U n campo da baseball completamente vuoto, illuminato da due grandi proiettori che sovrastano il campo sportivo. Di colpo si spalancano le porte ed escono fuori decine di giovani donne vestite di rosso, affiancate da uomini armati che le strattonano e le incitano a muoversi gridando contro di loro. Di fronte, sul fondo dello stadio, si stagliano dei patiboli. Almeno dieci cappi per ogni palco, sul quale vengono condotte a forza le giovani donne. Lacrime, perdita del controllo corporale, urina che fluisce tra le gambe, voglia di gemere e urlare che non trova sfogo, perché un bavaglio posizionato sulla bocca non lascia nemmeno la consolazione del pianto. Si apre così, con questa immagine tremenda, che rimanda alla repressione di stampo cileno e ai metodi delle dittature più spietate, la seconda stagione – rilasciata poche settimane fa – di The Handmaid’s Tale, trasposizione televisiva de I racconti dell’Ancella, romanzo del 1985 di Margaret Atwood.
L’universo distopico immaginato da Atwood più di trent’anni fa è caduto come una folgore sul dibattito innescato dallo scandalo Weinstein e sul dilagare del movimento Me Too, che ha avuto l’effetto e il merito di riportare con forza il tema delle molestie al centro dell’agenda dei media e di costringerci tutti a tornare a riflettere su alcuni temi che una certa retorica post-tutto voleva superati. L’impegno femminista di Margaret Atwood, tuttavia, ha radici ben più lontane della cronaca attuale – tanto che l’autrice canadese è stata tra le voci più autorevoli a prendere posizione contro le possibili derive da gogna mediatica che il movimento rischiava di innescare – e si tratta di riflessioni che innervano da sempre la sua poetica. Una poetica che è innanzitutto esplorazione dell’umano e della sua complessità, perché se c’è una dinamica che la società di stampo patriarcale ha praticato con costanza è quella di non riconoscere alle donne la propria soggettività, o di riconoscergliene una monca, compressa, in minore, sotto tutela.
Un esempio mirabile di questo esercizio letterario è Fantasie di stupro, la sua prima raccolta di racconti, uscita nel 1977 con il titolo inglese di Dancing girls and other stories, recuperata da una piccola ma ben strutturata casa editrice come Racconti edizioni, che sta cercando con un catalogo di pregio di colmare la storica – ed editorialmente “patologica” – disattenzione che il nostro paese si ostina a esercitare nei riguardi dalla short story. I quattordici ritratti che compongono il libro, dalla parossistica “Guerra in bagno” tra due coinquilini, che apre il volume, fino alla riflessione sulla maternità di “Dare alla luce” che lo chiude. Che si tratti di una vicenda approfondita o di un racconto fulmineo, la scrittura di Atwood cesella delle figure che spesso e volentieri escono dagli schemi abituali – anche quelli di una certa narrazione che vede la donna perennemente come soggetto debole, dunque vittima, anche quando predica la sua emancipazione. I livelli sono sempre più complessi, i rovesciamenti degli stereotipi sempre piacevolmente in agguato.
Così, ad esempio, la protagonista di “L’uomo che veniva da Marte”, studentessa dal corpo troppo robusto per interessare sessualmente i suoi coetanei, diventa in modo imprevisto oggetto di stalking da parte di uno studente orientale che a malapena parla l’inglese: ma una volta liberatasi dello scocciatore invece che libera si scoprirà delusa, poiché scopre di non essere stata l’esclusivo oggetto delle sue attenzioni invadenti. E mentre la vicenda prende corpo, su tutto il racconto aleggia l’impressione sottaciuta della protagonista di essere lei, benestante e forse ingiustamente ossessionata da un ragazzo migrante, più povero e a rischio di rimpatrio, il vero anello forte della catena di potere.
Nel racconto che dà il titolo alla raccolta – che vanta una nuova e bella traduzione ad opera di Gaja Cenciarelli – è invece un altro meccanismo quello utilizzato da Atwood: l’ironia. «Fantasie di stupro» mette in scena la chiacchierata tra quattro amiche che giocano a bridge e raccontano, stimolate da una rivista femminile che pone il quesito, le loro fantasie di stupro. Estelle, l’io narrante, è anche quella che critica l’intera situazione, facendoci percepire il cortocircuito che c’è dietro l’articolo della rivista e, allo stesso tempo, mette le amiche di fronte al fatto che le loro fantasie hanno più a che fare con l’erotismo del desiderio che con la realtà, poiché manca sempre la componente della violenza. Componente che, a dirla tutta, finisce per mancare anche nelle fantasie di Estelle, che immagina stupratori impacciati, incastrati in pantaloni che non si aprono, con cui la donna finisce pure per solidarizzare, galvanizzando l’effetto comico. Ma sdrammatizzare non vuol dire prendere sotto gamba: violenza, senso di insicurezza e comicità coesistono perché in questo modo Estelle-Atwood, lungi dal minimizzare il tema della violenza, priva il violentatore del suo potere, smascherandone la debolezza umana.
Tornando all’universo di Galaad, assai più cupo e senza speranza, sembrerebbe che l’eco da esso prodotto nel dibattito pubblico e nella coscienza degli spettatori della serie (e dei nuovi lettori del romanzo) sia persino più forte e pervasivo di quanto non lo sia stato negli anni Ottanta, all’uscita del libro. Un motivo sta certamente nella nuova fortunata stagione che sta vivendo la narrazione del fantastico, sia essa letteratura o prodotto cinematografico. Un fantastico depurato dai pregiudizi di frivolezza, di puro entertainment che scontava nei decenni passati, e che forte della sua ritrovata forza evocativa flirta sempre più con la realtà, candidandosi a essere un potente strumento di decodificazione e di esplosione delle contraddizioni. Lo rileva Francesco D’Isa nel suo articolo «La rivincita del fantastico» apparso su Kobo – anche se in quel caso il focus è sulla letteratura italiana – quando scrive che “più la realtà è incredibile, più il fantastico coincide col realismo”.
