Anche quest’anno, abbiamo chiesto ad alcuni amici e collaboratori del Tascabile di suggerire dei percorsi tematici per l’estate: romanzi, saggi, memoir ma anche articoli o film che ruotino attorno a un argomento a scelta. Questa è la prima parte dei consigli che abbiamo raccolto.
L’intellettuale
di Giorgio Fontana
Da un lato la figura dell’intellettuale è stata preda del vigoroso anti-intellettualismo e anti-razionalismo di quest’epoca; dall’altro si è autodistrutta relegandosi nel disprezzo per “il popolo”, o nell’oscurità linguistica, o diventando serva del potere — un potere di volta in volta diverso ma dal volto sempre uguale: cinico, laido, indifferente. La questione mi interessa da tempo; e negli ultimi mesi — complici anche i fatti visibili a chiunque — ci sono tornato sopra con qualche lettura.
Ho cominciato con L’intellettuale militante di Michael Walzer, un classico di fine anni Ottanta. Walzer invita il critico a “svelare le false apparenze della sua società, dare espressione al sentimento più profondo della gente di come si dovrebbe vivere, e ribadire che esistono altre forme di falsità, altre speranze ed aspirazioni ugualmente legittime”, ribadendo la necessità di trovare una posizione intermedia fra la turris eburnea e l’essere funzionario di questo o quel sistema.
Sulla scorta di questo saggio ho preso in mano Uscita di sicurezza, una splendida raccolta di scritti di Ignazio Silone che avevo colpevolmente trascurato. Attraverso alcuni momenti autobiografici — molto belli in particolare quelli sull’infanzia nell’Abruzzo contadino — Silone ricostruisce la sua lunga militanza da socialista cristiano e fuoriuscito del Pci. La sua posizione è tanto più radicale perché basata su un’empatia istintiva verso i più deboli, che lo porta a elaborare una difesa dei valori al di là della scolastica comunista dell’epoca: “Sopra un insieme di teorie si può costruire una scuola e una propaganda; ma soltanto sopra un insieme di valori si può fondare una cultura, una civiltà, un nuovo tipo di convivenza tra gli uomini.”
Silone è un membro ideale di quella setta di intellettuali appartati, non allineati, profondamente libertari, verso cui va la mia massima ammirazione. Così ho riletto un paio fra essi che già conoscevo e amavo: Nicola Chiaromonte (con Il tempo della malafede e Le verità inutili) e Carla Melazzini (con Insegnare al principe di Danimarca). Di Chiaromonte mi sono segnato in particolare questo passaggio: “Ciò che dobbiamo affrontare è il potere esercitato su ognuno di noi, che ci spoglia di molte cose oltre all’amore per il prossimo. Non è stato cancellato soltanto un sentimento soggettivo come l’amore, ma piuttosto quell’evidenza originaria per cui c’è qualcosa in comune tra due uomini per il solo fatto che esistono, la vera radice della società e della giustizia.”. Di Melazzini vorrei ricordare quasi tutto, e consigliarlo a chiunque: Insegnare al principe di Danimarca è un lucidissimo ritratto di pedagogia sul campo — la pratica quotidiana dell’insegnante e scrittrice con ragazzini di famiglie problematiche della periferia di Napoli. Essere intellettuale è anche questo; forse soprattutto questo.
Partendo da qui ho finalmente letto La pedagogia degli oppressi di Paulo Freire, consigliatomi questa primavera da un frate francescano. Freire sviluppa l’idea di un’educazione forgiata insieme a chi la deve ricevere, e non semplicemente comminata dall’alto: un circolo virtuoso in cui entrambe le figure possano crescere insieme verso “un mondo dove sia meno difficile amare”. Non è affatto semplice mettere in pratica questo suggerimento, ma è indispensabile tenerlo in mente. Infine mi sono dedicato a una nuova uscita: Il tempo degli stregoni di Eilenberger. Un magnifico racconto dei sentieri filosofici di Cassirer, Wittgenstein, Benjamin e Heidegger fra il 1919 e il 1929; cosa significava pensare e praticare il lavoro intellettuale in anni complessi e tempestosi. Di lì a poco sarebbe arrivato il peggio assoluto: non so se è un cattivo presagio, ma è meglio tenersi pronti.
