Perché non esistono atlete professioniste?
Ragioni storiche e conseguenze di una discriminazione italiana.
Ragioni storiche e conseguenze di una discriminazione italiana.
P er spiegare il perché dell’attuale situazione discriminatoria delle sportive italiane bisogna partire nientemeno che da quarant’anni fa, dall’estate del 1978. La mattina del 9 luglio il mondo del calcio italiano, che aveva appena visto la Nazionale comportarsi benissimo nel Campionato del Mondo vinto dall’Argentina della dittatura militare, si vede scosso da una notizia che riportiamo con le parole del Corriere della Sera:
I contratti di trasferimento dei calciatori sono irregolari. Lo ha deciso ieri il giudice del lavoro di Milano Giancarlo Costagliola: il reato è mediazione di manodopera a scopo di lucro. Oggi comunicazioni giudiziarie a 66 dirigenti di società e della Federazione Italiana Gioco Calcio (FIGC). Tutto il calciomercato è bloccato. L’avvocato Sergio Campana, segretario del sindacato calciatori, dichiara: «Nel calcio c’è del marcio … ma al via saremo tutti puntuali». […] Anche il mercato del basket è fermo dopo il decreto di Castigliola perché, come spiega il direttore sportivo della Cinzano, Toni Capellari, si comporta esattamente come il calcio. «Esiste il vincolo e una società che vuole cedere uno dei suoi uomini ad un’altra società non fa altro che mettersi d’accordo con i dirigenti di quest’ultima. Si stipula quindi il contratto e la società cedente rilascia un nulla osta al giocatore. Il contratto viene poi ratificato dalla Lega, tutto ciò indipendentemente dalla volontà dell’atleta». Ora è atteso un decreto del governo che definisca il vincolo tra calciatori e società nonché la condizione giuridica del calciatore nel mondo del lavoro (se lavoratore dipendente o bene patrimoniale della società) […]. L’onorevole Franco Evangelisti, sottosegretario alla presidenza del consiglio, ha convocato per martedì 11 luglio 1978 alle 13.45 un vertice a palazzo Chigi con il ministro del Lavoro, Vincenzo Scotti, il ministro del Turismo e lo Spettacolo, Carlo Pastorino, il segretario generale del Coni, Mario Pescante, e il presidente della Federcalcio, Franco Carraro.
Racconta Franco Esposito, in Testa alta, due piedi – storie di calciomercato che il tutto si svolse in maniera spettacolare: le gazzelle dei Carabinieri circondarono l’Hotel Leonardo, a Bruzzano, obbedendo all’ordine di Costagliola. Tecnicamente, il magistrato agiva per la smaccata violazione della legge 1369/60, che vietava, per la tutela del lavoratore, l’intervento di mediatori nella fase di stipula del contratto di lavoro subordinato: essendo allora considerato tale il rapporto tra calciatore e società, la figura del procuratore era da considerarsi fuorilegge. Ossia, tutti i frequentatori di quell’albergo sede del calciomercato agivano al di fuori della legge: i Carabinieri arrivarono con i cellulari (era il ‘78, con questo termine s’intendevano i furgoni, non i telefonini) e ci furono momenti di vero panico.
Il governo di allora – Andreotti IV, nato sull’ondata di paura sociale seguita al rapimento di Aldo Moro – garantì lo svolgimento del seguente campionato di calcio e si adoperò per votare alla Camera in data 27 luglio 1978 l’ordine del giorno che prevedeva di regolare e tutelare gli interessi sociali, economici e professionali degli atleti e dei lavoratori sportivi in genere. La legge che fu prodotta da questa situazione, la 91 del 23 marzo 1981 (intanto il governo era passato a Forlani), venne intitolata Norme in materia di rapporti tra società e sportivi professionisti, e ancora regola principalmente quattro aspetti dell’attività sportiva: la forma giuridica delle società sportive professionistiche, il rapporto tra atleti e società, i trasferimenti degli atleti tra le società e i controlli federali. Il problema generato da questa legge, però, è dato non tanto dal suo oggetto, cioè dal cosa regola, ma dal come prescrive che il suo oggetto sia regolato. Leggiamo l’articolo 2, intitolato Professionismo sportivo:
Ai fini dell’applicazione della presente legge, sono sportivi professionisti gli atleti, gli allenatori, i direttori tecnico-sportivi ed i preparatori atletici, che esercitano l’attività sportiva a titolo oneroso con carattere di continuità nell’ambito delle discipline regolamentate dal CONI e che conseguono la qualificazione dalle federazioni sportive nazionali, secondo le norme emanate dalle federazioni stesse, con l’osservanza delle direttive stabilite dal CONI per la distinzione dell’attività dilettantistica da quella professionistica.
