I l pomeriggio del 5 novembre 2017 piazza Tribunale a Bolzano è un tappeto di ombrelli spalancati. Una pioggia fitta e pesante cade sulla città che non vedeva una simile giornata di maltempo da più di un mese. L’umidità penetra nelle ossa, scuotendo i corpi con i brividi del primo, vero freddo. Gli ingredienti per una domenica casalinga, di quelle da passare seduti sul divano con una tazza di tè fumante, ci sono tutti. Eppure, un centinaio di persone ha deciso di sfidare il maltempo, e poco prima del tramonto s’è radunata sotto il grande fregio che campeggia sul palazzo degli Uffici finanziari.
Dal palco alla destra dell’edificio, suonate dall’orchestra Haydn, le note dell’Adagio for strings di Samuel Barber riempiono la piazza. Rapido, il sole scende alle spalle del profilo squadrato del monte Macaion. Una luce s’accende, illuminando la piazza tra le gocce. La frase “nessuno ha il diritto di obbedire”, scandita in italiano, tedesco e ladino, campeggia ora al centro del fregio sovrapponendosi al profilo di Benito Mussolini. E mentre dal palco si susseguono letture in tedesco, ladino e italiano, tra le persone si fa strada la convinzione che sia valsa la pena affrontare la pioggia.
La cerimonia a cui stiamo assistendo, stretti sotto gli ombrelli, è un momento che lascerà un segno nel complesso rapporto che questa terra ha con i lasciti architettonici del fascismo. Una storia di cui è bene ripercorrere le tappe principali, prima di vedere come può essere gestita.
La nascita di due monumenti controversi
A Bolzano e in Alto Adige l’urbanistica e l’architettura furono strumenti del colonialismo interno che il fascismo usò per italianizzare i territori irredenti, strappati all’Austria più a suon di carte bollate che di cannonate dopo la prima guerra mondiale e che, per storia e cultura, erano da molti anni parte della Mitteleuropa.
Con la fine della dittatura, i monumenti e gli edifici voluti dal fascismo sono diventati motivo di duri scontri tra i tedeschi e gli italiani che vivono nella provincia autonoma di Bolzano. In città questa eredità così complicata da gestire è costituita soprattutto dal Monumento alla Vittoria e dal fregio intitolato “Trionfo del Fascismo”. Progettato da Marcello Piacentini, il primo venne inaugurato solo due anni dopo la posa della prima pietra, il 12 luglio del 1928, in occasione dell’anniversario della morte dell’irredentista trentino Cesare Battisti. A lavorare all’opera furono chiamati alcuni tra i più famosi e importanti artisti del periodo: Libero Andreotti, Arturo Dazzi, Guido Cadorin, Giovanni Prini e Adolfo Wildt. L’edificio è al tempo stesso un sacrario dedicato ai caduti della prima guerra mondiale, un concentrato di retorica fascista usata per italianizzare l’Alto Adige e la porta d’accesso alla nuova “Bolzano italiana”.
Il secondo, opera dello scultore sudtirolese Hans Piffrader, campeggia sul frontone del palazzo degli uffici finanziari, di fronte al tribunale di Bolzano. Lo compongono 57 formelle, per un totale di più di 200 metri quadrati di marmo. Al centro, circondata dagli slogan del fascismo, giganteggia l’enorme figura del duce a cavallo, che per qualcuno rappresenta l’episodio della “spada dell’Islam”, quando a Tobruk, nel 1937, Mussolini venne proclamato protettore dell’Islam.
Realizzata tra il 1942 e la prima metà del 1943, l’opera rimase incompleta fino al 1957. Al momento di montarle, tre formelle alla destra di Mussolini erano state rimandate in officina perché difformi. Una volta completate, non si fece però in tempo a metterle al loro posto: era il 25 luglio 1943, il regime era caduto e mentre il governo di Badoglio incamerava i beni dello stato e il patrimonio del Partito fascista, il Trentino Alto Adige veniva inglobato nell’Alpenvorland nazista.
Del fregio non si parlerà più fino al settembre 1956, quando arriva a Bolzano una delegazione guidata dal presidente della repubblica Giovanni Gronchi per la fiera campionaria. Per l’Alto Adige si tratta di un periodo irrequieto, in cui vengono alla luce i primi sintomi dello scontro etnico che caratterizzerà la Provincia per più di un decennio. Risalgono a quest’anno i primi attentati dinamitardi compiuti dal gruppo Stieler. Nell’agosto dello stesso anno l’uccisione di un finanziere da parte di alcuni ragazzi Fundres, un paese della val Pusteria, contribuisce ad alzare la tensione. La visita del Presidente della Repubblica vuole così essere un segnale forte in un momento di scontro acceso tra istituzioni nazionali e la popolazione locale.
