I l matrimonio del principe Harry e di sua moglie Meghan Markle avrebbe conquistato un’audience globale di circa due miliardi di persone; attratti, almeno per qualche minuto, dai fasti dell’ultimo grande avvenimento di casa Windsor. Tra gli spettatori, ci sarà stato probabilmente anche quel 17% di abitanti della Gran Bretagna che – stando a un sondaggio Ipsos – vorrebbe che il Regno Unito smettesse di essere una monarchia per diventare una repubblica.
Una percentuale decisamente minoritaria, che si raccoglie attorno a una no profit chiamata semplicemente Republic e che ha dalla sua motivazioni difficilmente confutabili: la monarchia è un anacronismo; un sistema non democratico, kitsch, che annulla qualsiasi forma meritocratica attraverso l’ereditarietà e, soprattutto, molto costoso. Mantenere i Windsor costa ai contribuenti britannici qualcosa come 384 milioni di euro ogni anno; molto, molto più del costo medio attribuibile alle presidenze della Repubblica europee (quella tedesca, per esempio, costa circa 35 milioni di euro) e molto più anche delle altre monarchie del Vecchio Continente, che in alcuni casi sono abbastanza economiche (quello spagnola costa solo 10 milioni di euro; ma anche le monarchie di Lussemburgo, Belgio, Danimarca e Svezia risultano essere equiparabili, in quanto a spesa, a una normale Repubblica).
Perché mai – nel XXI secolo, in un’Europa che sotto molti aspetti è all’avanguardia per quanto riguarda le tematiche socio-politiche – dovremmo tollerare di mantenere una casta di nobili che godono di incredibile agiatezza senza aver fatto nulla per meritarsela e che, tra l’altro, svolgono una funzione pubblica quasi solo ornamentale? “Un re (tradizionalmente) è una persona legittimata a governare e investita della sovrana autorità su un territorio e le sue persone. È una singola figura che gode del diritto di governare sulla nazione”, scrive il direttore del think tank britannico ResPublica Philip Blond. “Da questo punto di vista, un presidente o un primo ministro è un monarca che differisce solo nel principio di selezione che gli conferisce quel particolare ruolo. (…) Non abbiamo rimpiazzato la monarchia con la democrazia; ma dei monarchi ereditari con altri che vengono eletti”.
Ma non è proprio questo il punto? Un merito cruciale della Repubblica è quello di eliminare l’insopportabile privilegio dell’ereditarietà con cariche elettive e che quindi vanno conquistate sul campo da persone meritevoli. Le cose, però, non sono così semplici: “A meno che non ci siano poteri che rappresentano interessi altri rispetto a quello di una maggioranza temporanea e spesso manipolata, saremo sempre dominati da un contesto di superiorità elettorale; determinato dall’illimitato potere dei vincitori”, prosegue Blond. Un punto sottolineato con forza anche da uno dei più noti monarchici italiani, Domenico Fisichella (docente universitario e fondatore di Alleanza Nazionale – senza mai essere stato di simpatie fasciste – nonché ex ministro ai Beni Culturali nel primo governo Berlusconi), che, nel suo Elogio della Monarchia scrive: “(…) Per la democrazia repubblicana l’assolutismo è nelle sue stesse premesse dottrinali e persino antropologiche, non riconoscendo la democrazia repubblicana altro titolo potestativo salvo il numero, la conta dei voti. La vocazione monistica è dunque, in principio, più forte e più coerente nella democrazia repubblicana che nella monarchia”.
Un’obiezione che si può subito contrapporre a chi denuncia la tirannia della maggioranza insita nel dna stesso delle repubbliche è, ovviamente, la presenza nella maggior parte degli ordinamenti democratici e repubblicani della figura del presidente della Repubblica. Figura terza e imparziale che – sia nel caso in cui sia eletto direttamente, come avviene in Irlanda o in Finlandia; sia nel caso in cui sia eletto dal Parlamento (come avviene in Italia) – svolge proprio quel ruolo super partes e di arbitro che, per sua stessa natura, deve restare fuori dalle beghe della politica quotidiana per garantire il rispetto della Costituzione; carta che in molti casi sottolinea esplicitamente la necessità di impedire una dittatura della maggioranza. Davvero, però, il presidente della Repubblica rappresenta una figura assolutamente terza e imparziale?
Sembrerebbe supportare la tesi anche uno studio condotto da due docenti di Scienze Politiche di Oxford, Petra Schleiter e Edward Morgan Jones, secondo i quali i presidenti della Repubblica (che siano o meno eletti direttamente) sono molto più propensi a permettere l’instaurazione di nuovi governi senza passare da elezioni anticipate di quanto siano disposti a farlo i monarchi. Una pratica legittima (visto che, nelle repubbliche parlamentari come la nostra, si elegge il Parlamento e non il governo) che però, se abusata, può provocare una certa avversione nel corpo elettorale (come abbiamo ampiamente visto, negli ultimi anni, con il mantra dei “premier non eletti dal popolo”).
