I n un passaggio particolarmente significativo di W o il ricordo di infanzia, Georges Perec scrive di come si “siano spezzati i fili che [lo] legano all’infanzia”. È un punto nodale della sua opera che riveste un ruolo decisivo in questo romanzo, meritoriamente riproposto da Einaudi dopo anni di discutibile assenza, nella nuova traduzione di Maurizia Balmelli e con una corposa introduzione di Andrea Canobbio. Se è vero, come racconta nel capitolo dedicato alle memorie familiari, che il cognome Perec deriva dal nome di famiglia Peretz che in ebraico significa “buco”, l’intertestualità dell’opera di Perec finisce per investire anche la sua stessa vita: ogni sua pagina è segnata da un’assenza, da un bianco, che è il luogo su cui è edificata tutta la sua opera. W o il ricordo d’infanzia esce in Francia nel 1975, dopo sei anni di gestazione, nell’anno in cui Perec ha concluso la sua analisi con Jean-Bertrand Pontalis che sul suo paziente scriverà delle pagine importanti in Tra il sogno e il dolore (Borla), pagine che tratteggiano pure una possibile direzione di lettura dei suoi testi, tutti legati inestricabilmente tra loro e al lutto originario della sua vita:
“I genitori – scrive Pontalis – sono morti durante i suoi primi anni di vita: deportati, dispersi. Vede in questa doppia sparizione la causa della sua ‘amnesia infantile’. Vi farà spesso ritorno: ‘non posso avere ricordi d’infanzia perché sono stato così presto orfano’. In altre parole i genitori hanno trascinato nella morte il bambino vivo. Non gli resta che sopravvivere. E ciò che sopravvive nelle sedute è una straordinaria macchina per produrre sogni (non per sognare), per giocare con le parole (più che per lasciarle giocare), per registrare la vita quotidiana (a condizione che resti rappresa)”.
In ogni suo romanzo si rintraccia un tentativo viscerale ed estremo di scrivere una presenza nel mondo, partendo sempre da un’assenza, infarcendo continuamente il testo letterario di tratti autobiografici che, per la loro natura frammentaria, non potranno mai avere la struttura codificata che richiedono.
Una ricerca che non è rintracciabile solo in W o il ricordo d’infanzia. Si può fare riferimento a La scomparsa, romanzo che narra della ricerca di Anton Voyl e scritto interamente senza l’utilizzo della lettera “e”, quella che ricorre con maggior frequenza nella lingua francese, simbolo anch’esso di una scomparsa a cui è necessario dare una risposta. La ricerca di Anton Voyl scomparso o, se si preferisce, della “voyelle” perduta (se si aggiunge la “e” scomparsa dal testo al nome del protagonista esce fuori proprio “vocale”), porterà alla morte nel preciso istante in cui i protagonisti saranno sul punto di pronunciarla; ogni volta che qualcuno si avvicina alla risoluzione del mistero scompare, come se, nel romanzo di uno sterminio (dell’alfabeto e della famiglia), l’indagine dell’uomo non possa che presentarsi nella sua vanità e nella sua impossibile realizzazione.
Perec, analitico, confronta la sua scrittura con le circonvoluzioni del free jazz: “la costrizione è ciò che permette la libertà, la libertà è ciò che nasce dalla costrizione”. In La scomparsa la costrizione che, paradossalmente, libera l’autore è l’insistenza sull’eliminazione della lettera “e”: non solo la lettera più utilizzata nella lingua francese, ma anche il segno grafico che spesso si fa muto nella pronuncia, dando alla lettera il doppio statuto di regina della lingua francese e marchio di un’assenza, dell’impronunciabile. Perec prova a far sparire tutte le parole che contengono quella lettera, praticando un linguaggio monco ma, insieme, salvifico nei conronti di tutte quelle parole prive della lettera dannata. Il richiamo intertestuale è forte, torna alla mente il magnifico crittografo Cinoc, uno dei personaggi di La vita istruzioni per l’uso, residente nel condominio sito al numero 11 di Rue Simon-Crubellier, di mestiere ammazzaparole:
lavorava all’aggiornamento dei dizionari Larousse. Ma mentre altri redattori erano sempre alla ricerca di parole e significati nuovi, lui, per fargli posto, doveva eliminare tutte le parole e tutti i significati caduti in disuso.
