molto in comune. Fatta eccezione per un’abitudine: svolgere qualche attività all’aperto dopo il tramonto, vicino a casa, ad esempio prendersi cura del proprio giardino. Nei cortili e nei dintorni delle loro abitazioni vennero individuati diversi punti idonei alla riproduzione di zanzare e la presenza di larve ne era una prova.
Le prime analisi di laboratorio suggerivano che la causa della malattia dei pazienti potesse essere il virus dell’encefalite di St. Louis, trasmesso dalle zanzare e presente da tempo negli Stati Uniti. Quando agli inizi di settembre si ritrovarono tra le mani questi primi test, i medici non sospettavano ancora che ci potesse essere un legame tra la malattia dei ricoverati nel Queens e quello che stava accadendo alle cornacchie in città: il virus dell’encefalite di St. Louis non era noto per essere letale tra gli uccelli. Ma alla fine del mese arrivarono i risultati di nuovi esami, che identificavano il vero colpevole: un patogeno mai riscontrato prima negli Stati Uniti, il virus West Nile. La sua presenza venne confermata anche in campioni prelevati dalle carcasse delle cornacchie. Umani e uccelli erano vittime della stessa epidemia.
West Nile Story
La moria delle cornacchie dell’estate newyorkese del 1999 è stato il biglietto da visita con il quale il virus West Nile si è presentato per la prima volta nell’emisfero occidentale del pianeta. Scoperto in Uganda nel 1937, questo virus è soltanto uno dei numerosi patogeni trasmessi da vettori, cioè agenti che diffondono virus o batteri in una popolazione. L’80% delle persone infette non si accorge nemmeno di aver contratto il virus. Il 20% dei casi sviluppa sintomi simili a quelli dell’influenza. In casi piuttosto rari, meno dell’1%, la sua infezione può causare complicazioni neurologiche potenzialmente letali. Durante l’epidemia di New York i ricoverati furono una sessantina, ma le persone infette devono essere state migliaia. La sua circolazione può costituire un rischio per soggetti deboli e anziani, che sono quelli più esposti alle possibili complicanze.
La lista dei patogeni diffusi da vettori è lunga e comprende virus, batteri, protozoi come quello della malaria, parassiti. I vettori sono in genere insetti, come le zanzare, le mosche e le pulci o altri invertebrati artropodi come le zecche. Negli ultimi anni le autorità sanitarie hanno espresso preoccupazione per la diffusione di queste malattie in molte aree del pianeta. Nel corso del 2018, all’interno dell’Unione Europea, è stato notificato un numero senza precedenti, per il Vecchio Continente, di infezioni da virus West Nile. Da giugno ad oggi sono stati riportati 1.463 casi in dieci paesi dell’Unione. Di questi, 550 in Italia. Solo nella settimana di fine agosto le infezioni confermate sono state 300, più di quelle avvenute durante tutto il 2017.
In Italia, nel 2007, è scoppiata invece la prima epidemia europea di infezioni da virus Chikungunya, con più di 200 casi in Romagna. L’arrivo del virus in Europa è stato preceduto, nel 2005 e nel 2006, da estese epidemie in India e nel Sud Est asiatico. Nel 2015 il Brasile ha dovuto poi fronteggiare il virus Zika, dopo alcune epidemie che si sono verificate nell’Oceano Pacifico negli anni precedenti. Le infezioni da virus Zika in Brasile sono state associate a un aumento dei casi di microcefalia, un’anomalia dello sviluppo cerebrale che causa una riduzione del volume del cervello e della circonferenza cranica dei neonati. Il virus della febbre Dengue attraversa una fase di rapida emergenza in molti paesi. L’OMS scrive che la sua incidenza “è drammaticamente aumentata negli ultimi decenni nel mondo”. La malattia è endemica ormai in più di 100 paesi e nel 2010 è stata riscontrata una sua trasmissione locale anche in Europa.
La lista dei patogeni diffusi da vettori comprende virus, batteri, protozoi come quello della malaria, parassiti. I vettori sono in genere insetti, come le zanzare, le mosche e le pulci o altri invertebrati artropodi come le zecche.
Sembra quindi che i virus trasmessi da vettori stiano riuscendo a “colonizzare” porzioni sempre più grandi della Terra. Perché accade, e perché in questi ultimi decenni, sono le domande a cui la comunità scientifica cerca di rispondere. Ci sono molti fattori che possono favorire la circolazione di questi agenti patogeni. Il clima è tra quelli su cui si sta concentrando l’attenzione dei ricercatori.
