E ra il massimo risultato con il minimo sforzo”, spiega con semplicità, parlando del suo rapporto con la matematica a scuola. Un guizzo per l’ottimizzazione Alessio Figalli l’ha sempre avuto. Trentaquattro anni, romano, star di quell’area dell’analisi chiamata “trasporto ottimale”, in queste ore è a Rio de Janeiro, dove è appena stato insignito di una Medaglia Fields. Centinaia di matematici provenienti da ogni parte del mondo si sono riuniti per assistere all’annuncio: ogni quattro anni, la medaglia Fields proclama i migliori under 40 su scala globale. Minimo due, massimo quattro premiati. Figalli è soltanto il secondo italiano nella storia della medaglia, dopo Enrico Bombieri nel 1974. Condivide la gloria con Caucher Birkar, matematico curdo di 39 anni, esperto in geometria birazionale che lavora alla University of Cambridge, Peter Scholze, tedesco, 31 anni, che si occupa di geometria algebrica, e Akshay Venkatesh, australiano, 37 anni, algebrista e teorico dei numeri.
Quando l’ho incontrato a Roma, qualche giorno fa, la notizia del premio non era ancora ufficiale, anche se il suo nome era tra i più quotati nel toto-medaglia. Polo azzurra, pantaloncini e scarpe da ginnastica, aspetto atletico, un’ombra di barba rossiccia, sguardo sereno da dietro gli occhiali. Figalli è ordinario all’ETH, il Politecnico di Zurigo, dove si è stabilito dopo aver lavorato per due anni in Francia e sette in Texas. È un fuoriclasse nel campo delle PDE, le equazioni differenziali alle derivate parziali, un settore dell’analisi matematica vastissimo e fertile. Quando gli chiedo quali ricerche gli stiano più a cuore, nomina subito il suo cavallo di battaglia: “Chiaramente ho il mio trasporto ottimale e le sue applicazioni, è una passione che mi ha accompagnato per dieci anni”, risponde sorridendo.
A un profano può apparire curioso che la questione del trasporto ottimale non sia risolta. Il problema si può riassumere, semplificando molto, così: se ho un bene da distribuire (pagnotte, per esempio), dei punti di rifornimento (forni) e delle mete (gente a cui consegnare pagnotte), qual è il modo migliore di farlo? È una domanda datata ma ancora, per molti versi, aperta, e anche incredibilmente attuale: basti pensare alle esigenze dei colossi del commercio online come Amazon. Figalli se ne occupa fin dalla tesi di laurea, alla Scuola Normale di Pisa. “Negli ultimi due anni invece mi sono invece lanciato nei problemi di frontiera libera. Sono problemi che prevedono transizioni di fase: si tratta di studiare la struttura dell’interfaccia tra due fasi, per esempio il ghiaccio dentro l’acqua. Il ghiaccio si scioglie, e tu vuoi capire, mentre si scioglie, l’evoluzione dell’interfaccia acqua-ghiaccio. Stiamo ottenendo dei bei risultati con un mio post-doc all’ETH e con un mio ex post-doc di Austin, che ora è assistant professor all’università di Zurigo: in questi mesi ci stiamo divertendo molto”. Cerco di immaginare questi tre giovani matematici impegnati in accese discussioni, circondati da bicchieri d’acqua con dentro cubetti di ghiaccio a diversi livelli di scioglimento. O, più probabilmente, solo di carta e penna.
Mi colpisce la naturalezza con cui un uomo così giovane parla dei suoi studenti. Come fa un trentaquattrenne ad avere ex-studenti con una solida posizione accademica? Semplice: è diventato relatore incredibilmente presto. “Quando ho iniziato, nel 2010, i miei primi due studenti avevano entrambi la mia età: erano entrambi dell’84. Chiaramente allora era più complicato mantenere l’autorità e la distanza. A volte devi anche essere duro, se lo studente non lavora come dovrebbe o è un po’ superficiale. Fare il relatore mi dà molta soddisfazione, ma allo stesso tempo mi stressa: il futuro dei miei studenti dipende anche da me. Sono io che trovo i problemi per loro, li devo guidare… è un po’ come con un figlio, no? E per me è molto più facile gestire il mio stress, quando sono io che non riesco a ottenere risultati, rispetto a quando un mio studente non ottiene risultati. Però penso che sia una parte importante del mio lavoro: se nessuno avesse investito su di me, non sarei dove sono adesso”.