Allo stesso tempo Cinoc annotava le parole rare per “redigere un grande dizionario delle parole dimenticate, per salvare parole semplici che a lui continuavano a parlare”. Diventa qui inevitabile fare riferimento alla storia autobiografica di Perec della cui madre, Cyrla Szulewicz, si perse ogni traccia, internata dapprima nel campo di transito di Drancy e poi trasferita ad Auschwitz, e il cui padre, Icek Judko Perec, morì soldato volontario nella battaglia contro i nazisti a Nogent-sur-Seine. Per tutta la sua vita Perec ha cercato di mettere in scena la storia subita dalla sua famiglia, cercando di soddisfare, attraverso l’esigenza autobiografica della sua scrittura, il suo desiderio, come scrive in W o il ricordo d’infanzia, di dare voce a quel lutto originario, all’“assenza di storia”, che segna la sua vita. Le lettera “e” infatti in francese si pronuncia come eux, “loro”, un chiaro riferimento ai propri genitori scomparsi ma è importante anche il valore grammaticale di desinenza della lettera, che indica l’uscita femminile, la desinenza materna mancata nella vita di Perec; qualsiasi tentativo di ritrovarla, (esemplare quello perseguito dal Dupin perecchiano di La scomparsa) non può che incontrare il fallimento, la parola mutilata, recisa, simbolo di una vita anch’essa mutilata.
W o il ricordo d’infanzia è lo sforzo estremo, affidato alla parola e alla letteratura, di scrivere il bianco della propria esistenza. Muovendo da questa assenza, anche il racconto di W, che vuole essere autobiografico, non può assumere un andamento ordinato e cronologico; è anche la stessa struttura del romanzo a subire una spaccatura, composto com’è di di pezzi e frammenti in cerca di unità, incompiuti ma uniti attraverso l’unico mezzo possibile, quello della scrittura.
In questo libro ci sono due testi semplicemente alternati; potrebbe quasi sembrare che non abbiano niente in comune, eppure sono inestricabilmente intrecciati, come se nessuno dei due potesse esistere da solo, come se soltanto il loro incontro, quella debole luce che gettano l’uno sull’altro, potesse rivelare ciò che non è mai detto apertamente nell’uno, mai detto apertamente nell’altro, ma solo nella loro fragile intersezione. Uno di questi testi è interamente immaginario: è un romanzo di avventure, la ricostruzione, arbitraria ma minuziosa, di una fantasia infantile attorno a uno stato retto dall’ideale olimpico. L’altro testo è un’autobiografia: il racconto frammentario di una vita di bambino durante la guerra, un racconto povero di exploit e di ricordi, fatto di brani sparsi, di assenze, di oblio, di dubbi, di ipotesi, di magri aneddoti. Il racconto di avventure, in confronto, ha qualcosa di grandioso, o forse di sospetto. Perché comincia con una storia e, all’improvviso, si lancia in un’altra storia: in questa interruzione, in questa frattura che sospende il racconto sul filo di non si sa quale attesa, si trova il luogo di origine di questo libro, quei punti di sospensione cui si sono impigliati i fili spezzati dell’infanzia e la trama della scrittura.
