L’ arte della matematica è un recente libretto pubblicato da Adelphi, e raccoglie le lettere che i fratelli Simone e André Weil si scambiarono nella primavera del 1940. André, considerato uno dei migliori matematici dell’epoca, si trovava in prigione a Rouen, per aver disertato la leva obbligatoria: era stato infatti richiamato al fronte qualche mese prima, mentre si trovava in Finlandia con la moglie, ma si era rifiutato di tornare e prestare servizio. André era un pacifista particolare: da profondo conoscitore della filosofia e cultura indiana, era convinto che il suo dharma – termine sanscrito che possiamo imperfettamente tradurre con “dovere, compito, vocazione” – fosse solo quello di essere un matematico. Non è compito del matematico uccidere; un soldato uccide; dunque non poteva fare il soldato.
André Weil si trovò quindi a passare vari mesi in cella, dotato di relativa libertà, fra cui quella di poter corrispondere con amici e colleghi, ricevere libri e scrivere gran parte della giornata: una condizione ideale per un matematico, tanto che i colleghi inizieranno a invidiargli presto tutta quella tranquillità lavorativa. André sfrutterà bene il suo tempo, facendo profonde riflessioni sul suo lavoro algebrico, e gettando semi che daranno frutti per lunghi anni a venire. È in quest’occasione che la sorella Simone gli scrive: “visto che di tempo ne hai anche troppo, un’altra buona occupazione potrebbe essere metterti a riflettere sul modo di far intravedere a profani come me in che cosa consistano esattamente l’interesse e la portata dei tuoi lavori”. Per ottenere una risposta decisamente sarcastica: “tanto varrebbe spiegare una sinfonia a dei sordi”.
I rapporti fra i fratelli, sono, come sempre accade, carichi di ammirazioni e attriti segreti. Quelli tra Simone – la filosofa, l’operaia, la santa (“l’unico vero grande spirito dei nostri tempi”, secondo Camus) – e il fratello matematico André non erano dei più sereni. André era stato un bambino prodigio, così precoce da ricevere il dottorato in matematica all’età di 21 anni, e viaggiare il mondo studiando e insegnando: Parigi, Roma, Gottinga, Strasburgo, Aligarh (India), Londra, Princeton, Stoccolma, San Paolo. Non c’era lingua che non riuscisse a padroneggiare dopo poche settimane, mentre si destreggiava fra teoremi, lezioni con i matematici più famosi del suo tempo, e i viaggi nei treni notturni che faceva per assistere ai concerti nei migliori teatri di tutta Europa. Diceva Simone: “un fratello è come un dente: è una buona cosa a condizione di non essere costretti troppo spesso ad aver coscienza della sua esistenza”. Preso nel suo mondo iperdimensionale, è quasi certo che André non si accorse della disperazione adolescenziale che colpì la sorella quattordicenne, che appena prima di morire scrisse:
Le straordinarie doti di mio fratello, che ha avuto un’infanzia e una giovinezza paragonabili a quelle di Pascal, mi imponevano di averne coscienza. [Non posso] sperare in alcun modo di accedere a quel regno trascendente ove entrano soltanto gli uomini di autentica grandezza e ove abita la verità […] e anche la bellezza, la virtù, e ogni specie di bene.
La montagna è la prima metafora: e l’analogia con la matematica viene particolarmente bene. In entrambe, abbiamo la fatica della scalata – la tenacia, l’allenamento, la dedizione, il tempo – ma anche l’idea della vetta, dello sguardo che abbraccia l’orizzonte, l’aria tersa e rarefatta che si respira lassù, dove pochi riescono ad avventurarsi. Quell’aria tersa che durante le passeggiate estive in montagna suggerirono a Simone la sue prime idee sul concetto di purezza, suggerirono invece ad André l’idea che ogni cosa avesse diversi piani di complessità e significato, e che il genio nell’arte fosse questa capacità di scrivere su più livelli. André avrebbe ricercato quest’aria anche nelle sue peregrinazioni sul Nanga Parbat, nell’Himalaya, intrecciandola con la sua ormai esperta conoscenza del sanscrito e della filosofia indiana.
