E ntrando a Tehran, un tassista che sa dire “dove la porto?” e altre espressioni tipiche del suo lavoro in un numero impressionante di lingue, indica un’enorme torre di cemento abbrustolita dallo smog. Coi suoi 435 metri spunta dall’intreccio urbano come uno spillo attraverso un tessuto. Nel suo genere è la sesta torre più alta al mondo e la sagoma mi ricorda vagamente la Fernsehturm con cui mi orientavo quando vivevo a Berlino. Gli domando a cosa serva e mi risponde con il po’ di italiano che studia con passione da autodidatta: “È per ascolta. Per ascolta gente. Per ascolta città”. Accompagna queste parole con un movimento circolare dell’avambraccio, a palmo della mano rivolto verso il basso, e una risata asciutta che mi fa pensare alla famosa citazione apocrifa di Flaiano: “la situazione è tragica ma non seria”.
Il mio primo impatto con l’Iran è dunque quest’uomo loquace e poliglotta, la barba di tre giorni e le fotocopie sgualcite di una grammatica italiana nel cruscotto. A meno di un’ora dal mio arrivo, il suo sarcasmo mi dimostra che una teocrazia islamica non somiglia, come ingenuamente pensavo, a un monolite di granito popolato da devoti pronti al martirio.
Due giorni dopo saliamo su quella stessa torre per abbracciare il panorama di Tehran dall’alto: da una parte le montagne, dall’altra il deserto, nel mezzo una distesa di quartieri color sabbia spezzata da smisurati raccordi autostradali. La vista enfatizza i sedimenti dell’abitato: al centro l’organizzazione densa e impermeabile dei mahalleh ottocenteschi; nel mezzo ciò che resta della pianificazione urbanistica progettata negli anni ‘60 dall’austriaco Victor Gruen; alle estremità l’odierno e spugnoso proliferare di vasti insediamenti semi-informali.
La torre si chiama Milad, come un personaggio della Shahnama, il più importante poema epico del medioevo persiano, il più lungo mai scritto da un singolo autore – Ferdowsi – nella storia dell’umanità. Oggi è una delle principali attrazioni di Tehran e ospita un complesso di bar e negozi gestiti da un personale molto cortese che prima ci scambia per iraniani e poi ci domanda la nazionalità per “ragioni statistiche”. Sembra tutto tranne la centrale di una Stasi locale e mi ritrovo a chiedermi se il tassista non mi abbia semplicemente rifilato una leggenda urbana tinta di paranoia. La versione ufficiale è che si tratta solo di una torre per le telecomunicazioni inaugurata nel 2009: vistoso emblema della baldanza dell’Iran di Ahmadinejad.
È il primo di numerosi episodi che mi aiuteranno a capire come chiacchiera (forse) paranoica e verità (forse) di regime, esistenza pubblica e sfera privata, da queste parti ballino una continua danza semantica che disegna i contorni della vita nella seconda Repubblica Islamica al mondo. In una simmetria delle contraddizioni, ogni cosa qui proietta un’ombra sbiadita, all’apparenza identica a se stessa ma di fatto fuori fuoco. Persino la moneta, fisicamente sempre uguale come identico è il suo potere d’acquisto, per ragioni di inflazione ha due nomi e due valori nominali differenti: rial e toman. Per passare dall’una all’altra dicitura basta sottrarre uno zero, ci spiegano, ma l’utilità di questo procedimento resta oscura agli stessi iraniani, figuriamoci allo straniero.
“L’Iran è un luogo che vive al cento per cento di compromessi e contraddizioni”, mi dice Bijan, uno studente di filosofia ventottenne, specializzando in Lyotard all’Università di Tehran. Che in un paese impregnato da una forte ideologia religiosa si studi l’autore della “fine delle grandi narrazioni” è già di suo un fatto che mi sorprende. “Non dovrebbe” – continua Bijan – “finché non si muovono critiche esplicite all’ordine costituito nessuno si preoccupa troppo di censurare le idee”. Non fatico a credergli. Sono in città da meno di una settimana e ho già fatto l’abitudine alle ambivalenze locali.
