Anche quest’anno, abbiamo chiesto ad alcuni amici e collaboratori del Tascabile di suggerire dei percorsi tematici per l’estate: romanzi, saggi, memoir ma anche articoli o film che ruotino attorno a un argomento a scelta. Questa è la prima parte dei consigli che abbiamo raccolto.
Animali da leggere e da guardare
di Davide Coppo
Da qualche tempo a questa parte ho deciso di smettere di leggere i libri del momento. Con “libri del momento” intendo quelli appena usciti, quelli “di cui si sta parlando”, quelli che “hai letto l’ultimo di?” e così via. Stava diventando un “leggere per lavorare”, perché certamente leggere fa parte del mio lavoro, ma la lettura aveva completamente perso il carattere dell’intrattenimento e del relax. In forma minore, vale lo stesso per i film, le serie tv e tutti, o quasi, gli altri prodotti artistici o culturali. Ho deciso di concentrarmi su cose che, semplicemente, mi piacciono. Fortunatamente, un certo insieme di prodotti culturali recentissimi coincide con ciò che mi piace e rilassa: l’attenzione che si sta sviluppando per il mondo naturale e animale.
Il “nature writing” sta vivendo, da un po’ di anni, un periodo di grande salute. Per questo, scegliere pochi libri che parlano di animali tra le decine di ottimi titoli usciti recentemente non è una cosa semplice. Su un versante più narrativo, propenderei per Io e Mabel (Einaudi, traduzione di Anna Rusconi) di Helen McDonald, che parla di come si addestra un astore, ispirato da un testo del 1930 (L’Astore, di T. H. White, Adelphi, traduzione di Giovanni Ferrara degli Uberti) che racconta di come si addestra un astore, ispirato a sua volta da un volume del milleseicento che tratta, beh, di astori (è così davvero, non siamo dentro un racconto di Borges). Rimanendo in tema di volatili, che mi sembra ispirino più letteratura di ogni altro tipo di animale, nel 2017 è uscito per Codice Edizioni Volare di Noah Strycker (traduzione di Monica Belmondo) un volumetto di divulgazione scientifica scritto in modo vivace e non privo di fascino sul mondo degli uccelli e sulle loro straordinarie capacità: l’orientamento dei colombi, ad esempio, o le geometrie degli stormi di tordi. Tornando invece nelle stanze più letterarie di questo tempio, è imperdibile The peregrine di J.A. Baker, il racconto di un anno di osservazioni sui falchi pellegrini nell’Essex. Uscì nel 1967 e ha qualcosa di romantico e anarchico nella narrazione, e una delle lingue più curate che siano mai state utilizzate per descrivere la natura. Ha una potenza evocativa quasi magica, ancestrale.
Ci sono poi due altri modi di parlare di animali, diametralmente opposti ma ugualmente interessanti. Uno, quello ecologico e culturale, è strettamente legato a questo mondo in disgregazione, naturalmente parlando, alla coabitazione delle specie animali con quella umana, all’urbanizzazione e alla conservazione degli habitat. In questo senso, Jon Mooallem in Wild Ones (Penguin) è un’indagine nell’ipertrofico simbolismo animale della cultura americana e nella contemporanea scomparsa degli animali in carne e ossa dal continente. L’altro modo è quello dell’invenzione e del fantastico, e nessuno, nel secondo Novecento, ha saputo maneggiare lo strumento come Julio Cortázar nei racconti di Bestiario (Einaudi, traduzione di Flaviarosa Nicoletti Rossini e Vittoria Martinetto) (più altri raccolti in Animalia [Einaudi]): un cavallo forse assassino che assedia una casa, un uomo che non riesce a non vomitare coniglietti bianchi, una tigre invisibile che si aggira per una casa condizionandone la vita… Cortázar utilizza gli animali (quelli reali, ma ne inventa pure, come gli axolotl) come alieni testimoni di mondi paralleli ma diversi, forse più violenti, incomprensibili. Se Ernst Jentsch avesse vissuto per leggere Cortázar probabilmente avrebbe scelto lui come stampo su cui modellare la definizione di “perturbante”, e non E. T. A. Hoffmann.
Ci sono anche riviste: come Agapornis, semestrale spagnolo patinato e hipster dedicato al rapporto (più estetico e arty che di contenuto) tra uomini e animali.
Sul versante delle serie tv, tutto quello che ha prodotto Bbc con David Attenborough è fondamentale. Soprattutto, naturalmente, gli ultimi capitoli dei suoi documentari più famosi, ovvero Planet Earth 2 e soprattutto Blue Planet 2. Dando per scontati Herzog e GrizzlyMan, un documentario di cui in Italia si è parlato forse poco è Blackfish: è la storia di un’orca prigioniera nel parco di SeaWorld, ed è anche la storia – parziale – della battaglia contro SeaWorld, un parco di prigionia per mammiferi che non ha nulla a che fare con la conservazione.
