L e violenze iniziarono nel gennaio del 1974. Sei membri della tribù dei Kasakela attaccarono e assassinarono brutalmente un giovane dei Kahama, Godi, membro benvoluto dalla sua comunità. Negli anni successivi, tutti i sei colpevoli, uno a uno, vennero poi uccisi dai Kahama. Le brutalità non si fermarono qui. Alcune femmine dei Kahama vennero stuprate, in alcuni casi uccise (o scomparirono senza lasciare traccia). Altri maschi di entrambe le comunità vennero assassinati. La guerra tra le due tribù, durata quattro anni, raggiunse picchi di violenza tali da lasciare sconvolti i testimoni dell’epoca, che osservarono che in alcuni casi gli aggressori sembravano quasi godere della sofferenza altrui. Si racconta addirittura che alcuni arrivassero a strappare i genitali ai maschi nemici, guardandoli agonizzare.
La cosiddetta “Guerra civile di Gombe”, in Tanzania, avvenne all’interno di una comunità di Pan troglodytes, ossia scimpanzé, la specie con cui condividiamo un antenato comune esclusivo, e fu, a detta degli studiosi, del tutto simile ai conflitti umani in epoca preindustriale. Com’era possibile, si sono chiesti in molti negli anni successivi al conflitto, che l’intelligente animale nostro “cugino”, fino ad allora dipinto come un pacifico essere primordiale, fosse capace di tanta crudeltà?
Primatologia e pregiudizi
In quegli anni a osservare e documentare questi eventi straordinari c’era una testimone d’eccezione, la leggendaria primatologa Jane Goodall. La guerra di Gombe è un episodio che è stato raccontato molte volte e che ha suscitato un ampio dibattito nella comunità scientifica. Solo uno studio recentissimo però ha per la prima volta affrontato la questione in maniera rigorosa e quantitativa applicando le moderne metodologie di analisi delle reti sociali, riuscendo forse finalmente a fornire un quadro soddisfacente delle dinamiche che hanno portato alla violenza.
Primo autore della ricerca è Joseph Feldblum, un ricercatore della Duke University. Lo studio, pubblicato sulla rivista American Journal of Physical Anthropology è stato coordinato da Anne Pusey, direttrice del Jane Goodall Institute Research Center, che al tempo della Guerra era una studentessa di Goodall e che fu diretta testimone dei fatti. Come racconta Feldblum stesso lo studio è “un vero e proprio salto indietro nel tempo”.
Prima di esaminarne i risultati vale la pena soffermarsi un po’ sugli eventi originali per capirne l’enorme portata. Nel secolo scorso era comune l’idea (che oggi appare piuttosto ingenua) che l’unico animale in grado di infliggere intenzionalmente dolore ai membri della propria specie fosse l’uomo. La guerra di Gombe mostrò chiaramente che non era così ed è forse per questo che rimane ancora oggi impressa nell’immaginario collettivo.
Quando Goodall riportò per la prima volta pubblicamente gli avvenimenti, la sua interpretazione della vicenda venne duramente criticata. Secondo la primatologa, la guerra di Gombe dimostrava che gli scimpanzè sono intrinsecamente violenti e capaci di mettere in atto guerre e genocidi contro i membri della loro stessa specie. Ipotesi che sollevarono un gran polverone, innescando un dibattito destinato a durare a lungo, tra chi sosteneva tesi simili a quelle della primatologa e chi invece suggeriva che la colpa di questo comportamento “anomalo” fosse da imputare alla vicinanza degli umani e alla presenza della stazione scientifica, che, fornendo cibo agli animali, avrebbe alterato la pacifica convivenza delle popolazioni e innescato le violenze.
La guerra tra le due tribù raggiunse picchi di violenza tali da lasciare sconvolti i testimoni dell’epoca, che osservarono che in alcuni casi gli aggressori sembravano quasi godere della sofferenza altrui.
Uno degli aspetti di maggiore perplessità tra gli studiosi fu che, prima della guerra, la comunità degli scimpanzé che gravitava intorno alla stazione sembrava essere un gruppo più o meno compatto ma comunque unitario. Nel 1974 diventò chiaro che era avvenuta una scissione, che aveva portato alla formazione di due gruppi: i Kasakela, che frequentavano l’area a nord del territorio, e i Kahama, che stazionavano a sud.