Ci sono però anche aspetti della quotidianità locale a cui, per quanto mi sforzi, non riuscirò mai a fare il callo: per esempio che un’autorità religiosa possa stabilire cosa sia ammissibile bere o indossare. Quando glielo faccio notare, Bijan replica con un’osservazione che la dice lunga sul grado di stoicismo raggiunto dagli iraniani laici a riguardo: “se ci pensi l’hijab richiesto in Iran è davvero poco più di un foulard che lascia gran parte della chioma scoperta: una cosa impensabile in altri paesi islamici. È solo un altro compromesso”.
Un dilemma
Un compromesso che evidentemente va stretto ai molti iraniani mobilitatisi a sostegno di Vida Movahed, una trentunenne che lo scorso dicembre ha sventolato per oltre un’ora il suo “foulard” sulla Khiaban-e Enqilab (Via della Rivoluzione), una delle arterie più trafficate di Tehran e un luogo significativo per almeno due ragioni: è la strada dove nel 1978 scoccarono le scintille del khomeinismo e oggi rappresenta l’ideale spartiacque tra la ricca e secolarizzata bala-ye shahr, la città alta a nord, e la povera e devota paeen-e shahr, la città bassa meridionale.
Il fermo temporaneo della Mohaved e di altre “sventolatrici” non ha smorzato le proteste anti-hijab, trasferitesi nel frattempo online e alimentate da un dato diffuso, poche settimane dopo, dalla Segreteria del Presidente Hassan Rouhani: il 49,8% degli iraniani preferirebbe che il velo fosse una libera scelta. Un tempismo che somiglia molto a un preciso invito del moderato Rouhani ad aprire un dibattito sul tema, solo uno dei tanti al cuore del dilemma iraniano da Khomeini a oggi: “la Repubblica Islamica è prima di tutto Islamica e dedita all’imposizione delle rigide strutture della legge Islamica o è prima di tutto una Repubblica, in cui i diritti individuali sono prioritari rispetto alle leggi religiose?” (Robin Wright, The New Yorker, 7 febbraio 2018).
In una serata quasi estiva lambiamo in macchina un’area molto particolare di Tehran: una specie di enclave protetta in cui vivono le famiglie dei Sepāh-e Pâsdârân, ovvero le famigerate Guardie della Rivoluzione. Istituita da Khomeini nel 1979, si tratta di una aristocrazia militare che – a seconda dell’interlocutore con cui ne discuto – pare contare tra le sue fila i più grandi eroi della storia nazionale o gli individui più corrotti del paese. Tutti concordano però su questo: nessuno più dei Pâsdârân regola gli equilibri del dilemma di cui sopra. È infatti opinione comune che siano così potenti e facoltosi (controllano il 30% delle grandi aziende iraniane) da rappresentare ormai “uno stato nello stato” e che in Iran non si muova foglia, non cominci dibattito, non passi legge, senza il loro consenso.
E la loro influenza non si limita ai soli confini nazionali. Attraverso i reparti speciali Quds, diretti dal controverso generale Qasem Soleimani, i Sepāh giocano ruoli di primo piano in alcuni dei contesti più critici del Medio Oriente: Siria, Afghanistan, Iraq, Yemen, Palestina e Libano, dove supportano formazioni locali quali le milizie Baadr e Houthi, Hamas e Hezbollah (che hanno contribuito a fondare). Anche per queste connessioni sono universalmente considerati tra i principali agenti del caos dello scacchiere mediorientale e tra i maggiori responsabili della recente escalation di tensione nei rapporti tra Iran e Israele. Al punto che, in aggiunta al fresco abbandono dell’accordo sul nucleare, l’amministrazione Trump starebbe anche vagliando la loro inclusione nella lista delle organizzazioni terroristiche internazionali. Si tratterebbe di una classificazione senza precedenti per una milizia ufficialmente riconosciuta dal proprio paese.
Quando dal Pentagono questa voce è rimbalzata fino in Iran, la replica del Generale Mohamed Jafari, capo militare delle Guardie, non si è fatta attendere e decisamente non ha brillato per diplomazia: “in tal caso tratteremo le truppe americane di stanza in Medio Oriente come l’Isis”. Come già accaduto in passato, lo sfoggio muscolare americano ha ottenuto quindi soltanto di compattare e irrigidire il fronte interno iraniano, costringendo Rouhani a spendere pubbliche parole di solidarietà per le Guardie, quando invece da anni il suo governo lavora dietro le quinte per arginare la loro influenza, soprattutto in materia economica. I Sepāh, dal canto loro, hanno strumentalizzato le dichiarazioni del Presidente per rimarcare “la distanza tra le sue parole e le sue azioni”, solo l’ultimo episodio di una campagna di delegittimazione che portano avanti da quando Rouhani ha iniziato a intaccarne i profitti e finalizzata alla promozione di un loro candidato ultra-conservatore alle prossime elezioni del 2021.
