C hristian Raimo racconta di una famiglia, di come possa scardinarsi per colpe che non si lavano, e di come a volte, in questa storia, l’amore che lega le sue componenti le une alle altre sappia resistere, come “la parte migliore”.
A colpire in prima battuta sono la ricerca e l’efficacia dello stile. L’autore ha avuto buone idee e ha saputo anche comporle: “l’attenzione è il solo cammino verso l’inesprimibile, la sola strada al mistero”, oppure: “si scordano di cosa è fatta la morale: estetica prima di tutto”, che racconta una verità filosofica profonda capace di farci liberare dal concetto di colpa e accedere alla possibilità di cercare il bene, in quanto ciò che c’è di più desiderabile. In linea con questa premessa, il romanzo persegue una ricerca dell’espressione estetica della verità, centrandola spesso: “in carcere aveva riflettuto su quanto pregare – farsi vedere in preghiera – fosse considerata un’attività virile per i musulmani, e quanto invece per gli occidentali fosse considerata una pratica da beghine, da donne deboli e superstiziose”. Oppure: “a Roma la tragedia per alcuni riti si mescola agli screzi per le macchine in doppia fila. In un modo o nell’altro è una città che protegge dall’intensità del dolore, dalla sua assolutezza”.
La scrittura di Raimo è gnomica, la sua ricerca è trasversale lungo i tanti argomenti trattati. I tre personaggi protagonisti, i tre familiari: Leda, Laura e Giuseppe, pensano molto, dissertano fra sé e sé e con gli altri, della morte, di Dio, dell’orrore dei tempi e della società, in particolare lo fa Laura, figlia dei due, in attesa di compiere i suoi diciotto anni: “avrebbe desiderato essere esattamente quello, una puntina. Un lettore che sa leggere solo certe tracce del mondo, e del resto, della schiuma di tutte le parole farne a meno”. Il pensare dei tre, che occupa una parte consistente del testo, non solo in termini di densità, ma anche di spazio, righe, non ha come risultato nella lettura di incappare in testoni che si aggirano monchi per le pagine: l’autore ha fornito a tutti i personaggi un corpo.
Laura è alta, Leda ha un culo “largo e bello per essere una donna di quarantacinque anni”. (In questo caso la scelta degli aggettivi è enigmatica, considerato che esiste una pletora di quarantacinquenni con dei bellissimi deretani di ogni misura); sappiamo che Giuseppe è smagrito, ha i capelli bianchi. Ottima la scelta di darcene una descrizione più accurata solo nel momento in cui, oltre la metà del testo, sua figlia adolescente lo vede dopo anni e lo guarda: “era più alto di lei che è uno e settantacinque. Piuttosto magro con la faccia sgualcita di chi è stato buttato giù dal letto, il naso identico al suo – asimmetrico, come un taglio nel viso…”.
Il corpo si accoppia, anche, e nel romanzo di Raimo troviamo scene che seppur talvolta prendano pieghe ultrasoniche, con viaggi stellari dei personaggi protagonisti intenti a fare sesso, mantengono la carnalità e sono quindi vere. Descrivono quella ricerca della combinazione impossibile tra solido e liquido di quando vogliamo che sia un corpo altrui a rispondere ai nostri bisogni o vuoti emotivi: “possedeva qualcosa di più attraente e necessario per lei in quel momento: il peso. Quello che davvero desiderava era il peso di un uomo su di lei”. Nelle scene di sesso quotidiano, dove l’autore è consapevole che una certa quotidianità sembri roba forte sulla pagina e al tempo stesso non strumentalizza la materia, la narrazione mantiene la sua immediatezza di realtà:
gli abbrancò il culo con le mani, cercandogli le palle. Mimava la tenerezza, gli aveva sfilato i pantaloni […] A cazzo dritto la guardò stesa, la fissò riassestando il respiro per qualche secondo, ci pensò, e poi le venne addosso, come qualcosa che invece di crollare si scioglie.
Sono molte le cose che funzionano nel romanzo, per esempio quando si resta stupiti perché un personaggio non reagisce in modo scontato, sono belli i racconti di alcuni sogni, i sonetti che scrive Laura e che compaiono nel romanzo, in cui a colpire non è tanto e soprattutto la qualità poetica dei testi, ma che la loro presenza riesca a restituire al lettore la spinta spirituale che solo chi scrive poesie conosce, e quindi a rendere la personaggia* di Laura una futura poetessa del tutto credibile.
Ci sono però anche dei momenti in cui sembra che più tempo avrebbe giovato al testo, per esempio quando si incappa in frasi, poche, che necessitavano di una distensione sintattica maggiore: “ogni persona è gelosa delle sue paure opache, che spesso possiedono la leggerezza ingannevole di una promessa il cui esaudimento è ogni giorno procrastinabile”. Forse poi sarebbe stato bene che chi scrive avesse avuto l’agio per precisare alcuni fatti del passato dei personaggi, di Giuseppe, in particolare. Ma il tempo può mancare, lo fa spesso, e quando accade impedisce quel lavoro malmostoso e ossessivo che rende lenti, e perfetti.
*Neologismo della Società Italiana delle Letterate: Mazzanti R., Neonato S., Sarasini B., L’invenzione delle personagge, Roma: Iacobelli, 2013.