Dopo Berlusconi
di Elisa Cuter
“SALVINI – È lui il sex symbol dell’estate. Lo dicono uomini e donne” ci informano i rotocalchi, mentre l’afa sembra offrire un buon pretesto al ministro leghista per un tuffo nella piscina di un’azienda confiscata alla mafia nel senese. Acclamato e desiderato, questo corpo non proprio in forma ha, nella sua esibita naturalezza, qualcosa di meticolosamente costruito. Un mito della spontaneità tutt’altro che spontaneo. Se vari elementi di inquietante novità nell’attuale governo non permettono di tracciare agilmente una linea di continuità con le precedenti legislature italiane, il trait d’union con il suo più evidente prodromo si palesa proprio nella sua personificazione mediatica, incarnata da Matteo Salvini. Questo prodromo è Silvio Berlusconi, a suo tempo osteggiato da un fronte unitario tenuto insieme proprio da questo antagonista, oggi rimpianto da qualcuno per la sua capacità di rappresentare un nemico facilmente riconoscibile e chiaramente in malafede. Ma se molto si è detto e scritto sui suoi interessi e motivazioni privati, meno è rimasto, nell’immaginario collettivo, di quello che era il suo aspetto più rivelatore e inquietante: il suo appeal erotico (in senso lato), il fascino che esercitava sul suo elettorato.
È proprio questo ciò che risulta invece fondamentale per comprendere il consenso incontrato oggi dai tanti altri leader populisti che gli sono succeduti, non solo in Italia. “Mi hanno ferito in quel che ho di più caro: la mia immagine”, ipse dixit. Questa citazione è contenuta in Elementi per una teoria della Jeune-Fille del collettivo francese Tiqqun, che attraverso una serie di aneddoti, immagini e aforismi riflette sull’ultima incarnazione della “società dello spettacolo”: la Jeune-Fille, per l’appunto. Contemporaneamente merce e imprenditrice di sé, perverso risultato di un’emancipazione subitaneamente sussunta, quella di Jeune-Fille è una categoria che non distingue tra genere, razza o classe, tanto che persino il “presidente della gente” ne può rappresentare un esempio. Figura che deve tutto il suo (precario) potere al consenso esterno, soggetto che usa prima di tutto su di sé questo potere, per manipolare la propria immagine e assecondare il desiderio di emulazione e appropriazione del popolo.
È quello che ci mostra Il corpo del capo di Marco Belpoliti, che decostruisce meticolosamente la strategia comunicativa berlusconiana, mettendo in luce la sua capacità (e necessità) di sedurre il suo pubblico. Proprio questa necessità è quello che lo accomuna ai nuovi leader, che pure giocano con un’immagine magari opposta alla sua (si pensi al femmineo e affettato trapianto di capelli di Berlusconi contrapposto alla trascuratezza esibita da Salvini con le sue felpe). Il godimento come fattore politico di Slavoj Žižek è ormai un piccolo classico per capire il ruolo sempre più autoironico e accattivante del potere nelle democrazie contemporanee, basato sulle premesse del rispecchiamento e dell’identificazione, e volto precisamente alla seduzione. Analisi non certo smentita, ma anzi confermata dalle venature sempre più smaccatamente autoritarie che sta assumendo nel mondo contemporaneo, dove il nucleo fascista di una certa retorica emerge senza più remore di sorta.
Per capire come dalla precedente fase postmoderna (ma non per questo postideologica) si sia giunti al leaderismo populista di oggi si veda Berlusconi o il ’68 realizzato del recentemente scomparso Mario Perniola, che andrebbe letto insieme a Il nuovo spirito del capitalismo di Boltanski e Chiapello per comprendere come le istanze democratiche e emancipatrici di quegli anni siano state deliberatamente sfruttate a proprio vantaggio dal capitale, e per evitare di porgere il fianco a un revisionismo ultimamente diffuso che tende a liquidare come velleitario ed elitario un momento fondamentale della storia comune. Un altro utile strumento per comprendere la genesi di questo sbalorditivo e sconfortante ribaltamento dialettico, questa volta sul piano non più economico ma culturale, è After La Dolce Vita: A Cultural Prehistory of Berlusconi’s Italy di Alessia Ricciardi. Purtroppo mai tradotto in italiano, attraverso un’analisi del riflusso italiano degli anni ’80 e della spinta aziendalista che vi stava dietro permette di leggere la figura di Berlusconi come primo portavoce di un’istanza storica, come specchio della società che lo ha eletto a suo premier e modello paradigmatico, piuttosto che come progetto esclusivamente operato dall’alto grazie all’ingente investimento nella sua immagine mediatica.