Ancora all’oscuro di tutti questi intrighi machiavellici, mentre mi sfilano di fronte osservo le abitazioni in cui vivono queste specie di superuomini persiani. Sembrano molto vigilate ma anche, viste da fuori, piuttosto frugali. “In quanto miliziani devoti devono dare l’impressione di vivere con grande semplicità” – mi spiega Davoud, un giovane intellettuale che ci fa da cicerone in città – “ma non è un mistero che dietro queste mura si trovino alcuni degli appartamenti più lussuosi della città”. In uno di essi vive una sua amica, figlia di una delle Guardie più in vista. Me la descrive come una specie di it girl della scena hipster di Tehran, famosa per le feste che organizza, per i pregiati alcolici d’importazione che versa ai suoi ospiti, per il fatto che, appena varcata la sua soglia, alle donne è concesso togliersi il velo. Il tutto – ovvio – in flagrante violazione di numerose leggi della sharia su cui, in teoria, il padre dovrebbe vigilare.
Un crimine contro Allah
Non tutti possono permettersi di infrangere i precetti coranici brindando con costose bottiglie francesi o italiane e così, chi desidera comunque farlo si arrangia come può. Il giorno prima di costeggiare il quartiere dei Sepāh a bordo di una monovolume che vibra al ritmo di rap in farsi, ci ritroviamo casualmente a festeggiare il Nowruz (il capodanno iraniano che quest’anno cadeva il 20 marzo e celebrava l’anno 1397) a casa di una coppia ben oltre la mezza età. Davanti a una grossa tv sintonizzata su una scadente rom-com inglese con Keira Knightley, l’uomo, baffuto e rotondo, che insiste a condividere con noi le sue letture occidentali sfoderando una serie di scrittori italiani ormai decotti, a un certo punto appoggia sul tavolo due bottiglie e ci domanda quale vogliamo assaggiare. Scegliamo il rosso, non senza un po’ di timore per quello che ci aspetta, e invece dobbiamo ammettere che è sorprendentemente gradevole – giusto un po’ troppo alcolico – per un vino realizzato da lui stesso lasciando fermentare litri di succo d’uva dentro una vasca da bagno. Lusingato dai complimenti e dopo aver rimarcato più volte il suo disprezzo per la bigotteria e le ipocrisie del paese, ci illustra nel dettaglio il suo metodo di fermentazione e infine, in un crescendo di indignazione, conclude: “se volete conoscere il vero volto dell’Islam andate al Gran Bazar e fate caso alla fila di fronte alle bancarelle del succo d’uva!”
Il Gran Bazar è un enorme mercato parzialmente coperto e distribuito su più isolati, il più grande e noto di Tehran. Ci si può trovare una versione contraffatta (ma non solo) di quasi tutto ciò che si produce nel mondo, a patto di riuscire a districarsi tra la congestione dei corpi, l’affastellarsi delle merci e il vociare delle compravendite. Vinta la calca dell’ingresso principale – affacciato su una zona turistica a pochi passi dal Golestan: il palazzo reale dove si è celebrata l’incoronazione dell’ultimo Shah di Persia, Reza Pahlavi – la folla inizia a diradarsi e attraversando il mercato per intero si spunta a Tehran Sud. Qui in pratica comincia un’altra città, la cui demografia è esplosa nel periodo post-rivoluzionario con l’arrivo di numerosi Azeri dagli altopiani del Nord. I tehranesi più urbanizzati li chiamano dahati: un termine dispregiativo per stigmatizzarne la mentalità post-rurale. È lì che, tra una bancarella improvvisata che vende oggetti di terza mano e l’altra, notiamo una lunga fila di uomini piuttosto in là con gli anni, consunti e semi-riversi sul marciapiede. Scaldano rocce di crack su fogli di stagnola e ne ispirano i fumi con sistemi di fortuna. Tutto nella più completa indifferenza dei passanti.
