S imone Menegoi (1970) è curatore e critico d’arte; obbiettivo di questa intervista è definire alcuni aspetti del suo sguardo peculiare sul panorama contemporaneo. Laureatosi con una tesi sulla Recherche di Proust, il veronese Menegoi è un adepto di Bergotte, lo scrittore fittizio che adombra in parte Anatole France. Camminatore di argini fluviali e bevitore di tè nei Rosengärten svizzeri, Menegoi in passato è stato principalmente giornalista: ha recensito per un paio d’anni mostre d’arte contemporanea sulle pagine milanesi del Corriere della Sera, ha tenuto una rubrica prima sulla rivista Mousse (2006-08) e poi su Kaleidoscope (2009-12), ha scritto per numerose testate d’arte europee. Attualmente, oltre a curare regolarmente mostre in Italia e all’estero, scrive per Artforum e Art Agenda.
Nel 2017 ha curato un ciclo di tre mostre presso la Project Room di Fondazione Pomodoro, a Milano. Gli artisti invitati: Anna-Bella Papp, Alis/Filliol (duo d’artisti da situare “in un triangolo i cui vertici sono Medardo Rosso, il Pistoletto delle sculture figurative degli anni Ottanta e i film di mutazioni e metamorfosi corporee di David Cronenberg, Brian Yuzna e tanti altri”), Bruno Botella. Dai “frammenti di un fregio contemporaneo dedicato al Lavoro” al calco cranico, passando per la forma informe. Il 2018 invece è iniziato con la maestosa mostra dell’artista canadese Erin Shirreff presso il Salone Banca di Bologna a Palazzo de’ Toschi.
Parliamo di parole. “Scultura” (intesa non come singola opera, ma categoria artistica) è un termine che utilizzi sebbene sia “gloriosamente démodé”. Che ragionamenti sottende questa parola piuttosto desueta nella pratica contemporanea quando è citata in un tuo testo critico?
L’esempio che mi viene più facile citare, perché lo conosco meglio, è quello della fotografia. Da quando, nella seconda metà dell’Ottocento, gli scultori hanno cominciato a dirigere la ripresa fotografica delle loro opere (o a occuparsene in proprio, come Medardo Rosso e, più tardi, Brancusi) il problema classico del punto di vista in scultura ha finito per sovrapporsi a quello dell’inquadratura fotografica. Oggi, quando uno scultore come Giuseppe Gabellone – scultore nel senso tradizionale del termine, che intaglia, modella, fonde – realizza una serie di laboriose sculture figurative in ferro, le fotografa, e poi ne espone solo l’immagine (è la serie dei Senza titolo del 2007), non volta le spalle alla scultura per darsi alla fotografia, bensì, riprendendo il filo di un discorso cominciato un secolo e mezzo fa, usa la macchina fotografica per portare alle estreme conseguenze un’intuizione scultorea. Sceglie un punto di vista unico e lo assolutizza: conserva l’immagine, rinuncia all’oggetto. Il suo è un gesto che tiene conto della storia della scultura, ma è anche una riflessione sul suo presente; un presente in cui la dimensione aptica deve fare i conti con il flusso incessante di immagini digitali che costituisce il nostro orizzonte quotidiano.
Un’altra parola: medium. Ricordo che una volta citasti Jacques Rancière: “un medium non è una tecnica”. Questo è sicuramente un assunto fondamentale. Tuttavia anche la parola “medium” (mezzo-strumento) implica un approccio utilitaristico alla materia; evoca l’idea di un artista che, guidato dall’intenzione di rappresentare un’idea o una narrazione, sfrutta di volta in volta diverse materie e materiali. Smentiscimi e, se ne hai, proponi una tua perversione lessicale.
