B arnabas era emigrato negli Stati Uniti per costruire i mastodontici grattacieli che vegliano sulla città di New York – dall’alto di quei gigli di acciaio poteva vedere il cielo, l’oceano, poteva vedere la vita e l’Irlanda che aveva lasciato. La prima volta che aveva parlato con Eskra, la ragazza dalle mani rovinate che avrebbe sposato, lei gli aveva confidato di avere dei parenti irlandesi e così, anni dopo, l’aveva riportata indietro con sé: insieme avrebbero costruito una fattoria, avrebbero fatto un figlio, avrebbero allevato mucche, cavalli, sarebbero andati a letto sfiniti e felici.
Neve nera, però, non è la storia di un ritorno, ma di un declino: inizia con un incendio devastante e improvviso che avvolge la tenuta dell’uomo – una colonna di fumo che “sembrava la coda di un gatto arrotolata verso il cielo, sottile e grigia” a segnalare una tragedia che già si sta compiendo. Ad accorgersene per primo è Matthew Peoples, il bracciante di Barnabas, un Cristo buono e inoffensivo che, nel disperato tentativo di salvare gli animali, corre incontro alla sua stessa morte.
Credevi di esser arrivato, signor Scarpegrosse. Che tutto il lavoro fosse finito. Nella tua testa la morte non esiste, non si invecchia e l’inverno non arriva mai.
Secondo romanzo di Paul Lynch a essere portato in Italia da 66th2nd dopo Cielo rosso, Neve nera è un romanzo che parla di colpa, di morte e di natura come se fossero la stessa cosa. Quando, il giorno dopo l’incendio, Barnabas esce dalla casa sente che “l’aria non era più aria. La percepiva cambiata, la sua consistenza non era più la stessa. Vedeva le sue particelle distorte e catramose, gravate da un peso e da un odore, come se la natura rivolgesse un eccesso di violenza contro sé stessa”.
Non il sollievo di essersi salvato, né il rimorso per la morte di Peoples, Barnabas sembra conoscere solo l’angoscia di aver perso tutto quello che aveva costruito, un grumo vischioso che gli si attacca addosso e non lo lascia libero: “fissò lo specchio con il suo sguardo spento, sotto ai suoi occhi vide borse grigie come la tempesta e si sentì ancora addosso l’odore del sogno, un denso e persistente fetore di fumo”. L’incendio sembra infatti esser penetrato fin nella trama delle cose, aver aperto una ferita profonda e che in questa si sia insinuato un senso di morte, che contamina tutto e per sempre: anche le tende, “la prima cosa che Eskra aveva fatto quando si erano trasferiti in quella casa”, odorano di fumo e distruzione.
Si dice che le tragedie mostrino le persone per quelle che sono, che attraverso il dolore, attraverso la brutalità della vita e delle cose si possa accedere a un livello più alto di coscienza: perché altrimenti digiunare, perché praticare la povertà, perché la flagellazione? L’umiliazione, la resa, il dolore dovrebbero poter squadernare il mondo, renderlo più visibile, più chiaro. Ci sono sezioni del romanzo in cui Neve nera sembra seguire questo comandamento: l’incendio rivela come la comunità di Carnarvan sia meschina e rancorosa nei confronti di quell’uomo che era emigrato per scampare alle carestie e che, come se nulla fosse, se ne era tornato a casa e adesso chiedeva il loro aiuto per rialzarsi. Neve nera però non è un libro di disvelamento, né che crede in un significato altro delle cose, anzi.
Capace di un profondo lirismo, Paul Lynch fa pulizia del sentimentalismo con cui i romanzi parlano di città e natura: ambientato nell’Irlanda del 1945, con gli aerei degli alleati e dei nazisti che ancora attraversano il cielo, questo romanzo sovverte le gerarchie tra gli esseri viventi per mettere animali, piante e uomini sullo stesso piano. A Carnarvan il vento soffia violento e muove il tappeto di ortiche che coprono la collina, così come alimenta le fiamme che ingoiano le stalle, gli animali, le persone. Loro, le bestie e gli uomini non sono diversi dagli alberi che puntano i rami “imploranti verso il cielo, come per reclamare il proprio diritto alla vita”.
Nel mondo di Lynch, il dolore non serve a mostrare le persone per quelle che sono, piuttosto a mostrare come la natura e le cose siano indifferenti al destino dei singoli: se le terre non producono frutti, le popolazioni saranno decimate, non sembra esserci altra lezione da imparare, altro che non sia che vita, morte e destino sono sinonimi. “Diceva spesso di essere arrivato da lei come un angelo sceso dalle nuvole”, racconta Barnabas a Eskra del loro incontro,
ti ho vista per la prima volta a centocinquanta metri da terra. In mezzo al rumore di quell’acciaio rivettato capace di deformare la curva del cielo. Ti guardavo sopra a quell’ingorgo del traffico, sentivo la pressione dei tuoi passi sul cemento. Da quell’altezza, la vista non può far altro che acuirsi. Ti distinguevi in mezzo alla folla. I tuoi occhi luccicanti che mi fissavano. Lo splendore del tuo collo di cigno. Eri proprio tu quella che aspettavo.
Sua moglie sa che questa storia è improbabile, ma le piace lo stesso che le venga raccontata.
Ci raccontiamo storie per poter sopravvivere, scrive Joan Didion all’inizio del suo White Album, e “se c’è una cosa che so, a forza di stare su questa terra, è che le persone non riescono a fare a meno di inventarsi delle storie”, le fa eco Lynch. Nella spietatezza e nella felicità, il romanzo di Lynch sembra una riflessione sul nostro bisogno di narrazioni coerenti, di mettere a sistema la nostra vita, nella speranza che quello che accade significhi ancora qualcosa. E così ci sono pagine di questo romanzo che sembrano provenire da un mondo più antico, da quello dell’articolo Testamento col suo Dio crudele e vendicativo, e ci sono pagine della storia di Barnabas che mimano il Libro di Giobbe: a una morte ne segue un’altra, in una catena di eventi nefasti che deve rispondere ai concetti di profanazione, di prova o di destino per tornare a essere comprensibile. Neve nera, però, non è un libro che vuole offrire una consolazione: non ha una religione che non sia quella delle colline e degli alberi.
Un giorno, passeggiando nel cimitero, Barnabas trova la lapide di Matthew Peoples. Si avvicina e dice “a cosa servono queste tombe, Matthew, sono per i vivi e non per i morti. E quando i vivi avranno lasciato questo mondo, tutta la memoria se ne andrà con loro e tu, io, tutti riposeremo nell’oblio e senza una pietra, e questo maledetto cielo resterà immutato sopra ogni cosa. E allora a che serve dirti che mi dispiace? Farà forse del bene a qualcuno? A chi dovrei chiedere perdono?”.