A Tehran l’emarginazione non ha solo i volti scavati di questi anziani tossicodipendenti ma anche quelli, molto più pieni, di migliaia di giovani afgani che ogni anno peregrinano qui in cerca di mansioni ormai disdegnate dai locali. Di lavori molto umili in effetti ne trovano ma, con essi, anche un razzismo allo stato brado, in un contesto culturale così povero di dibattito in merito da considerare ancora la black-face un modo ammissibile di rappresentare le persone di colore. La presenza degli afgani in Iran è un fatto secolare, tuttavia negli ultimi quarant’anni il loro numero è cresciuto esponenzialmente, di pari passo con gli eventi più tumultuosi della recente Storia del loro paese: la guerra coi sovietici negli anni ‘80, la presa del potere dei Talebani nei ‘90, l’invasione americana negli ‘00, la discesa dell’Afganistan in un caos di sigle terroristiche in questo decennio. Secondo le stime delle Nazioni Unite, oggi in Iran vive quasi un milione di afgani. Secondo quelle del Ministero degli Interni iraniano, includendo gli immigrati non registrati, si toccano i due milioni e mezzo. Anche prendendo per buona la cifra più prudente si tratta comunque della più numerosa comunità di rifugiati al mondo.
L’unico sistema per rallentarne l’afflusso escogitato dal governo di Tehran è stato di rosicchiare, uno dopo l’altro, i diritti civili di cui i migranti afgani possono godere una volta nel paese. Da anni, per esempio, non gli è più possibile ottenere la cittadinanza né un visto permanente (restrizioni che si estendono anche allo ius soli di eventuali figli nati in Iran). In alcuni distretti addirittura non gli è permesso possedere mezzi di trasporto propri, frequentare alcuni tipi di scuola o svolgere alcuni tipi di impiego. I rimpatri forzati sono all’ordine del giorno e di frequente eseguiti senza considerazione per i diritti umani, per lo status di “rifugiato politico” o per la sorte del rimpatriato al rientro in Afganistan. I processi per eventuali crimini sono spesso sommari e in passato si sono conclusi con sentenze di pubblica impiccagione. Un report di Human Rights Watch del 2014, raccontava infine come migliaia di afgani entrati illegalmente in Iran, siano stati spinti – con la promessa di regolarizzarne la posizione – ad arruolarsi nella brigata afghano-sciita Fatemiyoun. Ufficialmente la loro posizione era di “supporto logistico all’intervento iraniano in Siria” ma la realtà raccontata dai reduci è molto diversa. Disastrosamente equipaggiati e utilizzati per aprire nuovi fronti di combattimento, di fatto fornivano alle milizie regolari quella che si dice “carne da cannone”. Sempre Human Rights Watch, lo scorso ottobre, ha scoperto in un cimitero di Tehran numerose tombe che celebravano il sacrificio di alcuni degli oltre seicento Fatemiyoun morti in Siria dal 2014 a oggi. Su otto lapidi, tra la data di nascita e quella di morte, erano passati meno di quattordici anni.
Secondo il Diritto Internazionale il reclutamento sotto i quindici anni è un crimine contro l’umanità. Secondo il Corano il reclutamento sotto i sedici è un crimine contro Allah.
Non tutte le discriminazioni sono necessariamente macroscopiche, evidenti o legalmente sancite. Ne esistono, è ovvio, anche di più sottili, implicite nelle abitudini di una società ma non per questo causa di minore alienazione o sofferenza per chi le subisce. Uno degli aspetti forse meno discussi del trattamento da paria che i migranti ricevono nei vari contesti in cui vengono messi ai margini è per esempio quello che investe la sfera sessuale. È una cosa a cui mi ero già trovato a pensare osservando i giovani nord- e centro-africani che stazionano tutto il giorno di fronte alla Stazione Centrale di Milano, privi di una qualsiasi valvola di sfogo in tal senso. Ci ripenso – e non potrei non farlo – un pomeriggio ai piedi dell’Azadi, una torre monumentale in marmo bianco di Isfahan, voluta dallo Shah Reza Pahlavi e inaugurata nel 1971 per celebrare i venticinque secoli dalla fondazione dell’Impero Persiano e la ritrovata opulenza dell’Iran, all’epoca terzo esportatore di petrolio tra i paesi OPEC.