Rancière rigetta completamente questo modello e sostiene invece che il grande cammino dell’arte moderna ha avuto due costanti: la prima, è l’annessione all’arte di aree del reale – in termini di contenuti, ma anche di materiali – considerate in precedenza non-artistiche; la seconda, è l’annessione, da parte di ogni medium, di tecniche e procedimenti considerati tipici di altri. Così, dal suo punto di vista (che condivido) un medium è al tempo stesso di più e di meno di una tecnica. Di più, perché è un insieme provvisorio di tecniche – al plurale – di procedimenti, di criteri di valore e di giudizio; di meno, perché non è dotato di un’essenza propria e immutabile, derivata da una tecnica specifica, rispetto alla quale si può solo essere “fedeli” o “infedeli”. Diciamo che un medium è sempre in un rapporto dialettico con gli altri, ed è in questo rapporto che si definisce. E a me interessa molto questa dialettica, tant’è che mi occupo ormai in modo sistematico di aree di confine fra la scultura, (tradizionalmente intesa) e altre discipline, come la fotografia, di cui parlavo prima, ma anche il video, la performance, eccetera.
Capisco la tua riserva lessicale sulla parola “medium”, e in fondo la condivido: salvo pochissime eccezioni – tutte appartenenti all’arte concettuale più radicale – non c’è opera d’arte che non nasca dall’attrito con una specifica tecnica; insieme ad essa, e non semplicemente attraverso di essa. Come te, amo gli artisti che pongono questa constatazione alla base del loro lavoro. E se questo ti sembra in contraddizione con quanto ho detto sopra circa una concezione “espansa” della scultura – e del medium in generale – ti rispondo di nuovo con Krauss, che da tempo ha dichiarato guerra a una visione disinvoltamente “post-mediale” dell’arte, opponendo ad essa la “reinvenzione” del medium da parte di alcuni artisti che ammira molto, come William Kentridge o Ed Ruscha. Ma ora sto divagando. Dicevo: sì, “medium” è una parola come minimo ambigua, forse davvero fuorviante. Ma temo che sia un po’ tardi per cambiarla. O hai qualcosa in mente?
Mi capita spesso di pensare a un saggio dove il critico Giovanni Maria Accame traccia il passaggio in Italia da scultori della materia a scultori del materiale nella metà degli anni Sessanta. L’approccio carnale dello scolpire, modellare, plasmare, cesellare la sostanza grezza lascia il posto all’artista che seleziona il materiale in base alla sua pregressa valenza estetica e concettuale. Materia e materiale: è possibile oggi continuare a rintracciare questo binomio? E se sì, quali sono gli ultimi sviluppi della tenzone?
Questo rapporto con il materiale, anziché con la materia, si ripropone negli anni Duemila, ma con una differenza sostanziale. A Kounellis non importava quale fonderia producesse le piastre di ferro che usava; ma questa informazione – insieme ad altre, come la tecnica di lavorazione del metallo e la sua storia, l’impatto ambientale dell’estrazione del ferro, eccetera – è invece cruciale per una generazione di artisti il cui esempio canonico è per me l’inglese Simon Starling, che ha ripreso l’approccio di cui parliamo concentrandosi, invece che sulle associazioni simboliche, sui fattori tecnologici, economici e sociali che definiscono un materiale nel nostro orizzonte contemporaneo. Entrambi questi atteggiamenti – quello che guarda al ferro come a una materia da forgiare, e quello che lo considera in primo luogo un materiale carico di associazioni – coesistono nel presente. Sicché lo spettatore, di fronte a qualunque opera (a qualunque scultura) deve innanzitutto capire quale, delle due strategie, l’artista abbia adottato; e poi, appurato che si tratta della seconda, quali, fra le possibili associazioni e informazioni legate al materiale, l’artista abbia ritenuto significative.
Gli artisti dell’ultima generazione mi sembrano generalmente più interessati alla materia che al materiale – vedi la recente inflazione di lavori in ceramica…–, ma ho l’impressione che si tratti di una moda passeggera. La considerazione per gli aspetti culturali della materia tende a riproporsi ciclicamente.
Religione, rito, ma anche preghiera e misticismo: nei tuoi dialoghi con gli artisti ti capita d’entrare nell’ambito del sacro o questa dimensione è ormai smessa?