“Che cosa ha portato alla divisione?”, si chiede Feldblum. “Il nostro studio, va detto, non ha analizzato la guerra in sé, ma tutto il periodo che l’ha preceduta. Volevamo capire che cosa avesse provocato la scissione”. Un nodo cruciale nei ragionamenti che si sono succeduti in questi quaranta e più anni. “Le ipotesi che sono state formulate sono essenzialmente due: prima della guerra il gruppo era uno solo e poi per alcuni motivi si è diviso, oppure si trattava già di due gruppi diversi, uniti artificiosamente dalla presenza della stazione che forniva loro cibo”. Nessuno però era riuscito a portare dati convincenti in una direzione o nell’altra, probabilmente perché gli strumenti di studio non lo permettevano. Feldblum e colleghi hanno introdotto però un elemento di novità metodologica. “Abbiamo applicato le attuali tecniche di analisi dei social network alle relazioni fra scimpanzé a Gombe”. Ma se i fatti di Gombe si sono svolti nel secolo scorso, come hanno fatto Feldblum e colleghi a ottenere i dati dettagliati che servono per questo tipo di analisi? È proprio qui che inizia il viaggio nel tempo.
Lavoro di archivio
“Possediamo una mole enorme di note che contengono le osservazioni di quel periodo, scritte da Goodall, ma anche dai suoi studenti. La mia coordinatrice, la professoressa Pusey, ha passato gli ultimi 25 anni a digitalizzare tutto quanto”. Un archivio imponente e preziosissimo, grazie al quale Feldblum e colleghi hanno potuto gettare uno sguardo del tutto nuovo a un vero e proprio fatto storico.
“Poiché al tempo gli studi si erano focalizzati principalmente sul comportamento dei maschi della comunità, abbiamo analizzato principalmente i loro rapporti”, spiega Feldblum. “Erano già parecchi anni che la stazione si era insediata e il personale scientifico conosceva ormai molto bene i vari individui. Si erano inoltre poste le condizioni per un’osservazione agevole dell’intera situazione intorno alla stazione, liberando per esempio le piante del sottobosco per migliorare la visuale”. Goodall e i suoi studenti hanno passato ore interminabili a registrare le interazioni fra gli scimpanzé. Grazie alla digitalizzazione è stato possibile catalogarle con tag specifici e poi darle in pasto ad algoritmi in grado di tracciare con rigore matematico le dinamiche dei gruppi sociali per tutto il periodo precedente al 1974.
“L’idea di base è che si possano astrarre interazioni e relazioni in una società complessa rappresentandole con il concetto matematico di ‘nodo’, che è una sorta di attore sociale all’interno di un gruppo, e di ‘legame’ o ‘bordo’ fra i diversi nodi”, spiega Feldblum. “Si ottiene un’astrazione matematica delle relazioni fra gli individui, così si possono generare dei riassunti statistici della struttura sociale e della posizione dei membri all’interno di un gruppo complesso. Quello che l’analisi dei network ti permette di fare è considerare l’intero network di connessioni e avere un senso della struttura sociale complessiva e della posizione di un individuo relativamente a chiunque altro”. Questo offre una visione potente che va oltre alle tecniche analitiche usate fino a qualche tempo fa.
È proprio usando questo metodo che Feldblum e colleghi hanno fornito una risposta al dibattito: “Secondo i nostri dati l’ipotesi che ci fossero due gruppi iniziali è molto poco probabile”.
Le cause della guerra
I ricercatori hanno poi individuato la presenza di sottogruppi all’interno della comunità originaria. Si tratta di vedere con chi e per quanto tempo ciascuna scimmia si intrattiene. “All’inizio la situazione era fluida, gli individui cambiavano sottogruppo facilmente in una maniera che si può definire casuale”, racconta lo scienziato. “Si mescolavano e non si riuscivano ancora a individuare i Kasaela e i Kahama”. Improvvisamente però all’inizio del 1971 si inizia a vedere che gli individui che nella fase successiva di guerra saranno noti come membri di un gruppo o dell’altro iniziano a passare più tempo insieme in rispettivi sottogruppi.
“Questo vuol dire che all’inizio non vi è una differenza chiara in grado di segnalare la divisione netta che si osserva a partire da un paio di anni prima della guerra. Prima c’è una specie di organizzazione fluida e mutevole delle amicizie. Questo ci fa pensare che il primo fosse un gruppo unico”. Se Feldblum e colleghi hanno ragione, quella di Gombe dunque è stata una vera e propria guerra civile, in accordo con la visione di Goodall sugli scimpanzé.
Manca ancora un tassello però: che cosa ha provocato la divisione e poi la guerra? Feldblum e colleghi hanno analizzato la probabilità di alcuni fattori scatenanti. Negli anni che hanno preceduto la guerra, spiega lo scienziato, si sono instaurati rapporti personali ben precisi fra individui delle due fazioni. “C’era una lotta per il potere fra Humphrey, il maschio alfa, e Charlie e Hugh, probabilmente fratelli, che abbiamo categorizzato come maschi beta e gamma (cioè secondo e terzo in gerarchia)”, continua. “Abbiamo scoperto dalle note che Humphrey poteva intimidire gli altri maschi in un confronto uno a uno ma quando Charlie e Hugh erano insieme a volte riuscivano a intimidire Humphrey”. Questo ha portato a una relazione tesa e di evitamento, che secondo gli scienziati può aver avuto un ruolo nella divisione.