Il ministro dell’interno Fernando Tambroni inaugura la fiera con un discorso dai toni duri nei confronti delle istituzioni locali, a cui il partito politico locale Südtiroler Volkspartei (SVP) risponde indicendo una manifestazione per il 15 settembre, in concomitanza con l’inaugurazione del nuovo palazzo di giustizia. La manifestazione è vietata dalla prefettura e la giornata si conclude senza tensioni. Ma durante la cerimonia qualcuno fa notare a Gronchi che il bassorilievo di età fascista è incompleto e arriva così il “nulla osta” al completamento dell’opera, terminata l’anno successivo. A finire il Trionfo del fascismo di Bolzano è quindi un Presidente della Repubblica nata dalla resistenza a quel regime.
Casa Pound, l’SVP e il ministro Bondi
Il 5 marzo del 2011 a Bolzano sfilano duemila militanti di Casa Pound al grido di “Bolzano è Italia”. Marciando in cordoni ordinati di circa quindici persone, distanti una decina di metri gli uni dagli altri si snodano lungo un percorso che prevede quattro passaggi intorno a un quadrilatero di strade: via Cesare Battisti, il tratto finale di corso Italia che si apre su piazza Mazzini all’incrocio con corso Libertà, che viene percorso in salita fino a piazza Vittoria, dove il corteo sfila all’ombra del Monumento.
La scelta del percorso è altamente simbolica. Quella parte di città è uno dei lasciti più completi che il fascismo ha dato all’impianto urbanistico e architettonico di Bolzano: un pezzo di città che da sempre la destra italiana difende da ogni tentativo di rimozione. Poche settimane prima, il 26 gennaio, gli allora deputati della SVP Karl Zeller e Siegfried Brugger si sono astenuti durante il voto di fiducia che, con una risicata maggioranza, ha contribuito a mantenere Sandro Bondi al timone del Ministero dei Beni Culturali. La decisione fa a pugni con quanto dichiarato poco tempo prima dall’Obmann del partito Richard Theiner, secondo cui “sarebbe [stato] assurdo votare per un ministro che con il dispendioso restauro del Monumento alla Vittoria di Bolzano si è giocato ogni simpatia”. Per tutta risposta Bondi garantiva la rimozione di alcune opere fasciste dalle facciate di edifici bolzanini: una promessa vaga ma era chiaro che a essere nel mirino era il fregio di piazza Tribunale.
È a questo punto che l’equilibrio locale è stato compromesso, forse irrimediabilmente, a causa di due appelli pubblicati da storici locali. Il primo è promosso dall’archivio storico della città di Bolzano, il secondo da un gruppo di storici che gravita intorno all’associazione Geschichte und Region/Storia e regione. Entrambi si rivolgono alla politica e alla società civile, spingendo per un intervento sulle eredità monumentali del fascismo in grado di storicizzarne e problematizzarne il senso, senza evocare nuovamente i fantasmi del conflitto di identità che per decenni le avevano infestate. Sulla scorta di queste suggestioni ha avuto inizio un percorso che, negli ultimi 5 anni, ha portato la società altoatesina ad affrontare di petto la questione dei relitti del fascismo.
Il primo risultato di questo percorso è l’esposizione “BZ ‘15 – ‘45 un monumento, una città, due dittature”, inaugurata nel 2014 al Monumento alla Vittoria. Si accede attraversando il portale che conduce all’atrio e poi alla cripta, dove una scritta laser neutralizza l’iscrizione del fregio con frasi di Hannah Arendt, Bertolt Brecht e Thomas Paine.
Alla destra dell’ingresso della cripta ha inizio il percorso vero e proprio. Il perimetro interno dello spazio racconta la storia del Monumento e le sue vicissitudini, quello esterno contestualizza invece la storia della città e del territorio nel periodo compreso tra le due guerre mondiali. Al termine del percorso se ne ricava l’impressione di un’esposizione che non nega il valore artistico e architettonico dell’opera, ma che riesce al tempo stesso a contestualizzarla, mostrando i legami profondi e dolorosi che intrattiene col retaggio della dittatura. La realizzazione del percorso espositivo è stata approvata nel 2012 e curata da una commissione presieduta da Ugo Soragni, che tra gli altri incarichi ha svolto anche quello di direttore generale dei musei al ministero dei beni culturali.
“L’obiettivo della commissione”, spiega Soragni, “era storicizzare i contenuti ideologici, commemorativi e narrativi del monumento, in alternativa a qualsiasi intervento di natura materiale. Sono infatti convinto che i monumenti dei regimi autoritari o si abbattono subito dopo la loro fine, oppure questa opzione perde storicamente e culturalmente senso, e vanno trovate delle alternative capaci di spiegare ciò che il monumento rappresenta senza nasconderne gli aspetti artistici, qualora ci siano. Il punto di partenza”, continua il Presidente della commissione, “è stato riconoscere che il monumento non andava trattato come un oggetto isolato, ma doveva essere affrontato per tutto quello che rappresentava nel quadro più generale di un ammodernamento urbanistico della città”.
