A ll’esotico nome di Byung Chul Han risponde un filosofo coreano di cinquantanove anni, dal curioso passato di studi tecnici (metallurgia) effettuati in patria, a cui si è affiancata una più classica formazione letteraria portata a termine in Germania (Friburgo), dove Han ha studiato filosofia, teologia e letteratura tedesca. Attualmente Han è professore di Scienze della Cultura a Berlino presso la Universität der Kunste (UdK), letteralmente “Università delle arti”, un interessante esempio di come in Germania si sia tentato di coniugare l’ambito della formazione universitaria superiore con quello artistico e performativo, senza rinunciare a un solido impianto teorico.
Han, oltre a essere professore, è anche scrittore infaticabile: ha all’attivo più di venti monografie, dedicate a temi anche molto diversi tra loro, che vanno dagli studi filosofici più “di settore”, dedicati ad autori come Hegel e Heidegger, a quelli più vicini alla sua provenienza geografica, legati alla filosofia del buddhismo zen o a concetti specifici come quello di “Shanzai”. I testi che però hanno dato ad Han maggiore notorietà sono quelli più propriamente di critica culturale. Han, infatti, principalmente a partire dal 2010, con la pubblicazione de La società della stanchezza (edito, con grande successo, nel 2012 da Nottetempo, editore che poi ha dato alle stampe la maggior parte delle, ormai molte, traduzioni italiane di questo autore) ha incominciato a portare avanti una critica a molti aspetti specifici della società contemporanea. Ponendosi sulla scia di autori famosi del panorama filosofico tedesco del secolo scorso (in particolare quelli che facevano capo alla “Scuola di Francoforte”, che per prima ha portato avanti un’analisi critica sistematica della cosiddetta “industria culturale”, vale a dire dei sistemi di produzione e diffusione non solo dei prodotti di consumo, ma anche dell’immaginario ad essi connesso) Han ha sviluppato un’analisi critica durissima dei ‘processi di soggettivazione nell’epoca del digitale’, ossia dei modi in cui, nella società contemporanea, noi tutti diventiamo i soggetti che siamo.
Per spiegare quest’idea apparentemente paradossale, vale a dire che soggetti non si nasce, ma si diventa, Han parte da un presupposto: i soggetti (ossia le persone che tutti noi siamo), non sono ciò che sta all’inizio, ma il risultato di una catena di processi che non ci sono immediatamente visibili. Quello che io vedo, e che noi – a livello di soggetto collettivo – vediamo, è il risultato delle reti mediali, dell’educazione, dell’informazione, della pubblicità, della cultura stratificata nei secoli che viviamo camminando nelle nostre città, dei valori trasmessi dalle nostre famiglie. In quanto risultato, il soggetto che io sono e che noi siamo, può essere influenzato: se si aggiungono elementi o se ne sottraggono alla formazione della nostra soggettività, se si cambiano i contesti, la quantità e la qualità dei rapporti interpersonali che abbiamo, i media con cui abbiamo a che fare, di conseguenza, abbiamo anche un soggetto diverso, sia a livello dei singoli individui, che a livello della collettività.
Per questo Han analizza temi come la trasparenza, la stanchezza, l’eros o l’“altro”: perché questi temi, comuni anche alle epoche passate della storia della nostra civiltà, nell’attuale epoca della società digitale sono diventati qualcosa di completamente nuovo.
Essi, infatti, sono diventati l’oggetto e il referente principale di quella che Han ha chiamato “psicopolitica”, vale a dire una politica che si attua tramite gli strumenti di comunicazione di massa e che va a incidere sulla nostra psiche, modificandone le categorie senza che questo sia un processo di cui noi siamo coscienti. Se quindi (per riprendere alcune delle categorie che abbiamo anticipato), in passato la trasparenza era un valore, oggi essa diventa un’ossessione che maschera un’assenza di contenuto e un obbligo nei confronti dei grandi gestori di dati digitali; se prima la stanchezza poteva anche essere un elemento positivo (ad esempio come il risultato di un duro, ma soddisfacente, lavoro), oggi essa è una costante onnipresente: il lavoratore, non avendo più orari né luoghi di lavoro fissi, è costantemente oggetto e soggetto di prestazione e quantificazione. Questi sono solo alcuni dei temi che trovano spazio nel libro di Han Nello sciame. Visioni del digitale, uscito per Nottetempo nel 2015 in una bella traduzione a cura di Federica Buongiorno. Con la parola “visioni” del sottotitolo Han indica al lettore il tenore delle riflessioni esposte nel libro: più che di “argomentazioni” o di “analisi” rigorosamente filosofiche, il genere a cui appartiene il libro in questione è – appunto – quello delle “visioni”, scenari in cui il rigore argomentativo lascia il passo alla perentorietà della tesi descrittiva. Han, infatti, non si ripropone di analizzare il digitale, ma di dirci cosa esso è, secondo la sua visione, senza troppi filtri argomentativi o teoretici.
Gli argomenti trattati in Nello sciame – tutti da collocarsi nella grande cornice della critica ai media digitali – sono i più disparati: da considerazioni sul tema del “rispetto” nell’epoca di Facebook fino a una revisione della celebre definizione di “sovranità” data filosofo e giurista tedesco Carl Schmitt, secondo cui il sovrano sarebbe “colui che decide sullo stato d’eccezione”. Per Han, nell’epoca dei digital media, sovrano non è più chi prende la decisione dirimente in un momento di crisi politica, ma chi è in grado di sollevare ondate di diffamazione dall’immediata diffusione virale a livello mediatico.
Ma che cosa è, nello specifico, lo “sciame” che dà il titolo al libro?
Secondo Han gli agglomerati umani che vivono nel mondo contemporaneo, un mondo che è il risultato della diffusione globale dei media digitali, non possono essere descritti in maniera adeguata né dal concetto di “folla”, né da quello utilizzato normalmente di “società”. L’unico termine veramente adeguato è quello di “sciame”: come lo sciame di insetti, la società contemporanea è formata da individui isolati pur nella loro interconnessione; essa non ha né anima né spirito, non forma alcuna comunità, non è un “noi”. Questo divenire-sciame dell’individuo contemporaneo, segna anche la fine delle cosiddette “scienze dell’uomo”: la filosofia per prima. Il comportamento dell’individuo nello sciame, infatti, non ha più bisogno di uno studio che ne comprenda la personalità, l’unicità, l’individualità.
Per essere oggetto di una previsione verosimile è sufficiente che il suo comportamento venga analizzato tramite i mezzi della statistica e del calcolo delle probabilità: in questo modo la filosofia e le scienze umane lasciano il posto ai modelli matematici di previsione del comportamento delle masse in virtù dei dati acquisiti su di essi tramite i mezzi digitali.
Riassumendo: il “perché” di una persona e di un evento perdono la loro importanza, quando si sa – e si può prevedere con un determinato grado di certezza – il “come” di un evento.
Le visioni del digitale di Han sono un libro oscuro, pieno di immagini potenti, spunti acuti – a tratti apocalittici. Essi rappresentano sicuramente uno dei volti della società fortemente massificata e digitalizzata in cui viviamo. La sfida che rimane al lettore è – una volta preso atto dello sciame in cui viviamo – quella di trovare i mezzi per non cedere al pessimismo, e per costruirsi una nuova identità, che non sia quella totalmente bidimensionale dei media, ma che non si ritragga neppure su posizioni anacronisticamente tecnofobiche, ormai impossibili non solo da assumere, ma anche da difendere, nel nostro mondo attuale.