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ianluca Nicoletti è un intellettuale a tutto tondo, un giornalista “organico”: dal passato in Rai come cronista itinerante, critico televisivo e pioniere del digitale nel campo (non solo) radiofonico, con il programma di culto Golem, fino all’approdo a Radio 24 con Melog e la collaborazione con La Stampa. In mezzo tanti libri, e anche un disco. Ha due figli, di cui uno, Tommy, autistico. Anche per questo motivo si batte da più di dieci anni per i diritti dei ragazzi autistici e per fare divulgazione sul tema, con il blog Per noi autistici e attraverso il documentario Tommy e gli altri.
Nicoletti ha da poco pubblicato Io, figlio di mio figlio, edito da Mondadori, giunto alla seconda edizione dopo pochi giorni. Nel libro racconta di come abbia recentemente scoperto di essere a sua volta autistico. “Mi sono volontariamente sottoposto a un’analisi del cervello approfondita, facendo test, visite psichiatriche, esami”, spiega Nicoletti. “Faccio anch’io coming out, confesso che sono autistico. Questo significa che ho un cervello diverso dalla regola, me l’hanno certificato e ne sono pure orgoglioso”.
Come, quando e perché ha deciso di cominciare questo iter diagnostico?
Be’ dal momento che mi mettono il tarlo mi sono incuriosito, e io sono abituato ad andare fino in fondo alle cose. Come se fosse un ginocchio lesionato; solo che io mi sono fatto misurare il cervello – nulla di strano. Così come in passato mi sono fatto vedere i polmoni, ora mi sono guardato il cervello. E questa diagnosi, la mia “patente autistica”, è stata funzionale per scrivere un nuovo libro, nuovo davvero: perché qui il punto di vista si ribalta. È come se Tommy guardasse me, e non più io lui. È un testo che cerca di far vedere la realtà sotto un punto di vista più articolato.
Qual è lo stato attuale della divulgazione sull’autismo?
Io da giornalista racconto “semplicemente” che cosa accade nell’autismo e soprattutto cerco di sconfessare le baggianate esoteriche delle numerose tribù socialmediali. C’è molto dilettantismo e ipocrisia in giro, che porta a vedere le famiglie di autistici come possibili clienti da spremere. Tutto ciò che concerne l’autismo è in qualche modo intriso di “medievalismo”: crediamo ancora nei miracoli e invece è importante comprendere che non esiste una cura… Certo, esistono i trattamenti riabilitativi che si concentrano sul comportamento, se il caso è preso in maniera precoce – ma, al momento, non c’è nessuna soluzione definitiva. È così.
Questo è un problema molto serio. La scienza ha perso il suo carattere ieratico: quando io ero piccolo la scienza era un mito – i bambini sognavano di diventare, da grandi, scienziati… Oggi non è più così – la scienza è sempre più vista come qualcosa di troppo lontano dall’uomo comune e dalla vita quotidiana. Ma non è un problema squisitamente italiano, anzi, noi arriviamo sempre qualche anno dopo. Queste gilde sciamaniche digitali che imputano l’autismo ai vaccini o che organizzano i folli “varicella party” nascono negli Stati Uniti. I social media hanno poi esacerbato tutto il meccanismo. In Italia hanno attecchito molto bene perché siamo un popolo di creduloni, onusti di santi, santini e santoni. Crediamo solo a ciò che vogliamo credere – perché ci fa stare bene.
Io, figlio di mio figlio è un libro piacevole alla lettura ma che tratta di un tema di grande attualità – la divulgazione della conoscenza di questo disturbo del neurosviluppo. Sembra al tempo stesso un libro lavorato, pregno di labor limae, eppure nato di getto.
È un libro illuminista e romantico allo stesso tempo, che parla di scienza ma non in modo “scientifichese”. Come sempre ho voluto affrontare il problema con razionalità, in questo periodo di ritorno diffuso a una specie di sciamanesimo medievale. Ho voluto spiegare che la neurodiversità è un fatto che interessa l’umanità tutta. Dobbiamo slegarci dalla superstizione ma soprattutto non rassegnarci mai all’esclusione. Il libro parte proprio dal mio scoprirmi parte di un’altra umanità: è il mio coming out cerebrale. Puoi asserirlo con orgoglio o celarti dietro qualche maschera. Io ho scelto la via della sincerità e della schiettezza. Noi siamo dei cervelli ribelli – diversi – da sempre bullizzati da persone e da etichette sociali. Questo libro è per noi.
Com’è arrivato dai racconti sull’autismo di Tommy al coming out?
È stato un percorso: è il mio terzo libro sull’autismo, una specie di compendio dove cerco di allargare il punto di vista sull’attualità per capire come si declina lo spettro della preclusione relazionale nel contesto ipertecnologico in cui tutti possono dire la loro. Quando ho scoperto di essere autistico anche io, allora, ho dato un nome ai miei fatti. Ma questo non mi cambia nulla. È un problema molto diffuso e bisogna farlo capire. È importante uscire dall’idea che si tratti di uno stato patologico – perché si tratta di uno stato d’essere, quasi esistenziale. Il discrimine tra uno stato patologico è l’autonomia. È la differenza che sussiste tra me e mio figlio Tommy (che non può mai essere lasciato solo). Un po’ come lo scarto tra un daltonico e chi vede in modo normale: noi neurodiversi possediamo nuances diverse dagli altri e ci mancano alcuni strumenti di fluidità sociale.