La dinamica osservata a Gombe da molti punti di vista assomiglia a tipi di conflitto osservati nelle società umane preindustriali.
“Il secondo fattore di scissione che abbiamo individuato ha a che fare col fatto che, a partire dal 1971 e ancor più nel 1972, il rapporto fra il numero dei maschi e quello delle femmine in grado di riprodursi ha iniziato a crescere. Da altri studi sappiamo che questo tipo di competizione aumenta l’aggressività fra maschi”. Rapporti personali tesi e poche femmine fertili, sono questi secondo Feldblum i due catalizzatori principali della guerra.
La dinamica osservata a Gombe da molti punti di vista assomiglia a tipi di conflitto osservati nelle società umane preindustriali. Questo, unito alla vicinanza filogenetica fra la nostra specie e quella degli scimpanzé, può svelarci molto sulle basi evolutive di questi fenomeni. “La guerra di Gombe, che resta un unicum poiché non era mai stata osservata prima in natura e non è mai più stata vista con questa intensità, non è tuttavia un’eccezione”, spiega Feldblum. “Le osservazioni di comportamenti aggressivi simili negli scimpanzè sono innumerevoli, Gombe si distingue solo per complessità e durata e solo per il fatto, fortuito, di essere stata osservata in tutto il suo svolgimento”.
“Si è trattata di un’occasione assolutamente fortunata dal punto di vista scientifico”, conclude Feldblum. “Mi ricorda un altro studio molto famoso in sociologia, condotto da Wayne Zachary alla fine degli anni Settanta del secolo scorso. Zachary stava studiando un club di karate al college (noto ai più col nome di Zachary’s Karate Club a seguito della fama dello studio), e per caso si è trovato lì quando il gruppo si è diviso in due fazioni antagoniste. Si tratta forse di uno degli studi più citati in sociologia”. Zachary (e altri dopo di lui) ha ricostruito le dinamiche sociali fra i vari individui. Goodall e i suoi studenti hanno avuto lo stesso tipo di occasione unica con gli scimpanzé. Il lavoro di Feldblum e colleghi dopo quasi mezzo secolo sembra aver idealmente completato l’osservazione.
Violenti di natura?
I raid punitivi degli scimpanzé di Gombe non ricordano solamente i conflitti umani in epoca preindustriale: alcune caratteristiche di quella stessa violenza di gruppo le possiamo ancora trovare in certe dinamiche a cui assistiamo quotidianamente: virtuali, sui social network, e talvolta anche nel mondo fisico. Cosa ci dice allora l’esperienza di Gombe sulla natura umana?
Come già detto le prime conclusioni tratte da Goodall sconvolsero l’opinione pubblica: non solo si suggeriva che negli scimpanzé ci fosse una radice violenta innata, ma, dato che il passo fra noi e “loro” è tutto sommato evolutivamente breve, si insinuava che anche nell’essere umano esistesse una tendenza istintiva all’aggressione. Una posizione in qualche modo opposta a quella di chi invece crede che guerre, omicidi e soprusi di varia natura dipendano da altri fattori. Tra loro Steven Pinker, nel libro Il declino della violenza (in inglese il titolo è The Better Angels of Nature, da una frase di Abramo Lincoln), sostiene che la violenza sia in larga parte trasmessa per via culturale.
Interessante è però notare come nel suo libro, pubblicato nel 2011, Pinker sostenga anche, dati alla mano, che la società umana si trovi in realtà in una fase di declino della violenza, declino determinato proprio dall’imporsi sempre più deciso di alcuni fattori che si fanno largo con l’avanzare del progresso: la maggiore femminilizzazione della società, la crescita dei commerci, l’importanza crescente della razionalità.
Il dibattito fra queste due posizioni non è affatto sterile, poiché accettare una o l’altra posizione implica anche indicazioni su come gestire la violenza umana verso i propri simili: se questa avesse davvero una base genetica allora sarebbe virtualmente impossibile da estirpare fino in fondo, mentre se fosse puramente determinata dall’ambiente, allora potrebbe essere mitigabile attraverso mezzi culturali. Va ovviamente detto che quasi nessun ricercatore assume posizioni dogmatiche agli estremi di questo continuum e quasi tutti accettano che si tratti di un mix di cose, con “dosi” diverse di un fattore o dell’altro.