Dalla seconda metà del Diciannovesimo secolo a oggi la temperatura della Terra è aumentata di circa 1 grado centigrado. L’aumento della concentrazione atmosferica di gas serra, in particolare di anidride carbonica (CO2), dovuto a diverse attività umane, è la causa principale del riscaldamento globale in corso. Un grado può sembrare insignificante, ma si tratta di un dato medio che riflette le temperature misurate nel corso dell’anno sull’intero pianeta. Alcune regioni, come l’Artico o la stessa Europa, stanno sperimentando anomalie termiche talvolta decisamente maggiori della media globale ed è ormai evidente che anche un aumento di mezzo grado fa la differenza per gli effetti ambientali e climatici che può innescare. La gravità dell’attuale riscaldamento globale non si comprende appieno se non si valuta la velocità con cui è avvenuto.
Spesso per richiamare gli obiettivi di riduzione delle emissioni di CO2 ci si riferisce alla situazione del pianeta prima dello sviluppo industriale, ma si trascura così il fatto che la gran parte dell’aumento della temperatura della Terra, che ha prodotto quel grado in più che misuriamo oggi, è avvenuta dagli anni Settanta, cioè in appena quarant’anni. E l’accelerazione degli ultimi 20 anni appare ancora più impressionante se si considera che i dieci anni più caldi finora registrati si concentrano dal 1998 a oggi. Lo scioglimento dei ghiacci sul pianeta è la conseguenza più visibile dell’aumento della temperatura, ma il riscaldamento globale produce una serie di altri fenomeni che interferiscono con quel sistema complesso che è il clima. La crisi climatica, come alcuni non esitano a definirla, sta già causando costi non solo ambientali, ma anche sociali, economici e sanitari. Secondo le previsioni dell’OMS, dobbiamo attenderci un aumento di 250.000 morti l’anno, tra il 2030 e il 2050, per cause attribuibili ai cambiamenti climatici.
Il mondo è piccolo
Se dovessimo soltanto chiederci come fa un virus a spostarsi da un continente all’altro, la risposta sarebbe semplice: viviamo in un mondo piccolo. Un mondo che nel corso del Novecento si è ancora più ristretto. C’è chi vede nell’arrivo dei migranti un pericolo per la salute pubblica, temendo che possano introdurre malattie nuove o da tempo scomparse, ma è stata la globalizzazione, non l’immigrazione, ad aver rimpicciolito il mondo. La velocità di spostamento a livello globale delle persone e delle merci, grazie alla fitta rete del traffico aereo, rende relativamente semplice, per un virus, viaggiare intorno al mondo. Ma è stato così anche nei secoli passati, quando i viaggi duravano settimane o mesi.
Una delle più devastanti epidemie della storia, la peste della metà del Trecento, giunse in Europa attraverso le rotte commerciali, dall’Oriente. Ed è così, oggi, per i virus dell’influenza. Anche un virus come il West Nile può imbarcarsi su un volo per attraversare l’oceano. L’analisi genetica ha dimostrato che quello che iniziò a circolare a New York nell’estate del 1999 era parente di un ceppo che l’anno precedente causò un’epidemia tra alcune specie di uccelli in Israele. Anche se non è possibile dimostrarlo, l’ipotesi più probabile è che il virus sia arrivato con una spedizione aerea, trasportato da zanzare infette oppure da larve o uova depositate nell’acqua rimasta all’interno di qualche merce. Tuttavia per insediarsi e rimanere su un nuovo territorio questo non è sufficiente. A maggior ragione per i virus trasmessi da vettori. Questi virus sono caratterizzati da una complessa ecologia, cioè da una circolazione nell’ambiente che, come dimostra il caso di New York, richiede la presenza su un territorio di più specie.
La velocità di spostamento a livello globale delle persone e delle merci, grazie alla fitta rete del traffico aereo, rende relativamente semplice, per un virus, viaggiare intorno al mondo.
Il ciclo di trasmissione del virus West Nile coinvolge le zanzare della specie Culex (come la zanzara comune), che ricoprono il ruolo di vettori, gli uccelli e almeno due mammiferi: gli esseri umani e i cavalli. Le zanzare trasmettono il virus agli uccelli, che sono gli ospiti principali. Una volta infettati sviluppano alte concentrazioni del virus, che possono trasmettere a esseri umani e cavalli attraverso la puntura di altre zanzare. Ma, a differenza degli uccelli, gli esseri umani e i cavalli sono ospiti terminali, perché al loro interno i virus non si riproducono in quantità sufficiente a infettare di nuovo le zanzare e a proseguire il ciclo di trasmissione. Si conoscono più di 200 specie di volatili ospiti del virus West Nile, compresi migratori. Le rotte percorse da questi uccelli costituiscono tra l’altro un’ulteriore via di dispersione del virus. Ma per potersi svolgere, il ciclo di trasmissione deve avvenire in un contesto ambientale idoneo. Le aree umide, a ridosso di fiumi o laghi, sono un perfetto incubatore per questi virus. Non è un caso che il primo focolaio umano di West Nile in Italia sia apparso nell’area del delta del Po, un’ampia zona umida ricca di siti di nidificazione di uccelli selvatici.