Posta a uno degli ingressi della città e al centro di una rotonda sconfinata, quando la visitiamo formicola di giovani uomini: sono centinaia, forse migliaia, tutti maschi, quasi tutti afgani. Formano un’unica massa di corpi allenati e sguardi intimiditi, da cui sprigiona un’atmosfera testosteronica difficile da ignorare. Si sfoga in quella che si può solo descrivere come una intensa bromance sottilmente omoerotica, che in parte è culturale e tipica dei paesi che vanno dalla Turchia all’Asia Centrale, e in parte, presumo, è dettata dalle condizioni di frustrazione sessuale in cui queste centinaia di giovani migranti – pressoché invisibili per le donne iraniane – si trovano a vivere.
Un Re
Hossein Amanat è il nome dell’architetto che, nel 1966, vinse la gara per disegnare la Borje Azadi (“Torre della libertà”), in precedenza nota, per il breve volgere di otto anni, con il nome di Borje Ŝahyād (“Torre dello Shah”) – solo una delle tante mutazioni toponomastiche subite da Tehran con l’avvento di Khomeini. Presentando il progetto allo Shah Reza Pahlavi, Amanat aveva tenuto a sottolineare come la struttura ibridasse ispirazioni contemporanee – su tutte l’Opera House di Sidney, all’epoca ancora in costruzione – ed elementi tradizionali quali le geometrie sassaniane della volta principale.
Il richiamo a questa antichissima scuola architettonica persiana non era peraltro fine a se stesso ma parte di una più ampia strategia culturale dello Shah. Riportando alla luce le radici pre-islamiche dell’Iran, Pahlavi sperava di promuovere una nuova narrazione del paese – un pastiche di Storia e modernità, un artificio retorico che all’epoca ricorreva in molti paesi in via di sviluppo – alternativa a quella delle elite religiose ultra-tradizionaliste che gli erano apertamente ostili.
Mohammad Reza Pahlavi era diventato Shah a trentadue anni nel pieno della Seconda Guerra Mondiale. Nel 1941 un contingente anglo-sovietico era entrato in Iran senza grande sforzo, aveva detronizzato il padre di Mohammad, in forte sospetto di simpatie naziste, e aveva messo in mano uno scettro al figlio. Le idee politiche del padre di Pahlavi in fondo erano però state poco più di un pretesto. Agli Alleati il controllo dell’Iran era indispensabile per stabilire il cosiddetto “corridoio Persiano”: uno snodo logistico attraverso cui transitarono oltre 18 miliardi di dollari in prestiti militari inviati da Roosevelt e Churchill a Stalin che stava disperatamente resistendo all’invasione nazista.
Finita la guerra, Pahlavi rimase a lungo percepito all’interno e all’esterno dell’Iran come un Re fantoccio, una marionetta di Londra e Washington che passava più tempo a scrivere poesie in francese che a governare. Di certo non lo aiutò a scrollarsi questa etichetta, la scelta di avallare un piano della CIA per rovesciare il governo di Mohamed Mossadeqh, un primo ministro democraticamente eletto che, agli occhi degli interessi occidentali e in particolare britannici, si era macchiato della “colpa” di aver promosso la nazionalizzazione dell’industria petrolifera iraniana sottraendola al controllo della Anglo-Persian Oil Company (in seguito divenuta British Petroil). Da lì a finire sulla lista nera del notoriamente vendicativo Churchill e a venir frainteso come un potenziale comunista dal mai abbastanza paranoico Eisenhower, il passo fu breve e il destino di Mossadegh segnato: tre anni di carcere e arresti domiciliari a vita.
Era il 1953, Pahlavi regnava già da dodici anni ma di fatto – esclusa una parentesi da consigliere del padre – non aveva mai preso una decisione politica in vita sua. Si ritrovò quindi di colpo a essere l’unica guida di un paese che già prima del coup vedeva in lui un contrappunto stonato all’amatissimo ex premier, e dopo un evidente traditore degli interessi nazionali. Deciso a recuperare l’affetto dei suoi sudditi e il rispetto delle elite che lo consideravano un uomo debole, narciso e viziato, dalla seconda metà anni ’50 Pahlavi cominciò via via ad agire in modo politicamente più incisivo e a concepire se stesso nelle vesti del sovrano progressista. Sfortunatamente privo della sensibilità per cogliere che la mentalità di molti iraniani non poteva essere cambiata dal giorno alla notte, negli anni ’60 avviò un esteso programma di riforme (Rivoluzione Bianca) che, venendo percepito come un’imposizione dall’alto, lo portò ad alienarsi gli strati più conservatori della società. Se li fece definitivamente nemici quando, nel 1964, decise di esiliare uno dei loro punti di riferimento: l’Ayatollah Ruhollah Khomeini.
