L’ Ossezia settentrionale è una repubblica della Federazione Russa, nella parte nord del Caucaso. Agli inizi degli anni 2000 in quei territori venne fondato un gruppo religioso pacifista che, per pressioni della Chiesa Ortodossa, fu poi sciolto nel 2007. In quell’anno Soslan, uno dei fondatori, decise che stava tirando una brutta aria: assieme alla moglie e ai due figli emigrò in Svezia, in cerca di rifugio dalle minacce che aveva iniziato a ricevere dalle forze di sicurezza russe. Un articolo dell’anno scorso, pubblicato sul New Yorker, ricostruisce le vicende di quella famiglia. Il figlio minore di Soslan, Georgi, fu quello che ebbe più beneficio dalla scelta del padre: in pochissimo tempo imparò lo svedese, divenne il primo della classe e si fece molti amici giocando in una squadra di calcio. A 13 anni Georgi era a tutti gli effetti un bambino di cultura svedese. Un giorno, nell’estate 2015, Georgi torna a casa da scuola e trova il padre e la madre in angoscia. Senza dire una parola, Soslan allunga una lettera al figlio che inizia a leggere e tradurre per loro: l’Ufficio Immigrazione svedese ha respinto la loro richiesta di asilo.
La famiglia decide di fare appello. Nei mesi che trascorrono in attesa della risposta, Georgi si fa sempre più distante, smette di parlare in russo, rimprovera ai genitori di non aver imparato lo svedese. Anche la richiesta di appello cade a vuoto: per la Svezia, Soslan e la sua famiglia non hanno dato sufficienti prove di essere perseguitati in Russia e quindi, entro aprile, verranno espulsi in Ossezia. Alla notizia definitiva, Georgi si chiude nella sua stanza e non si alza più dal letto. Chiude gli occhi, e non li riapre più per settimane.
Una fragile campana di vetro
Racconta Georgi al New Yorker: “ho sentito il mio corpo come liquefarsi. Tutto è diventato difficile da fare, anche solo deglutire. L’unica cosa che volevo fare era dormire”. È come se fosse stato immerso in acque profonde, spiega, all’interno di una campana di cristallo: ogni piccolo movimento avrebbe rischiato di rompere il vetro, e lui sarebbe morto affogato.
Per i primi giorni la famiglia, pur comprensibilmente preoccupata, non dette particolare peso alla reazione del figlio. Ma i giorni passavano e Georgi non si svegliava: fu chiamata una otorinolaringoiatra, perché il ragazzo non inghiottiva più nulla. La dottoressa notò che sotto le palpebre gli occhi si muovevano, ma il corpo era totalmente inerte ad altri stimoli. Georgi, che aveva subìto un vistoso calo di peso, fu portato immediatamente al pronto soccorso più vicino. Lì i medici constatarono che era in catalessi, ma tutti gli altri parametri, come la pressione o il battito cardiaco, erano normali. Semplicemente non reagiva più agli stimoli esterni. Già il giorno dopo comunicarono a Soslan la diagnosi: Georgi era vittima della uppgivenhetssyndrom, o sindrome da rassegnazione.
Se non l’avete mai sentita, c’è una ragione: la sindrome da rassegnazione è stata diagnosticata solo in Svezia e solo tra gli adolescenti figli di immigrati cui è stato negato l’asilo. Sembrerebbe una cosa talmente circoscritta da essere poco rilevante. Tuttavia, secondo la BBC, la uppgivenhetssyndrom ha riguardato 169 bambini solo tra il 2015 e il 2016 e i numeri sembrano stabilizzati su un centinaio di casi l’anno. Al momento le popolazioni più colpite sono le famiglie provenienti dall’Europa dell’est e in particolare la minoranza rom, ma si sono già avuti i primi casi tra adolescenti siriani.
Verrebbe da dire: l’unica cura finora disponibile è quella di offrire alla famiglia un permesso di soggiorno, anche temporaneo. Ma anche questo è solo parzialmente vero: non è raro, infatti, che anche una volta ricevuto il permesso, i pazienti di uppgivenhetssyndrom rimangano in stato vegetativo per mesi. Georgi, che pure ha sofferto della sindrome per relativamente poco tempo, ha impiegato due settimane per uscire dalla catalessia dopo che alla sua famiglia era stato accordato il permesso permanente.
Non sappiamo esattamente come curare questi bambini, perché sostanzialmente ancora non sappiamo di cosa soffrono.
Indizi
Inizialmente si pensò a un mero stratagemma delle famiglie per posticipare o addirittura annullare il provvedimento di espulsione. In psichiatria esiste una sindrome specifica, molto più comune di quanto si pensi, chiamata sindrome di Münchhausen. Si realizza in due forme, una diretta e una indiretta.
