I n un’epoca in cui il luogo in cui viviamo influenza sempre meno il tipo di persone che siamo — il lavoro che facciamo, la lingua che parliamo, i vestiti che indossiamo — il dilemma dello ius soli scoraggia anche chi ne è direttamente interessato. Identificare una persona sulla base della sua provenienza è un’operazione reazionaria rispetto alla sua esistenza presente e futura; ma (de)limitare l’identità di un individuo sulla base del suolo che occupa al momento della nascita è operazione altrettanto parzializzante. Quest’antinomia non colpisce solamente nuovi migranti originari da altri emisferi, ma anche cittadini di ex colonie o detentori di privilegiatissime cittadinanze europee.
A dimostrazione dello scoramento, riferisco un siparietto che non smette mai di offendermi e divertirmi: italiani che mi chiedono per interposta persona “Ma la tua amica è straniera?” e tedeschi che interrogano, con tono affermativo, “Ma lei ha un accento”. Tra quei due “ma” ci sono decine di combinazioni, agenti, nazioni — domande, risposte. Non è un’esperienza personale e non dipende da fattezze fisiche o anagrafiche. È un’esperienza condivisa da qualunque cittadino dell’Unione Europea che, negli ultimi quindici anni, sia stato esposto alla cultura europea stessa (certo, con diversi gradi di frequenza e intensità). E quindi? Nell’attesa di una terminologia — prima ancora di una legislazione — che risolvi il problema, le reazioni possono essere due: buttarla sul ridere o prenderla sul personale.
Buttarla sul ridere
Nel periodo che intercorre, circa, tra le sommosse anti globalizzazione di Seattle 1999 e la crisi finanziaria del 2008, vedono la luce una serie di film, perlopiù commedie, che tematizzano l’identità nazional-culturale all’interno della comunità europea. Pur diversi tra loro per contenuto e ambizione, sono però accomunati da svariati elementi sia formali che tematici e da un generale “europeismo positivista”, tanto da sembrare alcuni propaganda commissionata da Strasburgo. Il più esemplare di questa “corrente” esce in sala proprio nell’anno in cui le monete nazionali sono rimpiazzata dall’euro, e occupa (forse) nella memoria di una generazione lo stesso posto di American Pie e Come te nessuno mai: L’appartamento spagnolo. Tentativo, per certi versi riuscito, di ricreare il college movie in veste europea, in realtà il film di Frederic Klapisch del 2002 non ha mai affermato un genere e fu produzione quasi esclusivamente francese. Il film certo ebbe il pregio di dare ad Audrey Tautou un volto altro da quello di Amelie ma anche il grave difetto di lanciare Romain Duris nello stardom comunitario.
L’appartamento spagnolo si apre proprio con Romain Duris/Xavier che si reca alla Défense — il distretto finanziario di Parigi — per iscriversi al programma Erasmus. Una soggettiva lo riprende nel labirinto burocratico da affrontare per organizzare il suo soggiorno universitario a Barcellona. Conviene migliorare lo spagnolo perché, come suggerisce un impiegato al ministero dell’economia, “con le nuove direttive europee i lavori spunteranno come funghi”. L’errore storico incapsulato in questa sequenza, con le sue implicazioni simbolico-politiche, si ripeterà nel corso del film in molte altre scene che — dieci anni dopo la crisi finanziaria — acquistano la qualità di profezie o pericolose ingenuità culturali. Cosa avrebbe pensato Puigdemont fuggitivo a Bruxelles di quest’altra scena, poco più avanti?
Cominciata l’università a Barcellona, Xavier e gli altri studenti Erasmus si rendono conto che molte lezioni sono tenute in catalano e non in spagnolo. L’amica belga protesta, ma il professore si rifiuta e riattacca a spiegare “il futuro del capitalismo globale” in catalano. Nella sequenza successiva la burbera risposta del professore viene stemperata da alcuni studenti locali che abbozzano la teoria dell’identità ibrida di Stuart Hall. Con un “euro-splaining” di cui mio malgrado anch’io sono stata portavoce, gli autoctoni spiegano ai due francofoni la qualità unica di un luogo in cui il vernacolo — pan tumaca — convive armonicamente con somme espressioni di cultura nazionale e internazionale — olè e Dalì.
Nell’Europa pre-Bataclan de L’appartamento spagnolo, la folla non è insidiosa ma elettrizzante, ripresa in continuum con la città attraverso il time-lapse.
