A intervalli regolari, a ondate sempre più alte, salgono l’indignazione e la preoccupazione nei confronti degli abusi della pubblicità. Sentimenti ben sintetizzati da questa frase:
Questi manipolatori, che lavorano sotto la superficie della vita americana, vanno insomma acquistando un potere di persuasione tale da costituire per l’intero paese motivo di allarme e oggetto di indagine.
Molti, leggendo questa frase, penseranno all’ultimo tsunami, e cioè al ruolo giocato da Cambridge Analytica nelle presidenziali americane, nel referendum inglese e, forse, anche nelle elezioni italiane. Manipolazione. Potere. Persuasione. Allarme. Indagine.
Le parole chiave sono queste e sono le stesse dal 1957, anno in cui Vance Packard pubblicò I persuasori occulti, cioè il libro da cui è tratta la citatazione. Un libro valido ancora oggi, poiché si chiede: “qual è la moralità di trattare gli elettori come consumatori, e per giunta come consumatori-bambini che cercano l’immagine del padre?” Packard ha ripreso e ampliato le sue tesi nel 1980, registrando con grande lucidità la trasformazione del target pubblicitario: “la Signora Maggioranza Media, la cocca della pubblicità di due decenni fa, è oggi la Signora Minoranza Media”. Dalla massa alle nicchie, con una profilazione sempre più precisa basata su posizionamenti sempre più distinti. La società di ricerca Eurisko ha iniziato a usare tecniche psicografiche per profilare il pubblico nel 1976.
Torniamo al 2018. Un ex dipendente di Cambridge Analytica rivela gli abusi compiuti dalla sua società per manipolare il voto basandosi – anche – su profili psicologici costruiti su dati di Facebook ottenuti forzando le regole dell’epoca. È successo davvero? Quanto è stato pesante l’abuso? Quanto ha pesato davvero sul voto? È così facile manipolare il nostro voto usando informazioni ottenute illegalmente? E se le avessero ottenute legalmente, cambierebbe qualcosa nel nostro giudizio? Felix Simon, tra gli altri, definisce Cambridge Analytica “un venditore di pozione magica”: per la scienza l’effetto di campagne pubblicitarie personalizzate basate su profili psicologici per far cambiare voto alle persone – anche agli indecisi – è tutto da provare.
Quello che però è certo è che nel 2018 continuiamo a provare lo stesso fastidio del 1957 nei confronti di una manipolazione dei nostri comportamenti che, proprio come in quegli anni, rimane tutta da dimostrare. È molto probabile che le domande del paragrafo precedente – domande senza risposta – facciano pensare che chi le fa sia a favore di Cambridge Analytica e di Facebook e dell’uso spregiudicato dei dati, semplicemente perché cerca di basare il ragionamento su un fatto e non su una percezione.
Torniamo alle parole di Vance Packard:
Il direttore dell’ufficio studi della maggiore agenzia pubblicitaria d’America dichiarò, ad esempio, nel 1956, che prima della guerra le persone «ad alto reddito facevano il bagno molto più frequentemente di quelle con reddito immediatamente inferiore, e cosi via fino all’ultimo gradino della scala». Ma da allora in poi i redditi sono saliti in misura considerevole per tutte le categorie, e oggi basterebbe persuadere i ceti meno abbienti a fare il bagno con la stessa frequenza riscontrata nelle classi ricche nel 1940 per determinare «un aumento sensazionale nella vendita del sapone».
L’idea da mettere in discussione non è che la pubblicità cerchi di farci fare qualcosa nell’interesse di chi la produce, spesso riuscendoci – questo è ovvio. L’idea da mettere in discussione è se la pubblicità – che sia di massa o profilata, che sia personalizzata e diretta o uguale per tutti e pubblica – ci faccia fare cose che noi, altrimenti, non avremmo mai voluto o desiderato, come nel caso del sapone e del lavarsi. Al di là delle facili battute – fate più pubblicità del sapone in metropolitana la mattina! – Packard, riecheggiato da tante persone in questi giorni, rivendica il “diritto all’intimità della mente” (nella versione originale usa la parola “privacy of our minds” già nel 1957) e all’irrazionalità: “Preferisco essere illogico di mia libera volontà, senza che nessuno mi ci induca con l’inganno”.
Quello che spaventa e che preoccupa (non solo perché sono una pubblicitaria) è che l’insofferenza nei confronti della pubblicità sembra rinascere a ogni ondata, prendendo la forma dei tempi: oggi ci ribelliamo alla pubblicità personalizzata dei social media, ma è una patina superficiale. Diciamo no sempre alla stessa cosa: non entrare nella mia testa. La preoccupazione per l’uso dei dati, per il microtargeting, per la personalizzazione, è la forma che prende oggi la stessa paura di sempre: non cercare di fregarmi. So scegliere da solo.
A questo giro, però, rischiamo due cose molto più gravi della “persuasione occulta”; una ha a che fare con il nostro ruolo nella società, l’altra con l’invadenza dei messaggi pubblicitari.
Il primo rischio che corriamo è di convincerci definitivamente dell’irrilevanza della nostra responsabilità personale. Abbiamo un gran bisogno di cattivi su cui proiettare i nostri comportamenti e di denunciare il loro ruolo nel farci fare cose che noi, altrimenti, mai. O meglio: siamo convinti contemporaneamente di poter ragionare con la nostra testa ma che non lo faccia nessun altro. Non vogliamo essere manipolati, ma non vogliamo neanche prendere in considerazione l’idea che Pinocchio segue Lucignolo perché ha voglia di andare nel Paese dei Balocchi, non perché è un burattino. Non siamo burattini: è ora di prenderne atto e di accettare che sì, i messaggi pubblicitari ci tendono una mano e ci invitano a fare cose che magari neanche immaginavamo di poter fare, ma no, non sono loro a farle al posto nostro. Siamo noi.
Il secondo rischio che corriamo, accecati dalla paura della profilazione basata su dati, è di non vedere che la pubblicità profilata è incredibilmente più rispettosa, utile e piacevole di quella di massa che, per funzionare, non può che banalizzare e ridurre tutto a media. La manipolazione non è implicita nella profilazione: la manipolazione è, come sempre, una responsabilità di chi la compie. Terrorizzati dal Grande Fratello (metafora che nel secolo scorso usavamo per la televisione, ma l’abbiamo già dimenticato) non consideriamo che vedere solo messaggi pensati per persone simili a noi è molto meglio che vedere solo messaggi pensati per persone della nostra età/sesso/classe sociale/CAP. Proviamo con un esempio: io ho 48 anni. Nel mondo della pubblicità di massa sarei il target perfetto per tinte per capelli, scarpe comode e terapie sostitutive per la menopausa. Nel mondo della pubblicità personalizzata vedo messaggi per scarpe da corsa, viaggi intorno al mondo e infradito.
Sono convinta che chi oggi si lamenta della profilazione e dichiara di non voler permettere a nessuno di usare i dati dei propri comportamenti si stia semplicemente lamentando della pubblicità in genere, come succede dal 1957. Basta saperlo.
Cambridge Analytica, travolta dallo scandalo, ha dichiarato bancarotta. Noi abbiamo deciso di credere che in realtà si è già reincarnata in una nuova società (che si chiama Emerdata, nome abbastanza inadatto al mercato italiano, in realtà creata nel 2017). Abbiamo un fatto: un fallimento. Abbiamo un’ipotesi: è solo make-up. Preferiamo credere all’ipotesi, perché è perfettamente coerente con il quadro generale.
E se i veri persuasori occulti fossero quelli che vogliono a tutti i costi convincerci che non siamo noi i protagonisti delle nostre scelte?