Nella prima forma, il paziente tende ossessivamente a fingere malattie o traumi per farsi visitare, e dunque ricevere attenzioni. Spesso chi soffre di questa sindrome si sottopone a una infinita quantità di esami medici e solo dopo aver escluso tutto il resto si arriva alla diagnosi psichiatrica. La seconda forma è, se si vuole, ancora più difficile da diagnosticare. Nella sindrome di Münchhausen per procura un adulto provoca dei danni psicologici o fisici ai figli al fine di attirare su di sé la compassione e l’attenzione degli altri. Ovviamente in molti hanno subito pensato a una sorta di sindrome di Münchhausen di tipo collettivo per spiegare ciò che stava accadendo ai bambini immigrati in Svezia.
Tuttavia le caratteristiche dei casi di uppgivenhetssyndrom sono ben più estreme di quelle da sindrome di Münchhausen diretta: molti bambini rimangono immobili per mesi, sorvegliati giorno e notte in ospedale, alcuni di loro sviluppano delle reazioni tipiche del coma. Anche la sindrome di Münchhausen per procura viene esclusa: i genitori abusanti hanno solitamente delle conoscenze mediche specifiche, mentre i parenti dei bambini affetti dalla sindrome da rassegnazione sono spesso poco istruiti.
La sindrome da rassegnazione è stata diagnosticata in Svezia tra gli adolescenti figli di immigrati cui è stato negato l’asilo.
Si è dunque valutata l’ipotesi di un’isteria collettiva. Un elemento, in particolare, propende per questa interpretazione. Nel 2015 una famiglia rom del Kosovo, che aveva richiesto asilo contro la persecuzione come minoranza, ricevette il primo rifiuto al permesso di soggiorno. La figlia maggiore, Denjeta, di dodici anni, fu subito vittima della sindrome da rassegnazione. La bambina è da tre anni a letto, incosciente. La lunga degenza ha fatto diminuire il battito cardiaco e in lei è apparso il fenomeno di Bell, un meccanismo che si può riscontrare nei pazienti in stato vegetativo da anni, in cui gli occhi si ribaltano indietro per proteggere la cornea. Pochi mesi fa, dopo aver fatto appello, la famiglia ha ricevuto un altro rifiuto e stavolta anche l’altra figlia, Ibadeta, è caduta nel sonno profondo della uppgivenhetssyndrom. Prima di loro, una cugina era già da anni allettata. Il dubbio sorge spontaneo, e anzi è rafforzato dal convincimento dei genitori delle bambine: si tratta di emulazione – o meglio, di “contagio” come preferiscono chiamarlo gli specialisti.
Per molte famiglie, culturalmente isolate, che spesso non parlano bene la lingua del paese ospitante, gli operatori delle associazioni umanitarie rappresentano l’unico interlocutore con il resto della società. In Svezia alcuni si sono chiesti allora se, almeno nei casi di conclamata emulazione, un ruolo possano averlo avuto proprio gli assistenti che seguono queste famiglie. Ma non sarebbe comunque abbastanza per giustificare una tale pervasività del fenomeno, senza considerare poi che gli assistenti, il più delle volte, entrano in contatto con le famiglie solo dopo che si sono manifestati i primi sintomi della sindrome, e non prima. Si è così iniziato a guardare a un particolare tipo di isteria, quella delle sindromi culturali.
Le sindromi culturali
Il celebre esploratore inglese James Cook, incaricato dalla Corona britannica di setacciare il sud-est asiatico e l’oceano Pacifico, ha lasciato dietro di sé una quantità impressionante di dati etnografici, attraverso scritti e cimeli. In un suo diario, del 1770, descrisse un particolare fenomeno che riscontrò nella regione dell’arcipelago indonesiano. I nativi lo chiamano amok e viene descritto come una furia distruttrice e incontrollata. L’amok colpisce principalmente i maschi nativi che, dopo un grave e improvviso shock (come ad esempio la morte inaspettata di una persona cara), iniziano a correre (in inglese infatti si parla di running amok) distruggendo tutto ciò che incontrano. Quando l’amok termina, il paziente soffre di amnesia. Alcuni casi di amok vengono registrati anche ai giorni nostri.
L’amok è forse la più famosa tra le cosiddette sindromi culturali (in inglese culturally bound syndromes), ovvero condizioni di disturbo mentale di breve o lunga durata fortemente connesse con la cultura delle persone che ne sono affette. Un altro esempio tipico è la Taijin kyofusho giapponese, una fobia sociale che si manifesta quando le persone tendono a un severissimo isolamento per paura che il loro corpo possa recare fastidio o imbarazzo ad altri.
