“N
on ho mai tenuto un diario – o meglio, non ho mai saputo se dovevo tenerne uno. Talvolta inizio, e poi molto presto, lascio perdere – e tuttavia, più tardi, ricomincio. È un desiderio lieve, intermittente, senza gravità e senza consistenza dottrinale. Credo di poter diagnosticare questa ‘malattia’ del diario: un dubbio insolubile sul valore di ciò che vi si scrive”. Queste parole pubblicate nel 1979 su Tel Quel (oggi si leggono in coda a Il brusio della lingua) sono dedicate da Roland Barthes al tema del diario. Con la sua consueta semplicità apparente, l’autore individua il problema centrale della scrittura diaristica e spalanca le porte ai dubbi che qualsiasi lettore di questo genere prima o poi incontra – quelli sul valore letterario in primis.
Poco dopo, inoltre, Barthes descrive i suoi sentimenti ambigui quando si cimenta in questo tipo di scrittura: da una parte l’immediata semplicità di trasferire le parole sulla pagina (“nessuna sofferenza, nessuna fatica per trovare che cosa dire: il materiale è lì, pronto”), dall’altra l’interrogazione sul valore di quella parola, il rischio di una sua “mediocrità artistica” e, soprattutto, i sentimenti che sorgono nel momento della successiva rilettura: “la reminiscenza non cessa mai di essere ambigua, perché ricordare significa anche constatare e perdere una seconda volta ciò che non ritornerà più”. Con la sua volontà di “essere degna degli scrittori, dei pittori e dei musicisti che venerava” e con l’idea che nel diario “l’arte è una questione di vita o di morte”, Susan Sontag aveva certo considerato, oltre che probabilmente letto, le trappole del genere diaristico che Barthes aveva messo in luce. Ma la sua scelta diaristica probabilmente procede oltre le questioni discusse dal maestro francese, perché in lei riluce la convinzione che la scrittura di sé, trascendendo spesso i rigidi steccati di genere, continuamente muti forma per diventare illustrazione, a se stessa prima di tutto, della propria “autoinvenzione”.
L’itinerario che i diari di Susan Sontag costruiscono è impressionante e un lettore attento può seguirne proficuamente lo sviluppo. Sontag tenne un diario per tutta la vita: quando morì, suo figlio, David Rieff, ha scelto di pubblicarli in tre volumi e così, mentre negli Stati Uniti si attende quello conclusivo, la casa editrice Nottetempo manda in libreria il primo, Rinata. Diari e appunti 1947-1963, con la traduzione di Paolo Dilonardo. Nella sua densa e partecipata nota introduttiva, Rieff anticipa già un’altra questione teorica spesso dibattuta, quella che riguarda la pubblicazione postuma dei diari (liquidata splendidamente nelle prime righe: “Ho sempre pensato che una delle cose più stupide detta dai vivi a proposito dei morti sia la frase ‘la tale persona avrebbe voluto così’”), spiegando come essa fosse inevitabile per la cessione dei diritti alla University of California di Los Angeles. Ciò che però rende particolarmente significativa la prefazione di Rieff è l’opportunità che dà al lettore di inquadrare questo ricco e fuggevole materiale attraverso la modalità più adatta:
l’aspetto più affascinante dei diari sta proprio nella crudezza di queste annotazioni che restituiscono un ritratto non abbellito di una giovane Susan Sontag, impegnata con consapevolezza e determinazione nella creazione dell’identità che desiderava per sé.
In questo volume si susseguono i dubbi, le paure e i successi di Sontag: il lettore può seguire l’acquisizione di questa identità attraverso il continuo alternarsi di inceppamenti e passi in avanti. Nonostante questi diari inizino quando Sontag ha appena quattordici anni, già da questo primo volume, che giunge fino al 1963 e dunque a un’autrice trentenne, emerge con forza e chiarezza la consapevolezza che la scrittrice americana aveva di se stessa. La sua minuziosa autoanalisi si muove continuamente tra due poli, continuamente intrecciati: da una parte la curiosità intellettuale instancabile, il desiderio di voler conoscere tutto (come testimoniano per esempio le liste di libri che ciclicamente si ripresentano con le cancellatura di ciò che è stato letto e tra cui si trova all’inizio molto Gide, ma anche il Faulkner di Santuario, le poesie di Dante, Ariosto o Tasso) e di non lasciarsi sfuggire niente, dall’altra invece un giudizio sul disagio provato nei confronti del proprio corpo, in assoluta antitesi rispetto alla serenità nei confronti della mente.
Un lettore di Sontag si accorge immediatamente di trovarsi di fronte ad una sfaccettatura inedita della scrittrice, perché se nelle sue opere maggiori la prosa è sempre piana e precisa, dall’andamento talvolta anche aforistico, nei diari la scrittura è spezzettata e continuamente in divenire, più diretta nell’affidare alla pagina finzioni, sogni, desideri, commenti ad eventi più o meno significativi della quotidianità. Maurice Blanchot in alcune memorabili pagine di Il libro a venire dice che “scrivere un diario intimo, è mettersi temporaneamente sotto la protezione dei giorni comuni, mettere la scrittura sotto questa protezione, e anche proteggersi dalla scrittura, assoggettandola a una regolarità felice che ci si impegna a rispettare”, e la scrittura diaristica di Sontag che rispetta il “demone” del calendario con assoluta naturalezza sembra soddisfare proprio questi presupposti.