Con la Rivoluzione Bianca, Pahlavi sperava di costituire un soggetto sociale maggioritario di tipo moderno. Una classe media secolarizzata che – arricchita dallo sviluppo economico e modernizzata da riforme costituzionali quali l’apertura al voto femminile – gli sarebbe stata leale in caso di avversità. Col senno di poi, il giudizio storico gli è però decisamente sfavorevole. Pahlavi riuscì sì a sciogliere alcuni antichi legami clientelari e religiosi inscritti in profondità nella società iraniana ma non fece abbastanza per crearne di nuovi a sua tutela. Di fatto, senza accorgersene contribuì a costituire un ceto di cani sciolti: masse di ignavi politici più impegnate a fiutare l’aria per assicurarsi la sopravvivenza che a dimostrare lealtà a chicchessia.
Allo stesso tempo, con il ricorso a forme di repressione spesso brutali, contribuì a gonfiare di risentimento gli iraniani più tradizionalisti: milioni di cittadini che non solo non si erano fatti intorpidire dal nuovo benessere ma disprezzavano l’occidentalizzazione dei costumi e si riconoscevano ancora fortemente in Ayatollah in esilio. Messi insieme tutti questi ingredienti, si capisce perché quella che doveva essere una evoluzione socialdemocratica del paese, “disegnata per prevenire una Rivoluzione Rossa, finì invece con lo spianare la strada a una Rivoluzione Islamica” (Ervand Abrahamian, Iran Between Two Revolutions, Princeton Press).
Una Rivoluzione
Mascherate dai dividendi del petrolio, schizzati alle stelle dopo la crisi energetica del ’73, le zoppie del riformismo di Pahlavi rimasero a lungo nel cono d’ombra della Storia. Ancora a metà degli anni ’70, lo Shah, che era sempre parso preferire le lusinghe dei “grandi della Terra” all’apprezzamento dei suoi concittadini, si prendeva le copertine delle principali riviste occidentali che lo incensavano come uno dei leader più abili del pianeta. Un “despota illuminato”, lo incoronava Richard Nixon nel ’71. “Un’isola di stabilità in un mare di incertezze”, lo definiva Jimmy Carter in un’intervista rilasciata al TIME nel ’77. L’uomo che avrebbe portato il suo paese a superare “gli standard di vita americani entro vent’anni”, diceva Mohammad Reza di se stesso, giusto un anno prima, a un giornalista egiziano.
E in effetti per tutti gli anni ’70, l’Iran crebbe a ritmi da boom e Tehran in particolare veniva celebrata come una delle città culturalmente più vivaci, mondane e moderne dell’intero spicchio mediorientale, anche per merito delle ambiziose visioni urbanistiche del già citato Victor Gruen. Quando però le previsioni di crescita del PIL, poco realisticamente tarate sull’impennata del prezzo del petrolio del ’73, si scontrarono con la contrazione dell’economia globale del biennio ’77/’78, la realtà, come spesso fa quando la si trascura troppo, si presentò per riscuotere il conto.
In principio parvero risibili e disorganizzate manifestazioni di isolato scontento. C’era chi si lamentava dell’iniqua redistribuzione della ricchezza, chi dell’eccessiva secolarizzazione del paese, chi della corruzione delle burocrazie, chi degli stravaganti lussi che i reali si concedeva pubblicamente. I più determinati erano ovviamente i familiari delle migliaia di dissidenti politici scomparsi tra le grinfie della SAVAK, la polizia segreta dello Shah addestrata dalla CIA. Per tutto il suo regno, infatti, Pahlavi non trascurò mai di mescolare l’ambrosia del benessere con il ricino della repressione.
L’unica cosa certa è che i manifestanti provenivano da estrazioni molto diverse: intellettuali di sinistra che auspicavano la socializzazione dei profitti del petrolio, ultra-tradizionalisti che incitavano il ritorno dell’Ayatollah, studenti, emarginati, professionisti, dipendenti pubblici, agitatori di professione, antagonisti personali di Pahlavi. Sembravano pezzi troppo eterogenei per comporre un unico puzzle. E invece, anche grazie a due inattesi alleati, finirono per trovare gli incastri.