Evidentemente l’incomprensione burocratica o linguistica viene usata come comic relief: l’armageddon di certificati necessari al futuro studente Erasmus lo ridicolizzano di fronte a istituzione e spettatore esattamente come succede a una delle protagonista di A Day in Europe di Hannes Stör, un’inglese che subisce un furto a Mosca e che cerca, kafkaniamente, di denunciare il fatto alla polizia. Film del 2005 ignorabile per molti aspetti, A Day in Europe condensa però diversi elementi formali di questo cinema europeista: il carattere episodico, la narrazione corale, il concentramento intorno a un grande evento (la finale di Coppa Uefa 2000, Galatasaray vs Deportivo La Coruña). Un road trip dove a emanciparsi non sono necessariamente i protagonisti, ma l’idea d’Europa dello spettatore — evoluzione tracciata dalla consueta mappa muta che segnala con sonoro boing-boing le tappe del viaggio.
Questa strana ossessione per segnaletica e nomenclatura geografica, nonché la necessità di enfatizzare il mezzo di trasporto come veicolo di crescita emotiva e civile, può sembrare (ed è) datata. Eppure ritroviamo entrambe le idee non solo in apertura e chiusura di L’appartamento spagnolo — il decollo, l’atterraggio e la patetica corsa a braccia tese sulla pista aeroportuale — ma anche nello sferragliare dei titoli introduttivi di Visions of Europe del 2004. Nato da un’idea di Lars von Trier, il film collettivo chiamava 25 registi europei a riflettere sull’Europa con un corto ciascuno: dentro ci sono Kaurismäki, Fatih Akin o Greenaway ma come molti dei film antologici di quegli anni fu dimenticato. Commissionati da festival o da sodalizi televisivi come la franco-tedesca ARTE, in quegli anni c’è la moda dei film collettivi, trans-nazionali e trans-generi, uniti da un tema o da grandi autori. Alcuni filoni, come quello inaugurato da Paris Je T’Aime nel 2006, hanno dato luogo a franchise globali veri e propri. Qui è Tickets del 2005— Olmi-Kiarostami-Loach — l’esempio più significativo, in cui tre storie diverse e slegate tra loro trovano letteralmente trait d’union su un regionale diretto a Roma.
Prenderla sul personale
Nel 2002, oltre al film di Frederic Klapisch, esce anche il libro meno noto di Ulrich Beck, il sociologo conosciuto più che altro per aver teorizzato con Anthony Giddens la società del rischio. In Individualization, Beck identifica nella modernità uno “scollamento” dell’individuo rispetto al tessuto sociale. Lo sviluppo dello stato assistenzialista e della società capitalista all’indomani del dopoguerra ha come sganciato le persone dai tradizionali legami culturali e di classe per lanciarle nel libero mercato — un’azione che assomiglia al decollo di Xavier o al treno, pur non ad alta velocità, che viene “sparato” lungo la penisola in Tickets, filo conduttore di mondi slegati, biografie disconnesse. I protagonisti di queste storie nascono e muoiono all’interno di questa traiettoria; e lo fanno da soli.
Secondo Beck, questa rottura nella continuità storica ha introdotto una spinta senza precedenti del singolo verso l’individualizzazione, spinta per la quale le opportunità, i pericoli, le incertezze biografiche una volta predefinite all’interno di strutture sociali — come lo Stato-nazione, il nucleo famigliare, le tradizioni culturali, il sistema sanitario, quello pensionistico o dell’istruzione; il concetto stesso di classe — devono oggi venir interpretati e processati dagli individui stessi. In altre parole: nel momento in cui il cittadino non è più efficacemente rappresentato da forme istituzionalizzate, deve assumersi le responsabilità che quelle prima esercitavano. E lo deve fare costruendosi una vita-propria. Sono biografie interrotte, fai-da-te e fatte-da-sè. Sebbene non ci sia consapevolezza ne connotazione prettamente negativa in questa auto-investitura, il singolo deve in un certo senso prenderla sul personale.
L’appartamento spagnolo è un coming of age della comunità europea odierna.