È proprio per questo che consiglio di andare a recuperare questi testi che ci fanno inquadrare un fenomeno che sembra già lontanissimo, pur non essendo ancora definitivamente uscito dalla scena politica, come Berlusconi: “studiarne uno per comprenderne cento”, vale a dire i suoi emuli e successori, ma anche tutti i loro elettori. E se è dal corpo del leader che siamo partiti, è con quello collettivo che si può concludere. Il trucco: sessualità e biopolitica nella fine di Berlusconi di Ida Dominijanni indaga l’influenza della parola femminile (proprio quella più bistrattata dall’ ”élite”, quella delle olgettine) sul crollo dell’ultimo governo Berlusconi. Tra scandali, strumentalizzazione del corpo delle donne e messa in valore del desiderio, Dominijanni non solo svela la sostanziale impotenza (in senso anche sessuale) del “capo”, ma anche il suo risvolto potenzialmente positivo: il potere della collettività quando ritira il proprio appoggio e la sua fiducia.
Nazionalpopolare
di Corrado Melluso
Patria 1967-77 di Enrico Deaglio, pubblicato da Feltrinelli alla fine dello scorso anno, è il secondo volume e prequel del Patria 1978-2010 pubblicato dal Saggiatore. Nel suo insieme è un’opera monumentale di oltre 2000 pagine che racconta l’Italia contemporanea. Ed è un libro che sembra nato in una sorta di interregno: è un ipertesto ancora sotto forma di libro rilegato, con un colophon e un finito di stampare, ma che potrebbe estendersi praticamente all’infinito, ed è proprio per questa dimensione ludica che credo possa essere la lettura perfetta per l’estate.
Enrico Deaglio è un grande giornalista, ma in questo libro è riuscito a coniugare il piglio e la precisione del suo mestiere con la completezza e la lucidità dello storico. L’organizzazione dei materiali è piuttosto lineare – per anni, uno dopo l’altro, e raccontando vicende di volta in volta consecutive – ma inedito è lo sguardo e inedite sono le modalità. Quella di cui finiamo per leggere è quindi un’Italia che, da un lato, conosciamo benissimo, dall’altro non finisce mai di sorprendere, come fosse un paese straniero e lontanissimo.
Come molti romanzi di genere, Patria comincia con uno sparo, quello che si inferse Luigi Tenco il 27 gennaio: soltanto il primo di una enorme sparatoria in crescendo che proprio alla fine del libro, nel 77, troverà in suo culmine, ma senza placarsi.
Nel corso del decennio raccontato in Patria sono moltissime le storie dimenticate – dal ’68 dei tisici, coi malati pronti a sputare sui poliziotti per infettarli, alla rivolta di Reggio Calabria del ’71, quando la città, di fatto, subì un colpo di Stato a opera di Ciccio Franco, un capopolo fascista. O grandi storie tragiche che avrebbero potuto cambiare per sempre l’Italia e invece non l’hanno fatto, come quella di Fiorentino Sullo, dirigente democristiano epurato dal partito e la cui vita fu distrutta da insinuazioni vigliacche soltanto perché aveva proposto e s’era battuto per la nazionalizzazione del suolo pubblico, un provvedimento che, da solo, avrebbe evitato un cinquantennio e più di speculazione edilizia. O, ancora, storie di cronaca illuminanti nel darci il sapore del tempo – penso ad Antonio Melillo, il motociclista misterioso e imprendibile sul suo Gilera 150 che scatenò a Napoli una rivolta popolare per poterne osservare le gesta tanto enorme da lasciare sul campo più di cento feriti e arrestati.
E mentre queste storie scorrono, anno dopo anno, riconsegnandoci il ricordo di un tempo di impegno collettivo che pare non esistere quasi più, scorrono i titoli dei giornali, ma anche i film usciti e più d’impatto, i romanzi che hanno partecipato al Premio Strega e le canzoni più in voga nei juke box: è un ipertesto, appunto, che si espande naturalmente e porta ogni lettore a seguire i propri interessi, e a percorrerlo come meglio crede. Lo si può interrompere per rivedere un film di Pasolini o un giallo di Luciano Ercoli, o per aprire youtube e riascoltare una canzone, o magari per andare a rileggere Caro Michele o Le città invisibili.
Oppure lasciarci avvincere da questa storia nerissima, e magari continuare a leggere anche il primo volume, per poi passare a Raccolto Rosso, altro libro di Deaglio sulla storia della mafia tra l’82 e il 2010. Ed è lì Deaglio racconta di una gita al lago, il lago Patria, nei pressi di Giugliano: «una bellezza naturale sin dai tempi degli antichi romani, riproposta trent’anni fa come grande resort turistico, con alberghi, barche e sci nautico. Ma il lago era deserto, ormai irrimediabilmente inquinato, con la schiumetta sui bordi, lunare, macabro nei suoi alberghi non finiti o abbandonati e un ristorante deserto che inalberava la scritta: alla zanzara d’oro. Le zanzare sono infatti le uniche vincitrici di tutta la storia millenaria del lago Patria». Una vicenda non tanto diversa da quella di Patria, in fondo.