Queste due serie, che sono differenziate anche dal punto di vista tipografico, in corsivo la finzione, in tondo le memorie, sono entrambe sottomesse ad una condizione di opacità che la scrittura tende di rischiarare. In esergo al romanzo Perec inserisce una citazione di Queneau, a cui probabilmente consegna il dubbio più penetrante della sua vita: “Come posso schiarire questa bruma insensata in cui si agitano ombre?”. Eppure il tentativo autobiografico viene immediatamente messo fuori gioco dall’apertura della sezione dei ricordi:
Non ho ricordi d’infanzia. […] Per lungo tempo questa assenza di storia mi ha rassicurato: la sua scarna oggettività, la sua evidenza apparente, la sua innocenza mi proteggevano; ma da cosa mi proteggevano, se non precisamente dalla mia storia vissuta, dalla mia storia reale, dalla mia storia vissuta, dalla mia storia personale che, è lecito supporre, non era né scarna, né oggettiva, né apparentemente evidente, né evidentemente innocente?
Tutto il discorso di Perec è dunque saturo di una mancanza e l’unica via percorribile è quella di collezionare frammenti di storia e consegnarli al lettore, che avrà il compito specifico di ricomporli per cercare di immaginare ciò che l’autore non conosce. La necessità più profonda dello scrittore è quella di trovare qualcuno che ascolti l’indicibile del suo ricordo: “Non so se non ho niente da dire, so che non dico niente; non so se quello che avrei da dire non venga detto perché è l’indicibile (l’indicibile non si annida nella scrittura, al contrario, è ciò che ne ha innescato il processo); so che quanto dico è bianco, neutro, è il segno definitivo di un definitivo annientamento”.
I primi sei capitoli dispari sono appunto dedicati alla storia di finzione di cui è protagonista un disertore francese attualmente rifugiato in Germania; una misteriosa organizzazione gli ha assegnato il nome di un bambino, Gaspard Winckler, nome che ritorna in tre opere perecchiane, di cui sarà costretto a cercare il corpo scomparso. Ad affidargli questo compito è il misterioso Otto Apfelsthal, affiliato a un misterioso “Bureau Veritas”. Il bambino smarrito Gaspard Winckler, di cui viene raccontata la storia, è sordomuto a causa di un evento di natura traumatica, ma è stato oggetto di un tentativo estremo di salvataggio da questa condizione proprio da parte della madre (che è una cantante d’opera e si chiama Caecilia, nome simile in francese a quello polacco della madre di Perec, Cyrla), che ha organizzato un viaggio in mare, fatale, alla scoperta delle meraviglie del mondo, nella speranza di far tornare la parola al figlio.
È un tentativo di salvataggio simile a quello della madre di Perec (e in francese mer, mare, è omofono di mère, madre) nei confronti del figlio che lascia sul treno della Croce Rossa, nella speranza di una sua salvezza lontana da Parigi. E anche il destino delle madri è lo stesso; così come Perec perde la madre nei campi di sterminio, così durante questo viaggio in barca il bambino Gaspard è l’unico superstite di un tragico incidente nella Terra del Fuoco. La narrazione procede lineare alternando la vicenda di finzione con i ricordi d’infanzia di Perec fino al capitolo XI, dopo il quale si trova una pagina bianca con la semplice iscrizione “(…)”, che segna la fine della prima parte. Anche la seconda mantiene la sua divisione tra racconto d’infanzia e storia fantastica, ma acute differenze attraversano entrambe le parti.
Quella fondamentale è rappresentata dalla totale assenza della madre, non più presente nei ricordi di Perec; quella che va ad investire invece il racconto di finzione è la fine della ricerca di Gaspard Winckler e la narrazione di un’isola misteriosa, dal nome W, in cui l’uomo Gaspard Winckler si è imbattuto durante la ricerca del bambino con il suo stesso nome. Si trova qui un reportage attraverso il quale Winckler si prende carico di ciò che ha visto per riportarlo a tutti:
Ho a lungo cercato le tracce della mia storia, consultato mappe e annuari, montagne di archivi. Non ho trovato niente e a tratti mi convincevo di aver sognato, che fosse stato soltanto un incubo incancellabile. Quello che i miei occhi avevano visto era realmente accaduto: qualunque cosa accadesse, qualunque cosa facessi, ero l’unico depositario, l’unica memoria viva, l’unica traccia di quel mondo. Questo, più di ogni altra considerazione, mi ha convinto a scrivere.