La mano del clima
È ormai chiaro che temperatura, umidità dell’aria, quantità delle precipitazioni, giocano un ruolo determinante nella circolazione dei virus trasmessi da vettori. Il riscaldamento globale sta modificando tutti questi parametri climatici, in modo variabile da regione a regione. La temperatura, in particolare, sembra essere il fattore più critico. Le zanzare sono animali ectotermi, cioè dipendono dall’ambiente per la regolazione della loro temperatura corporea e ciò condiziona il loro sviluppo, la loro fisiologia e il loro comportamento. Un clima più caldo aumenta il tasso di crescita e l’abbondanza delle popolazioni di zanzare, le rende più efficienti nel trasmettere il virus agli uccelli e accorcia l’intervallo tra due successivi pasti.
Diversi studi hanno dimostrato anche una forte associazione tra la temperatura e la velocità di replicazione del virus West Nile nelle cellule delle zanzare. È possibile, inoltre, che i cambiamenti climatici stiano mutando anche il comportamento degli uccelli migratori, anticipando il loro arrivo nella sempre più calde stagioni primaverili che si riscontrano alle latitudini europee. Nel 2018 il primo caso umano di West Nile in Italia è stato notificato il 16 giugno, un avvio di stagione epidemica precoce secondo l’Istituto Superiore di Sanità.
L’Europa, negli ultimi decenni, sta diventando un continente più accogliente per specie di vettori che provengono da altre aree del pianeta. La zanzara tigre, vettore del virus Chikungunya, è un esempio paradigmatico. Di origine asiatica, è riuscita a stabilirsi in molte aree del vecchio continente in un periodo in cui le condizioni climatiche erano particolarmente favorevoli. Ma un clima più caldo può avvantaggiare non solo i vettori esotici, ma anche quelli autoctoni. È il caso delle zecche, che trasmettono encefaliti e la malattia di Lyme. È stato osservato un loro progressivo spostamento verso nord e verso altitudini più elevate, cioè in luoghi dove le temperature sono più miti di un tempo. Tutte queste evidenze sembrano trovare un riscontro nell’evoluzione che ha caratterizzato l’epidemiologia del virus West Nile negli anni recenti. Nell’estate del 2010 si è verificato uno straordinario incremento delle infezioni in Europa. 262 casi in paesi dell’Est e del Sud, in particolare Romania, Ungheria e Grecia e Italia. Lo scoppio dell’epidemia fu preceduto da ondate di calore e il 2010 segnò un record per le temperature globali (oggi è il quinto anno più caldo registrato).
Temperatura, umidità dell’aria, quantità delle precipitazioni, giocano un ruolo determinante nella circolazione dei virus trasmessi da vettori. Il riscaldamento globale sta modificando tutti questi parametri climatici.
L’aumento delle temperature sta interferendo con l’intero sistema del clima, cambiando il regime delle precipitazioni atmosferiche. Dagli anni Sessanta, in Europa, i millimetri di pioggia caduti ogni anno sono aumentati nel nord, ma sono diminuiti in diverse aree del sud del continente. È certo che questo possa avere un impatto sulla circolazione del virus West Nile e di altri patogeni trasmessi da vettori, ma gli effetti possono essere ambivalenti. In campo epidemiologico si ritiene che l’aumento delle piogge favorisca l’esplosione delle popolazioni di zanzare e quindi una maggiore circolazione del virus anche nella popolazione umana. Ma immaginiamo cosa può accadere in un territorio durante un periodo siccitoso. In assenza di piogge, le poche pozze d’acqua stagnanti si arricchiscono di nutrienti organici, di cui si nutrono le larve delle zanzare durante lo sviluppo, e attirano gli insetti ma anche altri animali, tra cui gli uccelli, favorendo i contatti tra i vettori del virus e le specie animali ospiti.
Inverni miti, ondate di calore estive, piogge abbondanti in alcune regioni, siccità prolungate in altre. Questo è lo scenario in cui stiamo vivendo. Rimangono diversi aspetti da chiarire e non sappiamo con certezza cosa potrà accadere se le temperature continueranno ad aumentare. Gli scienziati stanno ragionando su come tenere conto dei parametri climatici nell’elaborazione di modelli di previsione delle epidemie future. L’epidemiologia non è funzione solo del clima, ma di molti altri fattori anche non ambientali: la demografia, l’urbanizzazione, l’uso del territorio, le condizioni socioeconomiche. Se in molti paesi la malaria è pressoché scomparsa questo si deve all’efficienza del sistema sanitario, al miglioramento delle misure di prevenzione come il controllo delle popolazioni di zanzare e alla corretta gestione delle risorse idriche.
Quel che è certo è che noi esseri umani abbiamo cambiato in tempi rapidissimi il clima della Terra. I segnali che stiamo raccogliendo, anche studiando le epidemie causate dai virus come il West Nile, ci ricordano che i cambiamenti climatici, di cui noi siamo i responsabili, rischiano di rendere questo pianeta un luogo sempre più difficile e ostile.