Il suo dettato, nel procedere dei giorni e degli anni, assume così una forma peculiare che vive anche di una continua mutazione di stili, come testimoniano per esempio gli appunti del 1957 che si avvicinano più al flusso di coscienza che all’indagine analitica e pacifica di altre annotazioni precedenti e successive. I diari sono il luogo di nascita di una scrittrice, e quasi impressiona vedere come una Sontag giovanissima cominci ad addentrarsi nel mondo della riflessione a lungo termine, come mostrano per esempio queste righe scritte nel 1948, a quindici anni:
E cosa significa essere giovani e diventare improvvisamente consapevoli dell’angoscia, dell’urgenza della vita? Significa captare un giorno gli echi di coloro che non si adeguano, uscire barcollando dalla giungla e precipitare in un abisso. Significa, dunque, essere ciechi ai difetti dei ribelli, agognare dolorosamente, pienamente, tutto ciò che si oppone a un’esistenza infantile.
C’è già, in queste pagine giovanili, una consapevolezza sul fatto di essere una scrittrice, la coscienza profonda di avere qualcosa di importante da dire, un’urgenza narrativa che si riflette anche nella sicurezza assoluta dei giudizi, sempre secchi e maturi (come quelli, numerosi, sul Don Giovanni, vero e proprio elemento ricorrente). A questa maturità intellettuale fa da contraltare una insicurezza emotiva che si protrae negli anni e non trova mai quiete, un’instabilità che si concretizza nella domanda sull’essenza dell’amore, che Sontag finisce per individuare nel dolore.
Il tema dell’identità attraversa poi molte di queste pagine, ergendosi forse come uno dei nodi cruciali di tutta l’opera: questo tema, su cui Sontag continuamente riflette e scrive, porta a configurare immediatamente il diario non solo come il luogo che può accogliere le confidenze di chi lo scrive, ma soprattutto come un incubatore attraverso cui costruire l’identità di cui la giovane scrittrice è in cerca. Da questo punto di vista il diario assume un valore simile a quello di un lettino di uno psicoanalista. Sembra che Sontag fosse in cerca di un “tu”, un interlocutore, a cui consegnare la sua parola, non sottovalutando mai tutti i dubbi che essa porta con sé, ma dando ad essi invece un valore profondo nell’itinerario di definizione di se stessa. Tale arco riflessivo la porta a un ragionamento sul tema dell’identità non solo complesso, ma anche estremamente attuale: la sua indagine muove da una disamina attenta, e da una successiva problematizzazione, di tutti quelli che sono i possibili generatori di identità, non solo, e ovviamente, la sessualità, ma anche temi universali come quello della religione o della maternità, non adagiandosi mai sulla banalità delle questioni, ma tentando sempre, come se fosse naturalmente portata, ad uno scavo molto profondo.
Attraverso questi taccuini Sontag dice di essere “rinata”, ed è felice da questo punto di vista la scelta del titolo del volume, una rinascita che coinvolge il corpo e la mente sulla base di una continua riflessione sull’identità di scrittrice, di intellettuale, di madre e soprattutto di donna: “So la verità adesso – scrive nel 1949 – so come è bello e giusto amare. Mi è stato dato, almeno in parte, il permesso di vivere. Tutto comincia adesso. Sono rinata”. Il tema dell’identità sessuale viene affrontato da Sontag da prospettive diverse e molteplici, muovendo dalla consapevolezza della propria bisessualità e ricostruendo una cronologia, appassionata e onesta, della propria educazione sentimentale. Sono interessanti anche le pagine che Sontag dedica a un’analisi linguistica dell’identità sessuale (con numerose liste sull’utilizzo dei termini legati al gergo gay), perché esse si legano e rimandano anche alle preziose e ricche riflessioni del decisivo Malattia come metafora, nella convinzione che l’immaginario che la società costruisce attraverso il linguaggio, costituisca uno dei fortini più ardui da penetrare e da modificare. Scrittura e identità sessuale finiscono così per costruire un legame inscindibile, come se la prima potesse segnare una sorta di scudo per la seconda, come emerge da un’annotazione del 1959:
Il mio bisogno di scrivere è connesso alla mia omosessualità. Ho bisogno di questa identità come di un’arma, da contrapporre all’arma che la società usa contro di me. Ciò non giustifica la mia omosessualità. Ma mi accorderebbe – lo sento – una certa licenza.
“L’interesse del diario è nella sua irrilevanza. Scrivere ogni giorno, sotto la garanzia di quel giorno e per rammentarselo, è un modo comodo per sfuggire al silenzio e a quel che c’è di estremo nella parola. Ogni giorno registrato è un giorno preservato. È un modo di vivere due volte”: sempre Blanchot. E il diario di Sontag risponde anche a questa urgenza, perché consegna al lettore e allo studioso degli strumenti preziosi per comprendere un universo intellettuale che inizia a formarsi negli anni dell’adolescenza e che vive nella necessità di tenere vicini i demoni personali, in una gabbia, che è poi la scrittura, per temerli, ammirarli e infine addomesticarli.
Per fare questo Sontag parte sempre ovviamente da se stessa, ma compie questo itinerario senza alcun tipo di narcisismo o compiacimento: la sua scrittura, come ha notato il traduttore Dilonardo, nasce da una fusione tra la tensione etica e lo sguardo estetico, aspetti che certo possono sembrare lontani, ma che invece nella sua opera, e lo si vede ancora di più in questi diari, trovano una perfetta miscela proprio attraverso gli elementi, decisivi, del corpo e della coscienza, del pensiero e del sentire, dell’arte e dell’amore.