Sua sorella si sarebbe interessata a queste filosofie – il pensiero abissale dell’India dei Veda e della Bhagavadgītā – solo più tardi, nei primi anni Quaranta, assieme all’amico scrittore e filosofo René Daumal: questi riuscì a condensare tutto il suo pensiero nel suo capolavoro, Il monte analogo, rimasto purtroppo incompiuto. Daumal ci lavorò fino all’ultimo giorno: morì di tubercolosi, come la sua amica Simone, appena un anno dopo di lei. Avevano, entrambi, meno di quarant’anni.
“Ove abita la verità”, scriveva Simone, nel suo slancio platonico. Il furore metafisico e mistico che pervade l’idea matematica di Simone è palese, e molto distante dal formalismo astratto di André. Simone Weil vedeva la distanza della matematica dalla realtà di tutti i giorni: ma non era certo per mancanza di pragmaticità che la condannava. Per lei, la matematica doveva restituire il rapporto fra mondo e Dio, e la sua idea è quasi mistica, imbibita dei suoi studi sul pensiero antico, dai Greci ai Babilonesi.
E la dimensione di gioco (nel senso più alto del termine) è quella del fratello, non a caso uno dei fondatori del gruppo Bourbaki, goliardico e serissimo collettivo di matematici che, sotto il falso nome di un generale dell’immaginaria nazione di Poldevia, sistematizzò la matematica fino allora conosciuta, ponendo grande enfasi al formalismo, al rigore delle dimostrazioni. A Bourbaki dobbiamo molti dei simboli utilizzati tuttora in matematica (come l’insieme vuoto Ø, ispirato dalla lettera norvegese ø, e introdotto dallo stesso André Weil, l’unico del gruppo a conoscerne l’alfabeto), ma soprattutto la costruzione di un edificio teorico secondo una visione unitaria e assiomatica, a partire dalla logica. Non abbiamo molte foto di Simone Weil: fra le poche, ci sono quelle del “congresso” Bourbaki del 1938, quando gli amici di André si ritrovavano d’estate, in campagna, a bere, scherzare e fare matematica.
Le differenze fra i fratelli sono tante, troppe, e il carteggio lascia intravedere tensioni a cui non sappiamo dare un nome con chiarezza: cosa volevano dirsi i fratelli quando litigavano su Nietzsche, l’orfismo, il problema degli incommensurabili? Leggendo, assistiamo a un particolarissimo incontro di scherma, giocato su più livelli – di cui noi possiamo comprendere i più superficiali. André alla fine accontenterà la sorella, ma il fallimento è evidente: la sua spiegazione è comprensibile solo ad un esperto, e la stessa Simone (che pure di matematica se ne intendeva) ammette candidamente di non avere capito nulla. Ma Simone apprezza comunque, e André qualche decennio dopo pubblicherà in una relazione più ampia quella breve ricognizione. D’altronde, nonostante tutto, i fratelli sono simili, comunicano a distanza di chilometri e anni, senza parlarsi. Molte delle passioni di André (il sanscrito, il greco antico, la filosofia) saranno anche le passioni di Simone, trasfigurate. E il fratello la penserà sempre, soprattutto dopo la sua precocissima morte. Sarà la figlia di André a trovare le parole giuste:
Il genio era bicefalo. Mio padre aveva un doppio, un doppio femminile, un doppio morto, un doppio fantasma. Proprio così, perché mia zia, oltre ad essere una santa, era un doppio di mio padre, al quale somigliava come una gemella. Un doppio onnipresente… Che non milita più, non insegna più, non ha più sorprendenti incontri con Cristo, e nondimeno continua senza sosta a fare tutto questo meglio dei vivi. Un doppio terrificante, per me, perchè le somigliavo molto. Somigliavo al doppio di mio padre.