Libri (non) scritti
di Sara Marzullo
Nel 2008 George Steiner pubblica una raccolta dal titolo I libri che non ho scritto: ognuno dei sette capitoli racconta di un libro che, per difficoltà o discrezione, non ha mai terminato. Il primo è Cineserie: avrebbe dovuto parlare di Joseph Needham, ma esiste solo in questa forma ipotetica, una descrizione di potenzialità. Dice Steiner “un libro mai scritto è più di un vuoto. Accompagna l’opera che si è compiuta come un’ombra fattiva, insieme ironica e dolente. È una delle vite che non abbiamo potuto vivere”: I libri che non ho scritto è, insomma, una raccolta di fantasmi.
Infestata dai fantasmi è anche Tre, la raccolta di poesie di Roberto Bolaño, piena di sconosciute che spariscono e autori immaginari, città congelate all’alba e deserti, mescolati come in un sogno. Una perfetta descrizione di questa insonnia lunghissima che chiamiamo estate, se solo non fosse stata scritta in quello che Bolaño definisce un autunno benigno a Girona: qui, da solo, senza più un lavoro né la possibilità di trovarne un altro, Bolaño, consumato dall’insonnia, racconta l’impossibilità di scrivere: “la casa, durante la mia assenza, si era riempita di ragnatele e le cose sembravano coperte da una pellicola verde. Mi sentivo vuoto, senza voglia di scrivere e, quando ci provavo, incapace di restare seduto per più di un’ora davanti a una pagina bianca”.
L’insonnia, il pulviscolo nell’aria, ieri oggi domani: “mi sentivo come un fantasma mentre giravo per Marfa nel buio al volante di un’auto ibrida verde” dice Ben Lerner dalla sua residenza per artisti in Texas in cui non legge, non lavora, non dorme, “i giorni passarono così: andavo a letto verso l’alba, mi svegliavo un paio d’ore prima del tramonto, il mio unico contatto con altri esseri umani erano le poche parole che scambiavo con il commesso della stazione di servizio dove continuavo a comprare da mangiare”.
Il mondo a venire è la storia di un romanzo che non verrà mai scritto: doveva parlare di contraffazione, archivi digitali e email, invece racconta di tornadi, opere d’arte distrutte e astronauti. Del primo resta solo l’edificio semilluminato della Goldman Sachs in copertina.
In questi libri gli autori indugiano, perdono tempo e, dal blocco dello scrittore, tirano fuori un altro libro, come un illusionista tira fuori un coniglio dal cilindro: sappiamo che la sua non è magia, ma ci siamo distratti e non abbiamo visto come ha fatto. De La vita vera di Sebastian Knight, Manganelli diceva che è un libro su “un autore [che] scrive un libro su di un autore che vorrebbe scrivere un libro su di un autore il quale, incidentalmente, ha avuto in animo di scrivere una biografia fittizia”: la casa degli specchi del luna park, più o meno.
L’impossibilità di scrivere è quindi un tema letterario come un altro, un trucco narrativo? Sì e no. Dopotutto l’opera teatrale che ossessiona Sheila Heti in La persona ideale, come deve essere? (che non riesce a concludere) è una vera opera teatrale: All our happy days are stupid è stata messa in scena dopo l’uscita del libro, facendo di quel romanzo un incidente di percorso o il miracolo di cui aveva bisogno.
Forse parlare di libri che non riusciamo a scrivere serve come servono le preghiere: a elencare i problemi perché si risolvano, a scongiurare altri mali. E per continuare a esistere, anche quando non sappiamo più come dirci: scrive Philip Roth, nell’incipit de I Fatti, in crisi per un manoscritto per cui non trova la quadra: “la persona alla quale desideravo rendermi visibile in queste pagine ero, in primo luogo, io stesso”.
Essay, il racconto del cambiare idea
di Francesco Guglieri
Quando dico che tra le cose che mi piace più scrivere, leggere e pubblicare ci sono i saggi, finisce sempre che per spiegare cosa intenda esattamente devo ricorre a dei giri di parole o, alla fine, a degli esempi: questo o quel titolo, quella raccolta e non quell’altra, “pensa a Montaigne, non a un saggio accademico”. Insomma, un pasticcio. Usare i termini inglesi essay o personal essay è senz’altro più preciso, ma poi rischi di parlare solo ai già convertiti. Poi qualche giorno fa, ascolto Teju Cole presentare la sua raccolta di personal essays a Torino e lo sento citare Cambiare idea di Zadie Smith e lì mi si accende la lampadina. Un saggio, un essay, è il racconto del cambiare idea. Ecco fatto, c’è tutto. “Racconto” perché ha una struttura narrativa: come il romanzo, mettiamo, racconta la trasformazione di un personaggio da uno stato iniziale A a uno stato finale B, così il saggio racconta il passaggio da una certa idea su qualcosa a un’idea diversa. In questo è diverso dal saggio nell’accezione corrente che gli diamo in Italia che è, fondamentalmente, l’esposizione e la trasmissione di un’idea, un sapere (non il racconto del suo farsi, o del suo disfarsi, in me di quell’idea alla prova dell’esperienza); così come è diverso dal pamphlet che invece vuole convincermi, inculcarmi, una certa visione del mondo. Ed è personale perché questa trasformazione passa sempre attraverso il filtro dell’esperienza e della soggettività. Infine è un genere totalmente letterario, nei suoi esempi migliori, perché quello a essere messo in mezzo tra l’io e il mondo è il linguaggio, la sua densità, la capacità di provocare un’emozione nel lettore attraverso la scrittura: insomma, lo stile.