Le statistiche portate dai due docenti di Oxford parlano chiaro: nelle repubbliche in cui il presidente è scelto direttamente dagli elettori, il 49% dei nuovi governi si instaura attraverso i cosiddetti rimpasti e ribaltoni; trovando spesso maggioranze alternative disposte a sostenere il nuovo esecutivo (senza passare da nuove elezioni). Nel caso dei presidenti eletti dal Parlamento, questa percentuale scende al 37%; ma nelle monarchie costituzionali la cifra crolla letteralmente al 17%, mentre cresce moltissimo la percentuale di governi che arrivano a naturale scadenza del loro mandato (55%, contro il 37-42% degli ordinamenti repubblicani) e anche la percentuale di elezioni anticipate (28%, contro il 21-14%).
E quindi, le monarchie costituzionali – stando a questi numeri – non solo garantirebbero una maggiore stabilità, ma avrebbero anche un maggiore tasso di democraticità; rappresentato dalla propensione a indire elezioni anticipate rispetto ai famigerati rimpasti e/o ribaltoni. Ma perché avviene questo? Secondo il Washington Post, per una ragione apparentemente paradossale: “La chiave del successo dei monarchi è che sono del tutto non legittimati dal voto. Il popolo non si schiererebbe mai dalla parte della Regina Elisabetta se esercitasse un effettivo potere politico solo perché è figlia di suo padre. Questo è un deterrente molto potente, che trattiene i monarchi dall’immischiarsi nella politica quotidiana”. Di conseguenza, se un governo riceve la sfiducia del parlamento, i monarchi (che hanno poteri diversi tra loro, ma che – come visto recentemente nel caso spagnolo e frequentemente in quello britannico – non sono certo figure ornamentali) sono molto più propensi a indire nuove elezioni; laddove un presidente della Repubblica cercherà quasi naturalmente di formare un nuovo governo senza sciogliere le camere. “La monarchia sostiene il processo democratico mescolando alla democrazia un potere diverso”, scrive ancora Philip Blonde.
Forse è anche per questa ragione che, nel mondo e in Europa, le monarchie sono ancora diffuse. Il 22% delle 193 nazioni rappresentate alle Nazioni Unite sono monarchie; di questi 43 paesi, però, ben 16 (tutti parte del Commonwealth) sono soggetti alla corona britannica; mentre sono solo 7 le monarchie assolute ancora esistenti nel mondo (tutte nei dintorni del Golfo Persico, con le sole eccezioni del Vaticano e dello Swaziland, regno africano con un milione di abitanti).
E in Europa, quali sono le monarchie? A parte il Regno Unito e la Spagna, troviamo il Belgio, la Danimarca, il Liechtenstein, il Lussemburgo, la Norvegia, i Paesi Bassi, Monaco e la Svezia. Un elenco che fa un certo effetto, visto che ne fanno parte alcune delle nazioni considerate tra le più evolute del mondo. Una sensazione confermata, a livello globale, anche dai dati: sette dei dieci paesi con la migliore qualità della vita – secondo le Nazioni Unite – sono monarchie; fanno eccezione solo la Svizzera, la Germania e la Finlandia.
Se non bastasse, è stato calcolato che le monarchie costituzionali hanno un prodotto interno lordo medio di circa 30.000 dollari e un’aspettativa di vita di 75 anni; mentre le repubbliche si fermano a soli 12.000 dollari e a un’aspettativa di 68 anni. Ovviamente, questo non significa che il merito della ricchezza sia da cercarsi nella monarchia; ma questi dati, come minimo, stridono con l’idea che le monarchie siano antiquate, dei relitti del passato di cui sbarazzarsi il prima possibile.
Quanto detto finora, però, non risolve uno dei principali problemi (almeno da un punto di vista etico-democratico): è giusto che una carica importante come quella di capo dello Stato – che assume un ruolo cruciale nei momenti di crisi – venga rivestita da persone che non hanno altri meriti se non quello di appartenere a una certa casata nobiliare, e che venga rivestita per tutta la vita? Secondo Domenico Fisichella, sono proprio questi aspetti che depongono a favore della monarchia costituzionale: “La monarchia ereditaria sottrae il vertice dello Stato al conflitto delle elezioni ricorrenti e ai relativi do ut des. Risolve in maniera automatica e comparativamente pacifica il problema, cruciale in ogni sistema politico, della successione al più alto livello statuale. Incarna, con la sua continuità, la collaborazione delle generazioni. [Consente] la proiezione nei tempi lunghi, la costanza delle grandi direttrici e dei supremi e permanenti interessi nazionali, mentre la politica democratica repubblicana è condannata dalla sua stessa intrinseca struttura alla proiezione e all’esaurimento nei tempi brevi, nell’immediatezza, improvvisazione (…) e contingenza di interessi, aspettative e domande particolari”.