Il legislatore quindi ha preferito regolare l’attività sportiva professionistica in maniera generale, lasciando alle singole federazioni il compito di stabilire chi è un professionista dello sport e ricade all’interno della legge – come ha sottolineato di recente Malagò, “rimane il fatto che io [CONI] non sono un interlocutore legislativo, ma per quanto in mio potere posso tentare quella che viene chiamata moral suasion”. Sono passati quarant’anni, e solo quattro federazioni riconoscono il professionismo: il calcio (FIGC), il ciclismo (FCI), golf (FIG) e pallacanestro (FIP). Altre due hanno rinunciato da poco: il motociclismo nel 2011 e il pugilato nel 2013. Beninteso, si tratta solo e sempre della parte maschile dei tesserati per quelle federazioni.
Questa situazione complessiva ha generato e genera assurdità, paradossi, discriminazioni varie, per esempio: non sono mai stati professionisti e non lo sono per la legge italiana gli attuali colleghi di Adriano Panatta, Pietro Mennea, Alberto Tomba, Armin Zoeggeler e Andrea Lucchetta. Valentino Rossi per il diritto italiano è stato professionista dal 1996 al 1999 per il Team Aprilia e nel 2011/12 per il Team Ducati. Oggi Rossi, tesserato per il Team ufficiale Yamaha, non può essere definito con il concetto giuridico italiano di “sportivo professionista”, perché la società di appartenenza è giapponese. Infine, né Valentina Vezzali, Federica Pellegrini, Carolina Kostner, Francesca Piccinini o qualunque altra donna dello sport italiano sono mai state qualificate come professioniste.
Allo stato attuale, la legge 91 è oggetto di una iniziativa di revisione ferma in Parlamento da anni: era il novembre 2014 quando Laura Coccia (PD) ne proponeva una modifica, del cui testo proponiamo qualche stralcio:
La prima conseguenza dell’assenza del riconoscimento del professionismo sportivo nelle donne è la mancanza di un contratto di lavoro. In vista di una regolare contrattualizzazione le sportive «professioniste di fatto» non possono essere considerate neppure lavoratrici di tipo subordinato o autonome. Per i «professionisti di fatto» esistono oggi moduli che regolano ad hoc l’erogazione del denaro e stabiliscono punti su cui rendere effettivo il legame tra società e giocatore, ma sono tutti elementi di contrattualizzazione secondaria che escludono forme di tutela completa, come quella invece riservata ai professionisti. Le disparità di fatto tra uomini e donne nello sport creano un serie di conseguenze da non sottovalutare. Le atlete donne, infatti, non percepiscono né il trattamento di fine rapporto, né gli indennizzi per i casi di maternità e sono escluse dalla maggior parte delle forme di tutela presenti nel mondo del lavoro.
Nel 2016 un’analoga (anzi pressoché identica) iniziativa non ha portato risultati; intanto il Parlamento Europeo ha approvato già nel 2003 una risoluzione su “Donne e sport” largamente disattesa in Italia, dove non si riescono quindi a risolvere non solo i problemi sportivi, ma neanche quelli legislativi e contrattuali per la maggior parte degli sportivi e delle sportive d’Italia. Sì, anche “degli sportivi”, perché la lotta che conduce ad esempio un’associazione come Assist è una lotta che migliora – come spesso accade nelle battaglie femministe – la condizione di tutti e non solo delle donne coinvolte. Racconta al Tascabile Luisa Rizzitelli, presidente di Assist: “La battaglia di Assist da diciotto anni è importantissima sia per le donne che per gli uomini. Stiamo cercando di sollevare e risolvere un annoso problema che riguarda centinaia di migliaia di atleti che fanno dell’agonismo una parte produttiva importante della loro vita. Tranne per quattro discipline, appunto, anche gli uomini sono infatti totalmente sprovvisti di tutele, a meno che non siano nei Corpi Militari”.
