È
sorprendente la fitta rete di relazioni che legò, a partire dall’età dell’Umanesimo e fino alle porte della Rivoluzione francese, tanti intellettuali di età e luoghi geografici diversi, che trovarono il loro punto di unione nell’amore e la predilezione per la ricerca del bello e del vero e per il patrimonio, condiviso, dell’Antico. Questi particolari legami costituiscono quella che viene definita La repubblica delle lettere, come raccontata da Hans Bots e Françoise Waquet nel loro omonimo e fondamentale saggio che descrive la comunità di letterati all’interno dello spazio cronologico compreso tra il Rinascimento e l’Illuminismo. Si trattò di una comunità ideale, uno stato virtuale costituito dal sentimento di questi uomini, che attraversò, partendo dall’Italia, tutta l’Europa, superando le divisioni politiche, dinastiche e di fede che imperversavano per il continente, con il desiderio di creare un mondo autonomo e universale, fondato tanto sull’uguaglianza che sull’universalità attraverso un dialogo pressoché continuo tra i suoi membri, una conversazione basata sulla piena e garantita libertà di pensiero.
Il termine “Respulica litteraria” fu coniato per alcuni dal veneziano Francesco Barbaro, per altri da Erasmo: poco importa in questo frangente la querelle sulla paternità del nome, perché ciò che è importante mettere in luce è come, sin dal primo momento, l’intento di questi uomini fu quello di delineare un atteggiamento condiviso che abbracciasse le diversità all’insegna di una comunità internazionale di dotti ispirati da ideali di cosmopolitismo e pacifismo. Questa esperienza, unica nella storia culturale, non deve e non può però essere derubricata nel semplice alveo di una storia del passato, perché porta con sé infatti un carattere di estrema modernità per quanto riguarda un’unione, certo intellettuale, tra i vari paese europei, un’eccezionalità oggi sempre più da custodire considerate le spinte divisionistiche e autonomiste che si aggirano, come “spettri”, per il vecchio continente.
Marc Fumaroli, docente, saggista e membro dell’Académie française, è certamente tra i maggiori studiosi e conoscitori di questo felice periodo della storia culturale europea e La repubblica delle lettere, pubblicato adesso da Adelphi, che ha in catalogo tutte le traduzioni italiane di Fumaroli, curato con grande precisione da Laura Frausin Guarino, costituisce una summa dei suoi studi, nonché il punto di riferimento indispensabile per addentrarsi in questo coacervo di saperi. Fumaroli presenta qui una serie di studi su
quella società ideale, e ciò nondimeno reale, che fino alla Rivoluzione francese oltrepassò la geografia politica e religiosa dell’Europa via via umanista, classica, barocca, neoclassica, avendo costantemente l’Antico come patrimonio e oggetto di riflessione.
Non è difficile scorgere, tra le dense pagine di questo volume, l’amore profondo che guida lo studioso tra le pieghe, certo complesse e fini, di un itinerario che si muove da Firenze a Roma, fino a Amsterdam e, ovviamente, Parigi: “disimpegnandomi dall’attualità presente senza tuttavia ignorarla, ho cercato di comprendere l’attualità passata di una società di dotti letterati tra loro solidali in cui mi sentivo a mio agio”, scrive Fumaroli nella nota che apre il volume.
In una bella intervista di Benedetta Craveri, che gli chiede quando sia iniziato il suo interesse per il periodo della Repubblica delle lettere, Fumaroli racconta che esso coincise con la lettura dell’epistolario di Petrarca e la conseguente consapevolezza di trovarsi innanzi all’invenzione di una nuova forma di relazione: “nelle sue lettere Petrarca forniva agli uomini di alta cultura l’esempio di una solidarietà amichevole, di una socievolezza all’insegna della delicatezza e della fiducia, capace di trascendere le tensioni polemiche e i conflitti passionali in nome di un livello di civiltà superiore”. Da quel momento, una forma particolare e del tutto innovativa di esperire la cultura darà il materiale per la costruzione delle fondamenta di quel luogo “che chiamiamo civiltà europea”. Nell’esperienza petrarchesca, con l’amore per i testi antichi, Fumaroli rintraccia un nuovo tipo di educazione che conduce a un universo diverso da quello comunemente immaginato: “è questa distanza fra il mondo dei libri e il mondo reale che permette di acquisire un atteggiamento critico e che consente di vivere su due diversi registri, di giudicare l’uno attraverso l’altro, di non limitarsi a quello dell’attualità”.
È possibile forse iniziare la lettura di questo nuovo volume dal saggio che lo chiude, Il segreto della repubblica delle lettere, in cui Fumaroli dispiega l’itinerario della sua lunga ricerca e consegna una chiave di lettura generale ai saggi, ovviamente variegati per toni e autori studiati, uniti però da un tensione speculativa ed emotiva che nasconde una necessità importante, quella di far dialogare un periodo eccezionale della storia europea con l’età in cui ci troviamo a vivere, mettendo in relazione legami antichi di secoli con la nostra modernità digitale:
ripercorrere la storia di questa istituzione singolare e metamorfica significa non solo considerare l’Europa da una prospettiva insolita, né economica né militare, ma anche convincersi che quella istanza critica transnazionale è ancora più auspicabile nel secolo di Facebook di quanto lo fosse in quello dell’invenzione del libro.