Tutto questo è reso possibile – secondo i sostenitori della monarchia costituzionale – proprio perché il re o la regina sono in carica a vita ed estranei alle dinamiche politiche quotidiane; una situazione che non si presenta né nelle repubbliche democratiche, né nelle dittature repubblicane, né (ovviamente) nelle monarchie assolute. La Regina Elisabetta, in carica da 66 anni, ha regnato in tempo di pace e di guerra, di prosperità e di povertà, con governi conservatori e progressisti; offrendo quindi una continuità capace, come scrive il docente di Relazioni Internazionali John Reese, “di unire un popolo nel tempo e attraverso le generazioni”; sfruttando nei momenti di necessità il suo soft power per indicare la “retta via” ai politici di turno o ispirare la popolazione nei momenti più difficili.
Per quanto invece riguarda l’ereditarietà, Domenico Fisichella fa notare come sia proprio la successione dinastica che consente di preparare, attraverso l’educazione, i futuri monarchi fin dalla più tenera età (un aspetto fortemente sottolineato anche nella serie tv The Crown). Non solo, la questione dell’ereditarietà non riguarda solo le monarchie: famiglie di imprenditori (basti pensare ai Berlusconi), di politici (i Bush e i Kennedy), di editori (i Murdoch o i Feltrinelli) e altre ancora si tramandano il potere per via dinastica; semplicemente senza che la cosa sia ufficializzata com’è nel caso della monarchia
D’altra parte, qualcuno pensa davvero – nell’epoca di Donald Trump presidente – che le elezioni offrano una garanzia di competenza e sicurezza superiore all’ereditarietà? In uno dei passaggi più indigesti e anti-democratici del suo pamphlet, Domenico Fisichella sembra scagliarsi direttamente contro il processo elettorale e criticare le fondamenta stessa della democrazia repubblicana: “Basta osservare l’andamento e il risultato delle campagne e competizioni elettorali nelle democrazie di massa per rendersi conto dell’immenso rilievo che vi assumono, anche statisticamente, gli elementi di casualità e ‘non logicità’. Gli studiosi del comportamento di voto sanno bene quali e quante motivazioni spesso assurde, anche contraddittorie, banali, epidermiche oppure acriticamente persistenti, pesano potentemente nelle scelte degli elettori. Al confronto, il principio ereditario è un capolavoro di coerenza razionale”.
Al di là delle asperità di un discorso del genere, non si può escludere che la presenza di una figura in carica a vita, nel corso dei decenni, possa fungere da principio equilibratore nelle continue e rapidissime mutazioni dello scenario politico odierno; offrendo un elemento di stabilità che i presidenti della Repubblica difficilmente possono rappresentare.
I monarchici, in definitiva, ritengono che la monarchia costituzionale possa rafforzare la democrazia, temperare le asperità del processo elettorale e offrire un simbolo in grado di unire la nazione. Una posizione sostenuta anche da figure fondamentali della nostra nazione, come può essere quella di Luigi Einaudi. Il secondo presidente della Repubblica (come il suo predecessore Enrico De Nicola e non pochi successori, compreso Oscar Luigi Scalfaro) era infatti di simpatie monarchiche, tanto da votare per la conservazione della monarchia nel referendum del 1946. In un articolo pubblicato su L’Opinione il 24 maggio 1946 per spiegare le ragioni della sua scelta, riportava le parole che i soldati spagnoli rivolgevano ai nuovi Re ai tempi della “reconquista” della penisola iberica ai danni dell’impero musulmano omayyade: “Se tu sarai Re per difendere noi e le nostre libertà, noi ti saremo fedeli, perché saremo, così facendo, fedeli a noi stessi, ai nostri avi e ai nostri figli. Ma se tu non sarai il Re che noi vogliamo, sappi che non basterà più l’oblio dell’esilio volontario a lavare le tue colpe”.
“Così e non altrimenti ha il dovere di parlare chi si accinga a dare il suo voto per la conservazione della monarchia”, concludeva Luigi Einaudi. Esattamente 24 mesi dopo, Einaudi giurava fedeltà sulla Costituzione della Repubblica Italiana. Chissà se, in cuor suo, riteneva comunque che la monarchia sarebbe stata un’opzione migliore.