Allora per quest’estate vorrei proporre una bibliografia minima di personal essay, tra le ultime uscite o i classici fondamentali, per farsi una piccola biblioteca del saggio contemporaneo. Noterete che sono tutte raccolte di essay. Perché (perdonate la digressione) è un genere che vive soprattutto (benché non unicamente, ma non divaghiamo troppo) nella forma breve: è un ragionamento fatto in pubblico, e che quindi prevede una discussione pubblica, anzi della discussione pubblica è una delle sue forme più alte. E quindi passa attraverso i giornali, le riviste, i magazine, e solo in un secondo tempo un autore li raccoglie in volume.
Il primo titolo, allora, non può che essere Cambiare idea di Zadie Smith (minimum fax, traduzione di Martina Testa): da Nabokov al linguaggio di Obama, da Anna Magnani al passato coloniale di un quartiere londinese, lo spettacolo visivo, plastico, del ragionare della Smith è una delle esperienze più corroboranti che si possano fare con meno di quindici euro. Se poi aspettate qualche settimana, a settembre esce per le edizioni BigSUR la nuova raccolta Feel free.
È invece appena uscito L’estraneo e il noto di Teju Cole (Contrasto, traduzione di Gioia Guerzoni): Cole non è solo l’autore di uno dei più importanti romanzi degli ultimi anni, Città aperta (Einaudi, traduzione sempre di Guerzoni), ma anche fotografo, critico fotografico (tiene una rubrica sull’argomento per il NYTimes) e intellettuale pubblico. Ed è nei saggi che viene fuori la complessità stratificata dei suoi interessi, da James Baldwin a Black Panther (il supereroe).
Critico fotografico lo è stato anche Geoff Dyer e non si può scrivere una rassegna sui saggi, per quanto stringata e randomica, senza citare questo grande rabdomante inglese e i suoi libri, tra reportage e personal essay: un buon punto di partenza possono essere Il sesso nelle camere d’albergo (Einaudi, traduzione di Giovanna Granato) e Sabbie Bianche (il Saggiatore, tradotto da Katia Bagnoli). Tra i maestri di Dyer e di Cole c’è John Berger: qualsiasi cosa prendiate di Berger c’è la certezza di trovarci un’intuizione, uno sguardo imprevisto, un’idea controcorrente. Io amo molto Sul guardare, Modi di vedere e Il taccuino di Bento. Hanno qualcosa di bergeriano, forse la militanza, forse il nodo che lega scrittura e sguardo, anche i libri di Rebecca Solnit: è da poco di nuovo disponibile in italiano la sua Storia del camminare (Ponte alle Grazie, traduzione di Gabriella Agrati) mentre ancora attende una traduzione quello che secondo me è il suo più bello, The Faraway Nearby. Sempre donna, sempre americana è l’altro nome indispensabile se vi state facendo uno scaffale di saggi: ovviamente parlo di Joan Didion le cui sue due prime raccolte, Verso Betlemme e White Album sono irrinunciabili (entrambe per il Saggiatore qui da noi). Così come non può mancare l’altrettanto classico Considera l’aragosta di David Foster Wallace. Considerate anche un nipotino di Wallace: John Jeremiah Sullivan e il suo Americani (Sellerio, traduzione di Francesco Pacifico).
Infine due italiani, a mio giudizio i migliori, negli anni passati, in questo tipo di scrittura: In questa luce di Daniele Del Giudice e Cos’è questo fracasso di Tiziano Scarpa.