Uno degli aspetti su cui Fumaroli insiste in questo saggio finale, ma che si rintraccia frequentemente in tutte le parti del volume, è la cooperazione amichevole che lega i protagonisti di questa storia all’interno di un quadro politico marcato da differenze ineludibili: questi uomini si muovono tra monarchie assolute, Roma, Vienna, Parigi, aristocratiche repubbliche come quella di Venezia o Firenze, o repubbliche borghesi quali quelle delle Province olandesi. Fumaroli definisce questa situazione come un paradosso, una stranezza, nella quale però, a guardare più in profondità, è possibile scorgere il “segreto di cui godevano, con assoluta cognizione di causa” questi uomini (“i miei amici” li definisce). Si tratta di un segreto prezioso, di cui si avverte la necessità ancora oggi: “saper vivere su due piani temporali che si riflettono l’uno nell’altro, l’uno fuori dal tempo in quanto frutto maturo del tempo, l’Antichità greco-romana, l’altro in un tempo storico del tutto diverso e sempre più scombussolato”.
Caratteristica di molti di questi uomini è la possibilità di viaggiare in maniera continua, muniti di lettere di presentazioni, per proprio conto, come diplomatici o in veste, più o meno veritiera, di precettori di nobili rampolli che compiono vasti Grand Tour. Impressionante appare la facilità e la naturalezza con cui queste persone, che prima di partire si informavano a fondo sulle persone che avrebbero necessariamente dovuto incontrare, venivano accolte da sconosciuti bibliotecari, eruditi e collezionisti, come colleghi e, in senso più generale, amici. Ma non erano solo dotti e studiosi: emblematico il caso del conte di Caylus che, entrato nell’esercito assai giovane, ma ancora in tempo per cambiare vita, decise di formarsi in autonomia, rifacendosi un’istruzione attraverso un grande tour che lo porterà in Italia, Asia minore, Olanda e Inghilterra, sfruttando di ogni luogo quanto di meglio esso potesse offrirgli.
La parola che forse meglio di altre incarna questo spirito è humanitas, vocabolo che per gli umanisti è simbolo essenziale della comunicazione, non intesa semplicemente come un atto di erudizione intellettuale, quanto come un gesto di generosità. Ed è anche questo aspetto che oggi dovrebbe parlare a molti: in una società culturale in cui l’amore per le proprie opere e per i propri prodotti culturali ha già superato le soglie più preoccupanti del narcisismo, tornare a uno statuto dell’amore verso le proprie fatiche (che in quei casi erano realmente mastodontiche, dal genere delle vite a quello delle opere complete filologicamente impeccabili) inteso non in chiave narcisistica ma come un vero e proprio atto di onestà per la propria ricerca sembra quanto mai necessario: l’amore per i propri lavori si trasforma così naturalmente nel tentativo di trasmettere le proprie conoscenze e non in un continuo processo di superamento dell’altro. Infatti l’iniziale convincimento all’utilizzo di una lingua che potesse essere il vettore comune di queste esperienze diverse, il latino erudito, non impedì certo che pian piano le varie lingue nazionali, certo non senza resistenze, si innestassero in questo discorso, proprio per soddisfare il desiderio di apertura, il più possibile ampia, verso un pubblico variegato.
In un suo testo molto famoso, Le Api e i Ragni. La disputa degli Antichi e dei Moderni, Fumaroli analizza con la sua capacità di narratore storico preciso ed affabulatorio la querelle che contrappose, alla fine del Seicento, gli Antichi e i Moderni. In quella appassionata ricostruzione, lo studioso francese spalancava le porte ad interrogativi importanti: la disputa, qui spogliata ovviamente delle sue asperità e della sua precisione, non è certo qualcosa di inedito, ma lo scontro continuo nella storia delle idee tra chi assegnava all’antichità e ai suoi maestri un ruolo unico e decisivo nell’educazione, gli Antichi, e coloro che invece vedevano in loro stessi dei maestri, i Moderni, è spesso all’ordine del giorno. I protagonisti della Repubblica delle lettere, seppur certo non estranei a questo conflitto, sembrano essere, per chi li studia oggi, dei mediatori eccezionali: grandi conoscitori ed appassionati dell’arte e della cultura dell’antichità, ma assolutamente moderni nelle loro azioni e nei loro movimenti, in grado di oltrepassare continuamente i rigidi confini politici e scientifici (si incontra in questo libro una formidabile galleria di scrittori, pittori, collezionisti, scienziati e via discorrendo) che la loro epoca sembrava voler loro imporre, inarrestabili nella loro curiosità e nella loro elegante e posata furia conoscitiva.