Nei fatti, a nessuno è sfuggita l’assurdità di una legge che non riesce a regolare ciò che pure è il suo oggetto. Così l’avvocato Gabriele Nicolella, su Altalex:
La soluzione adottata dal legislatore ha suscitato nella dottrina notevoli perplessità: è stato infatti da più parti osservato come il sistema delineato dalla legge 91/1981 abbia in concreto escluso dal suo ambito di applicazione tutti i casi di “professionismo di fatto”, e cioè quegli atleti che sono inquadrati come dilettanti unicamente perché la Federazione di appartenenza non ha provveduto a distinguere tra dilettanti e professionisti, pur svolgendo costoro attività sportiva a titolo oneroso e continuativo, traendo dalla stessa l’unica, o comunque la preponderante, fonte di reddito. È evidente dunque che di fronte a situazioni sostanzialmente identiche l’elemento discretivo costituito dal provvedimento formale della qualificazione da parte della Federazione finisce con il determinare l’applicazione di diverse regolamentazioni giuridiche senza reale giustificazione.
Continua ancora Luisa Rizzitelli: “In Italia lo sport è segnato da profonde discriminazioni di genere nell’ambito della rappresentanza femminile negli organi nazionali che governano lo sport, ma anche in termini di accesso alla pratica sportiva, per non parlare dello strapotere economico, sociale e mediatico dello sport maschile. Nessuna donna è mai stata Presidente del C.O.N.I., e salvo un’eccezione di pochi mesi, nessuna donna è mai stata Presidente di una delle 45 federazioni sportive che costituiscono il nostro Comitato Olimpico. Le donne, non importa con quante medaglie al collo, sono tutte, indistintamente, considerate dilettanti. Un dilettantismo che è evidentemente falso e che è la ragione principale degli innumerevoli problemi che si trova ad affrontare un’atleta. Salvo le eccezioni costituite dalle atlete appartenenti ai corpi militari (un’élite) e dalle atlete azzurre (che hanno ricevuto alcune minime tutele dal CONI dopo anni di lotte) nessuna atleta in Italia è considerata dallo Stato professionista. Esiste di fatto un enorme numero di false dilettanti: atlete formalmente dilettanti che nella realtà sono lavoratrici sportive, professioniste non riconosciute. Donne che fanno dello sport il loro lavoro, e vi si dedicano a tempo pieno, con continuità, e che hanno lo sport come principale fonte di sostentamento, ma che la legge relega in un limbo, senza regole, senza tutele e senza diritti. Il loro rapporto di lavoro non è regolato da un contratto collettivo in forma scritta, secondo il modello predisposto ogni tre anni dalla federazione sportiva e dai rappresentanti di categoria (come accade per i professionisti), ma prende la forma cangiante della scrittura privata. Pertanto può contenere le clausole più inverosimili: come, ad esempio, la frequentissima clausola anti-maternità, che consente il licenziamento in tronco dell’atleta nel caso questa sia in stato di gravidanza. Alle atlete è negata persino una posizione previdenziale. Il loro – spesso piccolo – reddito, frutto di fittizi rimborsi spese, premi e indennità, non è assoggettato alla contribuzione INPS né INAIL e addirittura per il fisco va collocato tra i cosiddetti redditi diversi. Al termine della loro, naturalmente breve, carriera sportiva, le atlete non avranno né pensione né TFR. Tutto questo per noi è totalmente inaccettabile e necessita una vera riforma del settore”.
L’unica giustificazione reale per queste discriminazioni tra lavoratori, e più tra lavoratori e lavoratrici, sta nello status fiscale delle società dilettantistiche, che malgrado la sempre maggiore importanza economica dello sport (1,7% del PIL) rimane più vantaggioso di qualunque altro dispositivo di legge. Non c’è obbligo di contributi né di deposito dei contratti, nessuna tutela obbligatoria verso i tesserati durante la carriera né dopo che è finita, ma le federazioni riescono a sopravvivere solo grazie a società che costano poco, appunto quelle formalmente dilettantistiche. La soluzione all’italiana la conosciamo già: atleti e atlete che chiedono sacrifici economici alle famiglie d’origine, atleti e atlete nei corpi militari – fenomeno unico al mondo, comunque non accessibile a tutte e tutti – oppure atleti e atlete con la fortuna di contratti pubblicitari occasionali decisi da un mercato della visibilità che certo non è paritario né giusto nel merito. Alla faccia anche del dettato costituzionale, articolo 3: “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.
Tutti tranne, pare, lavoratrici e lavoratori dello sport.