E se vi venisse lo scrupolo che il saggio, per sua natura dubbioso (è sempre un tentativo, una prova, è temporaneo e discutibile: è un collaudo), fosse un lusso inaccettabile per questi tempi bui in cui serve soprattutto l’ostinata convinzione della militanza a suon di tweet, vi lascio con quanto scrive Jonathan Franzen in un “saggio sul saggio” che introduce la raccolta del Best American Essays 2016 (lo si troverà anche in The End of the End of the Earth a novembre negli Stati Uniti e l’anno prossimo da Einaudi tradotto da Silvia Pareschi che ha tradotto anche le righe seguenti): “L’intolleranza prospera soprattutto online, dove i discorsi pacati sono puniti dalla mancanza di clic, dove invisibili algoritmi di Facebook e Google vi dirigono verso i contenuti con cui siete d’accordo, e dove le voci anticonformiste tacciono per paura di flame e troll o di perdere amici. Il risultato è un silo all’interno del quale, da qualunque parte stiate, sentirete di avere assolutamente ragione a odiare ciò che odiate. Ed ecco un altro modo in cui la saggistica differisce da altri generi di discorso soggettivo apparentemente simili. Il saggio ha le sue radici nella letteratura, e la letteratura al suo meglio – le opere di Alice Munro, per esempio – vi invita a chiedervi se per caso non abbiate un po’ torto, o addirittura completamente torto, e a immaginare perché qualcun altro potrebbe odiarvi”.
Souvenir
di Arianna Cavallo
È da millenni che rinchiudiamo la felicità provata, o che vogliamo credere di aver provato, nelle cose. Non si torna da un viaggio senza un ricordo di averlo vissuto: pezzi di roccia, reliquie sacre, pitture vedutiste, le schegge che Jefferson staccò dalla presunta sedia di Shakespeare, l’erba di Wimbledon divorata da Djokovic. Nel saggio Souvenir, il giornalista Rolf Potts ripercorre il rarefarsi di questi oggetti, prima legati carnalmente a un luogo, poi impersonali prodotti del turismo di massa: calamite, magliette, riproduzioni di monumenti tutte uguali, sfornate in zone lontanissime da quelle che le vendono per tipiche. Restano i souvenir della vita che vogliamo ricordare – biglietti aerei di incontri decisivi, quaderni di bambini, foglietti con scritta in fretta una riga sola – mescolati a quelli dimenticati nei cassetti: basta ammassarli alle cose di ogni giorno per tirar fuori la vostra storia. Come ha fatto Leanne Shapton in “Important Artifacts”, inventario fotografico degli oggetti messi all’asta da una coppia dopo la rottura. È tutto immaginato e commovente, nella successione di camicette, bigliettini, cartoline, cianfrusaglie.
“Ho ritrovato l’estate; è il momento più toccante di questa bella Italia. Sento una sorta di ebbrezza”. Era il 26 settembre 1816, Stendhal era appena arrivato a Milano e così annotava nel diario di viaggio che sarebbe diventato Rome, Naples, Florence. Goethe aveva già trasformato l’Italia nella meta irrinunciabile del Grand Tour, ma nessuno come Stendhal l’ha cristallizzata nella terra della bellezza e dei ricordi felici. Fu il primo passo della mutazione in paese-cartolina, dove ammiccano al mito e alla nostalgia anche le immagini più autentiche, come quelle della Rimini negli anni Ottanta nel volume Italy&Italy. La prima rottura arrivò nel 1984 con la raccolta fotografica Viaggio in Italia curata da Luigi Ghirri, che ne diede un’immagine realistica, modesta, quotidiana. L’Italia però è ancora incastrata nel suo essere “metà fiaba, metà trappola per turisti”, come scrisse Thomas Mann di Venezia, e come ha raccontato la grande mostra Inside/Out a Milano, nel 2015, il più recente tentativo di offrirne un compendio visivo con 78 fotografi e 600 fotografie. Agli estremi ci sono l’intimo scatto di Berengo Gardin a piazza San Marco nel 1960 e i ritratti ai turisti incorniciati da piccioni di Martin Parr.
È un castoro spelacchiato con berretto di lana rosa e sci alle zampe, il primo souvenir dei miei ricordi. Me lo portò mio padre dopo un giorno in montagna con gli amici, insegnandomi il senso di colpa nella lontananza. Spalancò anche il desiderio dei luoghi remoti, sottovalutando le pericolose promesse dei souvenir quando siamo piccoli. Poi si cresce e diventano accoglienti, consolatori, ci fanno compagnia collezionando chi siamo. Olivia Laing racconta in Città Sola che nel 1992, quando morì il suo amico David Wojnarowicz, l’artista Zoe Leonard iniziò la struggente installazione Strange Fruit for David: “Era una specie di modo per ricucirmi. […] Ero stanca di sprecare le cose. Di passare il tempo a buttare le cose. Una mattina ho mangiato due arance, ma poi non mi andava di buttare le bucce, così mi sono messa distrattamente a ricucirle”. Ha continuato per cinque anni, lasciando seccare le scorze della frutta che mangiava e poi rimettendole insieme con ago e filo, bottoni e punti di sutura. Sono vive, ferite, ricucite, e continuano a marcire, come la mancanza, il ricordo, l’amore, l’ostinazione di contenere tutto in quegli oggetti.