La matematica è nata per problemi concreti, non solo per speculazioni. Se voglio che la matematica sia considerata, devo fare uno sforzo per spiegare alla gente perché può essere importante.
Se ha già una ricca discendenza, in effetti Figalli ha avuto anche “padri” di grande spessore: Luigi Ambrosio alla Normale di Pisa, Cédric Villani (Medaglia Fields 2010) a Parigi, Luis Caffarelli in Texas. La prima scintilla è scoccata al liceo, con le Olimpiadi di matematica. “Alle finali nazionali tutti speravano di entrare alla Normale. Ho deciso di provare anch’io: ho studiato per superare la selezione ed è andata bene”. All’inizio dell’università lo sforzo necessario però non era minimo, come a scuola. “Nella prima settimana di lezione si calcolavano integrali. Io venivo dal classico e non sapevo neanche fare una derivata! È stata la mia fortuna, perché avevo molto chiaro che se non mi davo da fare mi rispedivano dritto a Roma. Dopo aver recuperato, è bastato mantenere quello stesso livello di impegno”, spiega come se fosse la cosa più facile del mondo.
Tutto sembra molto facile quando si parla con Alessio Figalli. È un po’ come quando, guardando un grande musicista suonare o un grande ballerino danzare, abbiamo l’impressione che potremmo farlo anche noi. Nel raccontare le sue ricerche riesce a essere generale ma non evasivo. “Non è poi così difficile spiegarsi, fare qualche esempio utile. La verità è che i matematici non si impegnano abbastanza. In fondo la matematica è nata per problemi concreti, e non solo per speculazioni”. Figalli osserva attorno a sé un certo snobismo intellettuale. “È anche questo che porta la matematica a essere poco considerata, sia dalla società che dalla politica. Dovremmo ricevere finanziamenti perché siamo belli e intelligenti? Non siamo in una società miliardaria, che tanto i soldi li ha per tutti. Siamo in una situazione di crisi economica internazionale. Bisogna pure avere l’umiltà di dire: se voglio che la matematica sia considerata, almeno devo fare uno sforzo per spiegare alla gente perché può essere importante”.
Approfitto di tanta buona volontà per saperne di più sulla ricerca matematica di frontiera. Che cosa bolle in pentola? “C’è molto movimento intorno alle equazioni dei fluidi, uno dei millennium problems”. I millennium problems sono sette quesiti irrisolti che l’Istituto Matematico Clay ha lanciato nel 2000, un po’ come David Hilbert aveva fatto cent’anni prima con i suoi famosi ventitré problemi. La differenza è che questa volta c’è un premio di un milione di dollari per chiunque riesca a sciogliere uno dei sette nodi. Finora solo uno è stato risolto, la congettura di Poincaré, nel 2002. Il milione però è rimasto al suo posto perché l’autore della scoperta, il russo Grigorij Perel’man, non ha voluto ritirarlo (e quattro anni dopo ha rifiutato anche la Medaglia Fields). “C’è chi sta puntando ai millennium problems con molta convinzione”, spiega Figalli. “Chiaramente sono problemi ON/OFF, scommesse che possono durare centinaia di anni, e magari ti ci rovini la vita”. Sembra poco attratto da questi enigmi inflazionati, ma il problema dei fluidi un po’ lo solletica. “Per risolverlo bisogna capire come si comportano le soluzioni delle equazioni di Navier-Stokes. Non voglio spingermi in speculazioni, anzi, secondo me siamo molto lontani da una soluzione, però ho visto molti sviluppi negli ultimi due o tre anni. Vedo un gran movimento anche in algebra. Si dice che forse, in un giorno non troppo lontano, si potrebbe arrivare a risolvere un altro dei millennium problems, la congettura di Riemann. Ma sono solo voci”.