Il lavoro della commissione, tuttavia, non si è limitato a creare un racconto che collocasse l’opera di Piacentini nel contesto storico. Secondo lo storico Andrea Di Michele, “la volontà era di agire su due livelli: uno informativo e di approfondimento, uno simbolico. Il primo si è concretizzato nel percorso espositivo allestito negli spazi sotto al monumento. Il secondo è stato realizzato grazie a un anello luminoso installato sul colonnato esterno e alla scritta laser proiettata all’interno della cripta. L’anello, in particolare, segnala a tutti coloro che gli passano davanti che il monumento non è più lo stesso, che si è intervenuti sul suo corpo modificando la sua natura”.
Al momento dell’inaugurazione, i contenuti del percorso vengono apprezzati per equidistanza e oggettività da tutte le forze politiche, mentre l’anello LED risulta indigesto alla destra italiana, che lo paragona a un giocattolo sessuale. L’insofferenza contro di esso è tale che Alessandro Bertoldi, coordinatore provinciale dell’allora Partito della Libertà e vicino alla deputata Micaela Biancofiore,chiede a Vittorio Sgarbi di prendere posizione pubblicamente, sperando che il critico gli si scagli contro. La risposta è una doccia fredda: Sgarbi definisce i LED “tollerabili e sobri” ed elogia un’operazione che toglie al Monumento alla Vittoria il suo carattere divisivo, rendendolo vivo e accessibile per tutti. La via per intervenire sui relitti del fascismo a Bolzano e in Alto Adige, a quel punto, è tracciata e porta dritta all’installazione inaugurata il 5 novembre.
I bolzanini contro Hannah Arendt
In quattro mesi il percorso espositivo viene visitato da oltre 22.000 persone. Forte del successo politico e di pubblico, la Provincia decide proseguire il progetto di storicizzazione dei monumenti fascisti bandisce un concorso per realizzare un intervento analogo anche sul fregio raffigurante il “Trionfo del Fascismo”. A vincerlo è l’idea di due artisti locali, Arnold Holzknecht e Michele Bernardi, che propongono di apporre sul monumento una scritta luminosa con una citazione di Hannah Arendt: “Nessuno ha il diritto di obbedire”.
La frase, ripresa da Kant, ha la forza retorica per scavare una fessura nella monumentalità del bassorilievo. È in quella fessura, in quello scarto di senso, che lo spettatore è invitato a collocarsi per mettere in discussione il significato dell’opera, quel “Trionfo del Fascismo” che viene decostruito dalla riflessione sull’obbedienza della pensatrice tedesca. Il tutto evitando di intervenire pesantemente sull’opera, pur segnalando a chi la guarda che il suo ruolo e il suo significato sono cambiati. È un atto di montaggio, che la problematizza più che storicizzarla. L’intervento si pone così in continuità con il percorso espositivo sotto il Monumento alla Vittoria, espandendone il gesto più radicale, l’apposizione dell’anello di LED.
Anche in questo caso non sono mancate le polemiche, arrivate tanto dalla destra italiana quanto da quella tedesca. Per Il Primato Nazionale l’opera di Holzknecht e Bernardi è un gesto talebano che vuole “oscurare il bassorilievo di Mussolini”, mentre per Südtirol Freiheit quella di Hannah Arendt è solo la “citazione di una filosofa”.
La via bolzanina alla gestione dei monumenti fascisti
“Come mai in Italia restano ancora in piedi così tanti monumenti fascisti?”. Suona più o meno così la traduzione del titolo di un articolo della studiosa di cultura italiana Ruth Ben-Ghiat, uscito sul New Yorker nell’ottobre del 2017 e che per qualche settimana ha scatenato un acceso dibattito sul destino dell’eredità architettonica e artistica del ventennio. Tra le critiche più diffuse, quelle al rifiuto dell’iconoclastia espressa dall’accademia statunitense e la rivendicazione del valore artistico di alcune opere realizzate durante il ventennio. Quello che la studiosa americana si chiede è, piuttosto, perché queste opere possano restare ancora in piedi, senza che qualcuno ne metta in discussione il valore politico, al punto che il presidente del consiglio Matteo Renzi può annunciare la candidatura alle olimpiadi della città di Roma parlando sotto a un dipinto raffigurante “L’apoteosi del Fascismo”, senza che questo comporti alcuna domanda da parte dell’opinione pubblica.
L’articolo del New Yorker sul caso italiano prendeva spunto dal recente dibattito statunitense sulla rimozione delle statue dedicate agli “eroi” confederati della Guerra civile americana. In realtà però il caso di Bolzano è peculiare perché si basa su interventi capaci di rompere lo schema che vuole la demolizione come unica alternativa alla conservazione acritica, tracciano una strada originale per affrontare ogni genere di monumento politicamente controverso. Si tratta di interventi di grande originalità, come nota anche Carlo Invernizzi-Accetti in un pezzo d’opinione pubblicato sul Guardian, i quali, a detta di Ugo Soragni, “non hanno, al mondo, altri riferimenti di paragonabile rilievo” (e hanno ricevuto la menzione speciale nel Premio Museo Europeo 2016). Quella aperta a Bolzano è, insomma, una via originale per approcciare questo genere di controversie in un modo capace di disinnescarle senza dare alle parti in causa il pretesto per potersi definire vittime di un torto, perpetrando la spirale dello scontro frontale.