“S
ei mesi fa c’è stata la fine del mondo. La realtà, per come la conoscevamo noi, è scomparsa. (…) Ed è buffo, perché tante persone credono ancora che la fine del mondo sia un fatto di grattacieli che crollano, cielo rosso sparato e bambini che piangono, e continuano a crederci anche se stanno già vivendo in mezzo alle macerie, e le persone si chiedono come reagirebbero, loro, se perdessero tutto da un momento all’altro – ma nessuno pensa mai che possa succedere a lui – mentre noi tre siamo la prova che nessuno è al sicuro.”
I tre di cui sopra sono i membri superstiti di una troupe che di mestiere faceva documentari furbetti ma molto seguiti per Youtube. Quasi dei servizi di Lucignolo, a caccia del grottesco, dell’insolito, dell’incredibile, con l’aggiunta del commento personale e del protagonismo DIY apportato dal web: Ali (fonica e voce narrante del romanzo), Misha (youtuber trentenne, volto del progetto), Nicola (operatore e compagno di Misha). La loro personale fine del mondo è stata una violentissima shitstorm on line, seguita a un servizio evidentemente troppo risqué, che ha danneggiato la loro credibilità, compromesso la carriera di Misha, e messo a dura prova la salute mentale di tutti i coinvolti.
Fa tutto schifo. Fa schifo e continua a fare schifo, e a un certo momento – Dio mi perdoni – io comincio a pensare che non stia succedendo a me: sta tutto succedendo a un personaggio. Io sto bene, molto bene. Diventa tutto talmente scuro che comincio a osservarlo con un distacco mostruoso, come se fosse soltanto materiale, ottimo materiale, come se stessi raccontando la giornata media di una teppistella che abbiamo trovato al pronto soccorso: mi punto il dito contro e rido di me. E questa è la parte in cui perdi il lavoro, e questa è la parte in cui perdi gli amici. E questa è la parte dove non riesci a scopare. Brucia, strega, brucia, strega.
Sei mesi dopo questo baratro, i tre tentano di risollevarsi (“Davvero pensi che ce la posso ancora fare, chiede lei, la voce fragile, e lui, ne sono sicuro. Hai un gran cuore e sei una donna onesta.”) partendo per un nuovo progetto, alla volta della statale 45 tra Genova e Piacenza, dove intendono filmare le comunità che sono sorte nei villaggi semideserti in seguito a emigrazioni e epidemie. La struttura narrativa del romanzo ricalca le tappe del viaggio che presenta un’umanità sparpagliata e trinceratasi nelle forme di fanatismo che le sono più congeniali. Ci sono, nell’ordine, confraternite di soli uomini profondamente misogini che offrono rifugio a femminicidi “pentiti”, giovanissimi post-hipster che vivono di scarti ed elemosina, strane scuole simil-steineriane che insegnano agli infanti a maneggiare armi da fuoco, comunità di donne votate all’autoflagellazione.
Infine, l’ultima tappa, la più ambita fin dall’inizio: La mano, sede di un misterioso guaritore che assicura pace perpetua ai suoi adepti. È un “reportage dal futuro” (così era stato commissionato a Violetta Bellocchio da Chiarelettere inizialmente il progetto de La festa nera) che in realtà presenta una versione accelerata del nostro presente, in cui le filter bubbles, complici le condizioni economiche da nuovo medioevo, sono diventate, da virtuali e globali, reali e local.
Il punto del romanzo però, non riguarda tanto cosa filmino i protagonisti (questa perturbante caricatura del nostro presente), bensì come. Misha riprende attraverso delle lenti a contatto che annullano la distanza, frustrante ma anche rassicurante, tra lei e la camera, e allo stesso tempo è costantemente inquadrata da Nicola.
Il senso del girare usando le lenti sta nell’aggiungere una prima persona più vicina a tutta l’immagine – trasportare chi ci guarda all’interno della storia, farlo sentire parte viva di cosa sta succedendo, vicino, molto vicino – ma ci serve anche una copertura normale, perché, inutile fingere di no, metà del nostro lavoro consiste nel buttare Misha in una situazione che non ha nessuna speranza di gestire con decoro.