Ma cosa c’è di incredibile nel nostro mondo tanto da rendere le vicende di June, alias Offred, così gravide di significato? Margaret Atwood, quando ha spiegato la genesi del romanzo ha dichiarato di essersi ispirata al puritanesimo americano del diciassettesimo secolo, perché ogni regime totalitario non fa altro che esasperare delle tendenze già presenti nella società per consolidare il proprio potere. Ciò che risulta “incredibile” ai contemporanei, allora, non è altro che una presa di coscienza: la consapevolezza, cioè, che quei diritti conquistati nella stagione degli anni Sessanta non sono affatto radicati nella coscienza collettiva e che anzi, al pari di un agente patogeno, è montata in modo virulento una contronarrazione che cerca di riportare indietro le lancette della storia in materia di diritti e di autodeterminazione dei singoli. Constatare che questa narrazione tossica attecchisce con sempre meno resistenza nelle coscienze della gente è l’elemento incredibile, la crepa nella narrazione progressista, che deve fare i conti con il fatto che non esiste alcun orologio del progresso, che le conquiste sociali e i diritti individuali vanno difesi qui ed ora, costantemente. Ecco il cortocircuito che mette fantastico e realtà in grado di dialogare in modo osmotico tra loro.
Con Margaret Atwood, invitata di recente a Firenze dal premio von Rezzori per una lectio magistralis, abbiamo provato ad approfondire alcune di queste questioni in una conversazione.
Lei ha esordito negli Sessanta. Molte cose nel mondo sono cambiate, anche le condizioni delle donne, che sono molto spesso al centro dei suoi racconti e dei suoi romanzi. È cambiato anche il suo approccio alla scrittura, nel frattempo? In che modo?
Il tema delle possibilità riservate alle donne è affrontato anche dal romanzo Il racconto dell’Ancella, anche se in chiave distopica. Qual è stata l’ispirazione originaria che l’ha portata a immaginare la teocrazia totalitaria di Galaad, l’universo cupo e concentrazionario in cui vivono Offred, la protagonista del romanzo, e le altre ancelle?
In quegli anni, la decade degli Ottanta, si viveva già una stagione di riflusso rispetto alle grandi battaglie degli anni Sessanta e Settanta, quando il movimento femminista era in prima linea nella rivendicazione dei diritti civili. Qual è oggi, secondo lei, la tenuta di quei diritti conquistati allora?
Ne Il racconto dell’ancella le donne hanno meno diritti perché, in un certo senso, sono considerate “meno umane”. Esseri cui è destinato da Dio un ruolo subalterno. Da scrittrice lei ha analizzato come si strutturano le narrazioni di questo tipo, che nei regimi totalitari servono spesso a giustificare la sopraffazione di un gruppo di persone verso un altro gruppo, compiendo quel terribile salto logico che sottrae umanità a chi viene ritenuto inferiore. Quali meccanismi utilizza e perché non ce ne accorgiamo?
Tornando all’attualità, lei è intervenuta nel dibattito sugli abusi sessuali con una critica rispetto alle possibili derive giustizialiste e di linciaggio mediatico degli accusati. Il suo editoriale, uscito a gennaio di quest’anno su The Globe and Mail, si intitolava provocatoriamente “Sono una cattiva femminista?”. Quali sono state le sue perplessità rispetto al movimento #MeToo? Il concetto che le donne non mentano mai per me è una stupidaggine. Lo dico perché gli esseri umani, a mio avviso, non possono esseri divisi in due categorie. Le donne rientrano nella categoria degli esseri umani e quindi non ha alcun senso cercare di suddividere l’umanità in sottocategorie. Dire che le donne non mentano o pensare che possano essere perfette, ci riporta a un concetto dell’epoca vittoriana in cui la donna veniva vista come un angelo perfetto, ma sappiamo benissimo che da esseri umani non si può essere perfetti. Non è affatto equo elevare la donna a uno stato molto più elevato rispetto a quello degli altri esseri umani. Sappiamo benissimo che ci sono tante diverse tipologie di donne così come ci sono tante diverse tipologie di uomini. Per quale motivo per le donne non ci si dovrebbe presentare la stessa varietà che ritroviamo nell’universo maschile?
Torniamo al tema della scrittura. Lei ha più volte fatto ricorso alla narrativa di genere, sconfinando nella fantascienza o, come abbiamo visto, nella distopia. Crede che questo tipo di racconto sappia affrontare meglio del realismo le contraddizioni che affrontano le nostre società?
La serie tv è stata criticata da alcuni esponenti repubblicani. Perché secondo lei?
In Italia è stata ripubblicata di recente la sua prima raccolta di racconti, Fantasie di stupro. Che differenza c’è per lei tra scrivere racconti e scrivere un romanzo? Cosa le permette di esplorare la brevità che la forma lunga magari non consente?
Non aver avuto un imprinting da parte di una scuola di scrittura le ha permesso una grande libertà. Prima di salutarci vorrei chiederle, allora, cosa consiglierebbe a una giovane o a un giovane che comincia a scrivere oggi.
Estratto dall’intervista radiofonica a Fahrenheit, Rai Radio3. Potete ascoltare la conversazione completa in streaming sul sito della trasmissione.