In India, poi, alcuni maschi (anche appartenenti a differenti etnie) sono colpiti dalla cosiddetta sindrome dhat: se soffrono di eiaculazione precoce o di impotenza, si convincono che il proprio sperma – considerato “fluido vitale” nella religione induista – si disperda in qualche modo nelle urine. La paura dello spreco del proprio sperma, e la convinzione che questa perdita fuori controllo porti a una diminuzione del proprio vigore vitale, scatena casi cronici di ansia e disforia. In Nigeria, la sindrome brain fag porta all’inattività numerosi giovani universitari, che soffrono di eruzioni cutanee, cefalee e altri disturbi dovuti all’eccessiva pressione che le famiglie impongono su di loro per avere successo nella propria formazione.
In molti si sono chiesti se effettivamente la uppgivenhetssyndrom non possa essere altro che una nuova, nascente, sindrome culturale tipica dei pre-adolescenti figli di immigrati in Svezia.
Tuttavia non tutti concordano con questa collocazione, poiché mancano alcuni elementi di base. Innanzitutto una cultura condivisa: un giovane georgiano figlio di un capo di una setta ortodossa condivide molto poco con le figlie di una famiglia rom kosovara di religione musulmana. Che sia allora la cultura svedese (l’unica che condividerebbero) a fare in qualche modo da innesco? Se così fosse, dovrebbero soffrire della malattia anche gli adolescenti svedesi che subiscono shock paragonabili, e finora non è stato registrato alcun caso tra i bambini di nazionalità svedese.
La salute mentale dei migranti
Il fatto che la uppgivenhetssyndrom (che, va specificato, ancora non è considerato un disturbo psichico a livello ufficiale) si sia manifestata in gruppi che condividono poco da un punto di vista culturale fa pensare – ma è solo una supposizione – che alla base ci sia un meccanismo comune ancora poco conosciuto, che si attiva in determinate circostanze critiche.
Fenomeni tutto sommato analoghi sono stati riscontrati in periodi e situazioni storiche differenti. Ad esempio, dai racconti dei sopravvissuti, è emerso che nei campi di concentramento nazisti alcuni internati si addormentarono senza svegliarsi più (in mancanza di adeguate cure, chi soffre di sindrome da rassegnazione va velocemente incontro alla morte per disidratazione e denutrizione). Similmente, negli anni Ottanta, alcuni rifugiati laotiani, negli Stati Uniti – anche stavolta adolescenti – passarono lunghi periodi in catalessia per poi morire nel sonno.
C’era davvero bisogno di una nuova etichetta per la uppgivenhetssyndrom svedese? “La decisione di creare una diagnosi ad hoc è stata anche parzialmente criticata”, spiega la neuropsichiatra infantile Antonella Costantino. “Ma in effetti le caratteristiche che assume non sono quelle tipiche del disturbo dello stress post traumatico che spesso colpisce i bambini delle famiglie dei rifugiati: forse siamo più vicini ad alcune forme particolari di catatonia”. Il senso della decisione è stato proprio quello di delimitare i casi per cercare di capire meglio perché la sindrome si verifica in questa forma e con questa particolarità territoriale.
“È una malattia che non è segnalata in nessun altro luogo”, prosegue Costantino, “né nei paesi di origine delle diverse etnie dei rifugiati, né nei campi profughi”. È segnalato lì, in Svezia, probabilmente perché solo lì si incrociano una serie di variabili, “tra cui il fatto che spesso le espulsioni avvengono dopo qualche anno che le famiglie si sono stabilite nel nuovo paese, in un momento in cui, quindi, i bambini si sentono più svedesi che appartenenti al loro paese di origine”.
La catatonia è uno stato nel quale sono bloccate tutte le risposte, motorie, alimentari, al dolore. Ma qualche sorta di contatto con l’esterno continua a esserci. “I racconti in prima persona dei bambini, in Svezia, riferiscono che, anche in quelle condizioni, alcune cose continuano a essere percepite. Per questo le autorità sanitarie tentano in ogni modo di tenerli agganciati alla vita e alla speranza, in contatto con amici e parenti, aggiornandoli anche sulla situazione legale del loro rimpatrio”.
Isolati in una cultura estranea, i rifugiati sono stati spesso depositari di forme uniche e nuove di malessere psicologico. Soprattutto i bambini vivono situazioni estremamente delicate, “momenti che sbriciolano il loro senso di sicurezza, e sbriciolano anche la certezza del fatto che i genitori siano in grado di proteggerli”, spiega Costantino.
Il mondo dei minori è un mondo piccolo: la famiglia, gli amici, la propria casa. Un bambino non sa di patti, convenzioni, pratiche di respingimento, richieste di asilo, frontiere. Gli sconvolgimenti di quelle vite sono una meteora improvvisa, senza cause apparenti ma con effetti devastanti.