L’extreme gonzo ottenuto con le lenti e la presenza costante in scena collassano l’una sull’altra, sono due parti codipendenti, così come l’identificazione dell’autrice si sdoppia tra protagonista (Misha, «la ragazza più sola che abbia mai conosciuto») e voce narrante testimoniale, rappresentazione quasi letterale della scrittura di Bellocchio, estremamente autobiografica e personale, eppure mai intima, né privata. La sua opera è quanto di più lontano possa esserci da una pagina di diario, perché profondamente consapevole, consapevole di essere osservata, esposta al pubblico. Con la sua scrittura nervosa e sofferta Bellocchio restituisce tutta la fatica di questa sovrapposizione tra autopercezione e immagine pubblica, particolarmente comune nella nostra epoca, tematizzandola esplicitamente e senza fare sconti a nessuno.
Come modello per il romanzo, Bellocchio ha spesso citato Cannibal Holocaust (Ruggero Deodato, 1980). Nel tripudio di citazioni più o meno recenti dalla cultura pop di cui è composto il romanzo, quello con l’exploitation è il paragone più azzeccato. Non solo perché la narrazione densissima di Bellocchio è fortemente cinematografica, nel senso che ogni frase registra e consegna un’immagine, e neanche banalmente perché si confronta, nei temi e nella scelta lessicale, con il genere (horror, pulp, thriller, splatter), bensì soprattutto perché dell’exploitation migliore presenta l’ambiguità morale, la consapevolezza di stare raccontando, magari proprio mettendola alla berlina, la stessa modalità che si utilizza per farlo. Cannibalizzare i cannibali, lottare per la sopravvivenza in una gara a chi si abbassa di più – è questo che fanno i personaggi di La festa nera.
Misha la riporta alla realtà con cautela – hai un gran cuore e sei una donna onesta, le sta dicendo, sono cose che contano ancora, ma io non la ascolto più, perché questa è una coda che taglieremo al montaggio. Ci siamo. Batto il pugno a Nicola, che mi fa, a futura memoria, stella, quando avrai un programma tuo e ci avrai seppellito tutti, ricordati sempre da chi hai imparato il mestiere. Tu sei la figlia di una leggenda. Gli tremano le labbra (NO). Non lo voglio un programma mio, gli dico, e intanto sto pensando, ti abbiamo presa. Presa. Abbiamo quello per cui siamo venuti. Hai fatto tutto tu, hai fatto quello che volevamo. Adesso non ci servi più. Adesso puoi andare.
Misha, Ali e Nicola non fanno quello che fanno in nome dell’informazione, meno che mai in nome dell’arte, non c’è alcun valore superiore se non la voglia di fare quello che pensano di saper fare bene. E non è detto che siano disposti a sacrificare la propria vita per poterlo fare – anzi, sono al contrario disposti a “togliersi le lenti”, a spegnerle, pur di salvare se stessi, pur di dire basta a tutto il loro dolore. Perché di dolore, nella loro vita, oltre che nel mondo postapocalittico che incontrano e raccontano, ce n’è moltissimo, e ce n’è altrettanto nel libro di Bellocchio, insieme all’ansia, alla rabbia, al cupio dissolvi. Si salva chi pensa alla storia, come fa Ali, chi si domanda cosa fare del materiale.
Resiste, rimane, chi riesce a gestire anche quella punta di cinismo che fa parte della sopravvivenza tanto quanto ne fa parte il chiedere di sparire pur di non soffrire più. Scegliere una o l’altra è questione di vocazione, di fortuna, di casi della vita. Non c’è alcuna gerarchia morale tra le due. Così il romanzo sembra un congedo a una parte di sé, quella che avrebbe potuto scegliere quell’altra via, un tributo a quell’altra scelta, altrettanto comprensibile, altrettanto degna. La festa nera ha il sapore del saldo di un debito, del pagamento di un tributo, quello che è giusto pagare per rimanere. Un omaggio, un regalo. Infatti, nonostante la rabbia, non c’è una sola traccia di odio né di cattiveria nel libro. “Hai un gran cuore e sei una donna onesta.”