L’algebra non è il campo di Figalli. Per un analista come lui chiacchierare con un algebrista, aggiornarsi sulle novità, comunicare, “è un po’ come se tu non avessi mai fatto matematica, venissi da me, e io come prima cosa ti proponessi il programma dell’ultimo anno di liceo. Sei persa”. Detto così, sembra scoraggiante. Ma Figalli guarda il lato positivo. Cita Andrew Wiles, il matematico britannico diventato celebre per aver dimostrato l’ultimo teorema di Fermat: “i suoi risultati l’hanno portato a sviluppare una matematica eccezionale. E se a un certo punto, con quegli strumenti, si riuscisse a dimostrare anche la congettura di Riemann, sarebbe un problema? Ma no, sarebbe fantastico! Il vero rischio è che, con l’aumento della specializzazione, si perdano di vista gli obiettivi importanti. Che si dimostrino teoremi più per il gusto di dimostrare teoremi e per pubblicare, che non per aumentare effettivamente le nostre conoscenze. Le figure interdisciplinari sono poche, ed è sempre più difficile fare connessioni. Però se la ricerca sta andando avanti vuol dire che va bene così. Il fatto che oggi sia difficile comunicare tra algebra, analisi e tanti altri settori lo vedo un po’ congenito, ormai, alla struttura della matematica. Stiamo andando troppo velocemente”.
I matematici sono tanti, molto attivi, c’è una sempre maggiore collaborazione a livello internazionale, si sviluppano sempre più centri di ricerca. Molti paesi in via di sviluppo investono sulla matematica.
Quel troppo mi sorprende. Troppo per cosa? “Non è che sia troppo. I matematici sono tanti, sempre di più, sono molto attivi, c’è una sempre maggiore collaborazione al livello internazionale, si sviluppano sempre più centri di ricerca. Molti paesi in via di sviluppo investono sulla matematica. La Cina e il Brasile ormai ci investono miliardi. Si vede anche nel privato, in Google o Microsoft. Tanti matematici vanno a lavorare per Microsoft Research: aziende legate a Microsoft dove si fa ricerca pura”. Ricerca pura, come quella che fa lui, come quella premiata dalle Medaglie Fields. Fare ricerca pura in un’azienda: ci ha mai pensato? “A me piace il mondo accademico, mi ci trovo bene, ormai ci sto dentro e non ho ragione di andarmene. In un’azienda hai una libertà enorme e finanziamenti mostruosi, ma è un po’ una scommessa: che cosa succederà tra dieci o vent’anni?”
Curiosamente, Alessio Figalli usa parole molto simili quando parla della ricerca in Italia (la parte della scommessa, non quella dei finanziamenti mostruosi). “Uno può anche tornare, ma quali sono le condizioni al contorno?”, chiede, sfoderando il suo lessico da esperto di equazioni differenziali. “Può anche capitare di poter tornare a condizioni molto buone. Ma non si ha la minima idea di quanto queste condizioni dureranno. Magari si cambia governo quattro anni dopo, e cambia tutto. Non si può vivere nell’ansia di non sapere che cosa succederà ogni quattro anni. Chi si trasferisce vuole avere l’idea che quelle saranno le condizioni per il resto della sua carriera. E vuole poter pensare che almeno la scuola che ha formato possa continuare ad avere le posizioni che merita all’interno del sistema italiano. In Svizzera, Figalli ha altri due enormi vantaggi: risorse per invitare altri matematici a collaborare e poca didattica. “I professori in Italia sono oberati da un carico didattico che non è comparabile a quello che si ha all’estero. È l’unico Paese che conosco in cui un professore deve garantire sei appelli l’anno: un impegno che si sottovaluta, ma prende molto tempo. Io non mi ci sono mai trovato. Quando vedo i miei colleghi italiani, mi chiedo come facciano”.
Ricevere una Medaglia Fields, o anche solo essere nella rosa dei candidati, significa avere la possibilità di scegliere. Scegliere se stare in Italia o no, quanta didattica fare, con chi lavorare, quali studenti seguire. Per arrivare a questo, Alessio Figalli deve essersi reso conto parecchi anni fa che la sua era una bravura eccezionale. Come cambiano le cose con questa consapevolezza? “Mah, ti dicono genio”, risponde tranquillo, “e che cosa significa? Sono bravo, va bene, sono molto bravo in una cosa. Ma se mi dai un pallone in mano, non sono mica Cristiano Ronaldo”. Anche al di fuori della matematica, sceglie termini di paragone importanti.