Nell’Europa pre-Bataclan de L’appartamento spagnolo, la folla non è insidiosa ma elettrizzante, ripresa in continuum con la città tramite i classici time-lapse che nel linguaggio video anni Novanta significano “Eccola! la globalizzazione va così veloce”. Ma stranamente il regista Klapisch anticipa qualche soluzione formale che prolifererà nel nostro quotidiano. Lo split screen multiplo o la sovrapposizioni di schermi ognuno con qualità diverse, da low res ad HD in un unico formato: due alternative visive che stanno al montaggio alternato come l’interattività simultanea dell’hyperlink sta alla narrazione lineare tradizionale. Più avanti, l’ubriachezza molesta in discoteca viene ripresa a 360 gradi, con fotogrammi sovrapposti e proto-gif che ripetono a scatti lo stesso gesto del personaggio mentre cade, fuma o ride. La reiterazione e frammentazione del movimento come percezione individualizzata dell’esperienza condivisa, se vogliamo. Per le sequenze propriamente oniriche Klapisch ritorna al banale e impiega fumi, filtri colorati e luci stroboscopiche: a Xavier l’esperienza del melting pot catalano dà le allucinazioni e allora si precipita in ospedale a fare le analisi. Come a dire: per la Francia l’Europa è un tumore al cervello.
Ma in effetti, sostiene Beck, oggi il fallimento della società diventa fallimento personale: “Fenomeni di crisi strutturale come la disoccupazione possono poggiarsi sulle spalle degli individui (…). I problemi sociali si trasformano in disposizioni psicologiche: sensi di colpa, ansia, conflitti e nevrosi”. Paradossalmente è proprio nella lotta per il mantenimento della vita-propria che si verifica l’esperienza comunitaria: “è l’individualizzazione e la frammentazione delle crescenti ineguaglianze in biografie separate [tra loro] che costituisce un’esperienza collettiva”. Questo poiché “la versione occidentale della società individualizzata ci chiede di trovare soluzioni biografiche per risolvere contraddizioni sistemiche”. L’indipendenza catalana, i nazionalismi di ritorno, i fondamentalismi religiosi, non sono dunque fenomeni reazionari ma il risultato di biografie globalizzate e a volte frutto di una “poligamia spaziale”: chi è sposato con più luoghi contemporaneamente soffre o gode di identità che devono essere continuamente tradotte e spiegate per sussistere sia agli occhi del prossimo che ai propri. A proposito di matrimoni, Klapisch gira non uno ma ben due sequel sentimentali, ambientati in città che più di Barcellona sono oggetto di trasformazione accelerazionista: Londra con Bambole Russe del 2006 e Rompicapo a New York del 2013. La Before Trilogy di Richard Linklater — che analogamente ambienta una storia d’amore prima Vienna, poi a Parigi e infine in Grecia — è al confronto molto più coesa e valida dopo 24 anni: proprio perché i luoghi sono cornice e non raison d’être per lo sviluppo dei personaggi.
Ci sono un francese, un tedesco, un italiano…
La casa del film potrebbe prestarsi a letture euro-scettiche o addirittura a un’inversione di Brexit, dato che il gruppo si unisce per davvero con l’arrivo del fratello di Wendy-l’inglese, un razzista insopportabile che evidenza tutti gli stereotipi culturali incarnati dagli inquilini. In realtà L’appartamento spagnolo è una specie di coming of age della comunità europea odierna, dove lo sfratto viene scongiurato dal pacato e rassicurante studente di economia francese. Xavier è un pre-Emmanuel Macron, un personaggio che agisce per dettami diegetici o politici esterni. Lui e gli altri studenti personificano precisamente proprio quelle identità nazionali che il film crede di superare. Il tronfio motto finale è “io sono tutti, non sono nessuno — sono l’Europa, un casino”. Ma c’è un errore: è Xavier che si rivede nell’Europa, non viceversa.
L’europeismo comico e ingenuo de L’appartamento spagnolo sorge dall’equivoco che identificarsi con l’altro significa (ri)trovare se stessi — e per estensione che rispecchiarsi nell’istituzione significa pacificare la propria identità. Come avverte Beck, non ci sono stili di vita o ruoli stereotipati che tengano: globalizzazione e individualizzazione possono essere (sopra)vissuti solo da esistenze sperimentali. È nel dispiegarsi di biografie tali che nascono i conflitti maggiori — razzismo, omofobia, antisemitismo — ma contemporaneamente l’idea di cultura si trasforma da statica (subita collettivamente) ad agita (dai singoli): se prima questa veniva definita dalla tradizione, oggi indica un’area di libertà che protegge ogni gruppo di individui e allo stesso tempo è in grado sia di produrre che di difendere il processo di individualizzazione. Se Xavier avesse letto Beck, l’avrebbe detto con parole più semplici: “l’europeismo culturale” è il campo in cui possiamo affermare di vivere insieme, alla pari ma differenti.