Che cos’è l’autismo per lei?
Parafrasando quello che dico nel libro, il rapporto con l’autismo è come cercare di carpire la trama di un film che viene proiettato alle tue spalle dalle reazioni di chi sta seduto in prima fila in platea, senza potersi girare.
Cosa può fare chi volesse dare il suo personale contributo?
Purtroppo se ci fosse un modo moderno per risolvere la questione sarebbe tutto più facile. Ma la realtà è che raccontare lo spettro dell’autismo è davvero problematico proprio per questa sua natura ectoplasmatica… Se si trattasse di salvare dei cuccioli ci sarebbe la fila, ma ahimè la questione è più complessa. E qui si ritorna alla domanda precedente: parlare di autismo è complesso perché non esiste un autismo unico… è come se non esistesse perché ne esistono troppi. Ogni cervello è unico e ognuno ha il suo universo personale. Ma il pachiderma del conformismo purtroppo impedisce alla cultura dell’autismo di uscire dalle proprie pastoie.
La sezione del libro per me più avvincente è la pars costruens, dove si tratteggia il mondo del futuro come tecnologicamente autistico. Perché il futuro è autistico?
Perché grazie alla tecnologia andiamo sempre più verso una società distante ma iperconnessa allo stesso tempo – un contatto mediato e non fisico, come piace a noi. Il futuro procederà sempre più veloce ma a una velocità diversa, che ora non possiamo forse ancora comprendere. Il futuro sarà anaffettivo e individualista, proprio come noi; perché decideremo noi quali legami mantenere e quali spezzare. Non più ossequi alle catene sentimentali imposte dall’alto. Ovviamente sarà un cambio epocale, ancorché diluito nel tempo; non è possibile imporlo, inculcarlo nei crani delle persone. I prodromi devono essere lanciati dall’arte, dalla poesia… Anche per questo motivo mi batto così vigorosamente per il riutilizzo sociale del Casale delle Arti a Roma. È una situazione molto triste: la mia idea era di riutilizzare questo casale abbandonato all’interno del Parco di Monte Mario, nel centro di Roma,
per un progetto alternativo all’internamento degli autistici – cercando di affrontare l’autismo in modo non clinico e coinvolgendo anche il MIUR e l’Università di Tor Vergata, ma purtroppo le istituzioni rimangono miopi alle soluzioni eterodosse… Serve comunque qualcuno che gridi al cielo questa profezia fin da ora. E questo libro vuole rappresentare proprio quell’urlo.
I maligni potrebbero pensare a una posa, un’originalità imposta.
Al contrario, questo libro (così come gran parte della mia produzione pubblica) cerca di scardinare l’eterodossia di maniera seminando quegli sguardi laterali che da tempo vado coltivando. È una diversità intrinseca quella che ci portiamo dentro, e non un ludus momentaneo. È un messaggio forte verso i bulli di scuola e di tastiera; anzi, più ancora ai lacchè dei bulli: il vero male della società. Coloro che per non essere bullizzati a loro volta preferiscono fare da portaborse ai facinorosi piuttosto che prendersi le mazzate.
All’interno del libro viene citato un verso del grande poeta nicaraguense, Rubén Darío, che recita “Dichoso el arbol que es apena sensitivo”. Fortunato l’albero, perché sente appena.
È una poesia bellissima che mi è venuta in mente ora dopo tantissimi anni, cascame di alcuni studi universitari… Dobbiamo prenderlo come suggerimento, io almeno la vedo così. “
Per noi autistici” [
titolo del blog di Nicoletti sul tema autismo] è un sogno, ci faciliterebbe non poco l’esistenza. Per i neurotipici deve essere un monito per il futuro. Come già detto, la società di là da venire sarà per forza di cose più fredda e anaffettiva – gli schermi (di tutti i tipi) regoleranno il flusso emozionale dei nostri cervelli. Digitalizzare è razionalizzare. E così saremo più vicini agli alberi, “
apena sensitivi”.
Il ragionamento prosegue così: “Quando c’è accordo niente da ridire, ma che io debba soffocare la noia, il disprezzo, il disagio profondo che provo nella co-affettività coatta con altri esseri umani, che tra l’altro io non ho mai volontariamente e liberamente scelto, fa secondo me parte di un atavismo di cui occorre liberarsi […]”.
È il solito adagio: non abbiamo scelto i nostri affetti, ci vengono imposti. Invece dovremo imparare sempre più dagli autistici e dai cervelli ribelli, a scegliere solo chi o cosa ci fa dimenticare anche solo per un attimo l’oscurità.
Quali reazioni suscita il libro?
Ha fatto incazzare molte famiglie di autistici ma ha anche avvicinato al tema chi prima non ne era a conoscenza. Delude i cronisti in cerca di storie lacrimevoli ma intriga lo spirito libero che in queste pagine trova cibo affine al suo. È importante, per scoprire che siamo molto più di quanto si pensi.