Ho un’innata inclinazione alla trascendenza (mettiamola così) e penso che non sia affatto estranea alla mia scelta di occuparmi di arte. Ma la tengo accuratamente a bada. Penso che ci siano ragioni laiche e immanenti più che sufficienti per considerare la creazione e l’esperienza dell’arte come le più alte attività umane. Leggo che una coppia di neuroscienziati italiani sta studiando il tipo di reazione degli individui al colore in ambito artistico; se, e come, la percezione del colore cambi a seconda che esso sia associato a un oggetto visto per strada, o a un oggetto dipinto in un quadro. È un aspetto parziale di ricerche più ampie. Chissà che, prima o poi, quelle ricerche non finiscano per dare un fondamento scientifico all’estetica di Kant, o a quella di Schiller che Rancière – ancora lui – cita spesso.
Sei critico e curatore, con un consistente passato da giornalista. Nel relazionarsi a una testata, sarebbe preferibile che l’autore definisse con il caporedattore se è richiesta critica d’arte o giornalismo d’arte al fine d’impostare gli articoli secondo un modello autoriale o informativo. Tuttavia, nella confusione di oggi, un lettore che compra una rivista specializzata non s’interroga a quale dei due modelli sta accedendo e spesso nemmeno il critico o giornalista lo sa. Cosa ti ha portato a delineare il tuo singolare percorso? In che problematiche e in che modelli virtuosi ti sei imbattuto nel vasto campo dello scrivere sull’arte?
Tra gli artisti cresciuti e maturati artisticamente in Italia, è a tuo giudizio ancora possibile trovare affinità sentimentali, estetiche o concettuali?
Le “correnti” sono state sostituite dai “trend”. Recentemente si è vissuto il trend dei piccoli lavori in ceramica (neo-rococò informale, ironico e ziesco); per alcuni mesi si sono viste solo maschere sub-sahariane versione Sex and the City; da un po’ di tempo in giro si nota un’impressionante numero di calchi d’oggetto: utensili e strumenti della quotidianità riproposti in cemento, bronzo e altro a memento dell’eterno “post-” dell’Apocalisse. Ci sono trend che ti stanno a cuore? Preferisci l’apocalittico o il post-apocalittico?
Sono invece d’accordo (se non altro perché capisco cosa intendi…) circa il filone “post-apocalittico”; ma parlerei più di una tendenza, di un filone appunto, che di un trend formale specifico (i calchi). Se lo si intende in questo senso, ho dato anch’io un contributo al genere. Nel 2012 curai al Nouveau Musée National de Monaco una mostra concepita come un museo della razza umana scomparsa, allestito da qualcuno – forse umano, forse no – in un futuro remoto; qualcuno la cui conoscenza della vita sulla Terra nel XXI secolo si dimostrava approssimativa e a tratti confusa. La mostra si intitolava “Le silence. Une fiction” e includeva di tutto, da dipinti animalier del XVIII secolo alle fotografie di animali tassidermizzati di Jochen Lempert, dai “tableau-piège” di Spoerri alle sculture di detriti di Peter Buggenhout: una restituzione del nostro mondo come reliquia, residuo, reperto. Implicitamente, ho risposto anche alla tua seconda domanda: fra l’apocalisse e la post-apocalisse, preferisco la seconda. L’apocalisse mi interessa meno, perché tende fatalmente ad essere espressionista. E in arte non mi piace ciò che è espressionista.
Nuovi trend? Attualmente, seguo con curiosità la definizione di una nuova immagine del corpo nell’arte, influenzata dalla tecnologia digitale, da Internet, ma anche, per esempio, dalle tecniche forensi (e dalla loro divulgazione nella fiction televisiva). Potrei farti parecchi nomi di artisti, ti offro invece gli estremi di un videoclip: quello di “The Spoils” dei Massive Attack, girato da John Hillcoat (il regista che ha portato sullo schermo The Road di Cormac McCarthy). Per sei minuti vediamo il volto di Cate Blanchett subire ogni sorta di trasformazione, affidata sia a tecniche digitali che analogiche: al vero volto dell’attrice si sostituiscono, senza soluzione di continuità, calchi, simulazioni digitali, sculture via via più stilizzate e arcaicizzanti, per finire con un ovale di pietra appena abbozzato – impossibile dire se reale o ricreato digitalmente. Per me, si tratta di una risposta affascinante al problema di raffigurare, oggi, un volto umano.