Nell’isola la struttura sociale è regolata dalla competizione sportiva. Nell’isola il motto olimpico “FORTIUS, ALTIUS, CITIUS” si trasforma in un’unica legge riconducibile al principio di sopravvivenza: la scoperta delle leggi irrazionali che regolano le gare sull’isola finiscono per far sprofondare il lettore in uno stato misto di disperazione e disprezzo: le vittorie vanno di pari passo con le violenze verso gli sconfitti, le regole sono arbitrarie per rendere incerti i risultati e possono continuamente variare, gli arbitri sono sadici e ogni infrazione alle regole è punita con estrema violenza. Inoltre le regole sono inconoscibili agli atleti e ogni decisione, buona o brutta che sia, deve solo essere accettata: nell’isola di W la vita non è nelle mani degli uomini ma in quelle dei loro carnefici.
La violenza raggiunge il suo apice durante le Atlantiadi, dove fanno la loro apparizione anche le donne, che in queste gare vengono fatte spogliare e abbandonate in pista inseguite dagli atleti che, una volta raggiunte, possono stuprarle. Questa legge inumana, sintetizzabile nei regolamenti e nelle continue contraddizioni che questi regolamenti subiscono, spinge ogni atleta a giocare in maniera irregolare, a barare per far cadere nelle grinfie della violenza il suo avversario.
In un mondo che ha simili caratteristiche, con la violenza come unico mezzo di governo e con le grandi parate per i vincitori, non è difficile individuare un’allegoria della violenza del regime nazista o della follia del Vélodrome, come ricordano i triangoli con la punta verso il basso indossati dai più deboli, la spersonalizzazione dell’individuo che non ha un nome, oppure la sproporzione terribile tra vincitori e vinti, questi ultimi torturati dopo ogni sconfitta. Il tragico finale che conclude la parte di fiction vorrebbe preparare chi un giorno potrebbe trovarsi in quell’universo tanto inimmaginabile quanto possibile, ma sembra immediatamente rinunciare al suo intento, tanta è la violenza e la desolazione:
chi un giorno penetrerà nella Fortezza, si troverà dapprima di fronte a una successione di stanze vuote, lunghe e grigie. Il rumore dei suoi passi sotto le alte volte di cemento, ma dovrà camminare a lungo prima di scoprire, nascoste nelle profondità del sottosuolo, le vestigia di un mondo che crederà di aver dimenticato: mucchi di denti d’oro, fedi nuziali, occhiali, migliaia e migliaia di vestiti ammucchiati, schedari coperti di polvere, scorte di sapone di cattiva qualità.
Questa è la conclusione dello sforzo di Perec di ricostruire la sua storia attraverso quella della sua famiglia, nell’estremo tentativo di dar voce al silenzio, di riempire l’assenza di storia da cui è partito. Gli strumenti sono il racconto di finzione e il procedere dei ricordi d’infanzia a Villard-de-Lens senza i genitori, in una contrapposizione dove gli “Schnell, los Mensch” del mondo di W fanno da contraltare alla lentezza della vita di Villard-de-Lens: ma sono ambedue metodi per ricordare, per tornare all’assenza e riempirla di significato.
Il segno tipografico “(…)” che divide la prima dalla seconda parte indica senza dubbio il non detto, il rimosso o, più empiricamente, ciò che non può essere afferrato, ma segna anche una giunzione, un tentativo di ricerca che parte appunto da questo bianco. David Banon, interprete del Midrash, ha scritto nello splendido La lettura infinita (Jaca Book) che in “ogni grande narrazione, non può esservi accesso diretto al significato” e che “lo spazio bianco è il luogo di una riserva di senso che il testo nasconde. Esso permette le aperture in cui si introducono le trasformazioni. Lo spazio bianco è un invito all’interpretazione attraverso il non-detto che suggerisce”.
“Per E” recita la dedica del romanzo, alla desinenza femminile che segna lo spazio bianco di Perec: quello di cui è sempre stato in cerca.