Da un lato le repressioni indiscriminate dello Shah dotarono i rivoltosi di un unico esprit de corps che inizialmente non possedevano. Dall’altro – come avrebbero fatto trent’anni dopo con le Primavere Arabe – le intellighenzie progressiste occidentali scambiarono quella che era una feroce lotta di potere interna a un singolo paese per un’insurrezione fondata su principi democratici universali, finendo così con fornire un’enorme cassa di risonanza alle predicazioni di Khomeini. Dal New York Times alla BBC, i media occidentali facevano infatti la fila di fronte al suo eremo parigino per ritrarlo come un mistico perseguitato che non desiderava altro che la “liberazione spirituale” del suo popolo dal giogo dell’ “oppressione materialista” dello Shah. Capirono troppo tardi che dietro l’aura da mistico di Khomeini, c’era in realtà un uomo che si esprimeva così: “Sì, noi siamo reazionari e voi intellettuali illuminati: voi intellettuali non volete farci tornare indietro di 1400 anni. Voi che volete la libertà, la libertà per ogni cosa, la libertà dei partiti, voi che volete tutte le libertà, voi intellettuali: la libertà che corromperà i nostri giovani, la libertà che spianerà la strada al nostra oppressore, la libertà che trascinerà la nostra nazione nell’abisso”.
I bobos di Londra e New York non furono però i soli a farsi sedurre dalle ieratiche sopracciglia dell’Ayatollah. In Iran Awakening, il Premio Nobel Shirin Ebadi ricorda infatti i tanti giovani e benintenzionati iraniani – lei e molte altre donne istruite in testa – che nella iniziale confusione di schieramenti caddero vittime della vaghe promesse di palingenesi ed equità sociale fatte dalla Rivoluzione. Capirono solo troppo tardi che la loro entusiastica adesione sarebbe stata utilizzata per istituzionalizzare una notevole perdita di laicismo, libertà personali, pari opportunità e l’obbligo di indossare un “foulard”.
Dopo una lunga stagione di scontri intestini tra le varie correnti della Rivoluzione – aggravata nel 1980 da un durissimo conflitto con l’Iraq, sostenuto e armato da Reagan – a partire dal 1982 la situazione si andò infatti progressivamente cristallizzando. Il nuovo Iran che usciva dal fervore rivoluzionario era, a tutti gli effetti, una Repubblica Islamica con un codice legale basato in larga misura sulla sharia.
Il Grande Ayatollah Ruhollah Khomeini, rientrato a Tehran nel 1979, ne era il Leader Supremo.
Si concludeva così, con successo, la “prima scalata islamista al potere di un grande paese” (Gli Anni del Terrore, Lawrence Wright, Adelphi 2016) e l’Iran diventava il modello a cui guardare per tutti gli islamisti radicali del mondo. Che uno dei paesi più ricchi e moderni dell’intero mondo musulmano si fosse trasformato in una teocrazia nel giro di pochi anni, gli forniva la speranza che la stessa cosa potesse ripetersi altrove.
Uno sguardo
Di quegli anni di grandi tensioni politiche Tehran porta ancora diversi segni, tra questi l’ex-ambasciata americana oggi riconvertita a museo della propaganda anti-occidentale. È un palazzo basso, color nocciola e macadamia, protetto da una cinta muraria coperta da dipinti che augurano svariati tipi di “death to America” e che necessitano di qualche restauro, come del resto tutto l’edificio. È qui che si è svolta la famosa “crisi degli ostaggi” – cinquantadue diplomatici e militari statunitensi tenuti in ostaggio da un gruppo di studenti musulmani dal novembre 1979 al gennaio 1981 – che fa da sfondo ad Argo, il film di Ben Affleck premiato con l’Oscar nel 2013.
Varcato l’ingresso della palazzina veniamo subito intercettati dall’unica persona presente: un trentenne baffuto che parla un ottimo inglese. Si offre di farci da guida per i vari locali: qui la stanza a prova di cimice in cui l’ambasciatore svolgeva gli incontri più delicati, là l’interno della CIA a cui si accedeva solo conoscendo un complesso rituale di gesti che includeva pigiare il piede destro su uno specifico punto di una pedana prima ancora di poter digitare un codice segreto su una pulsantiera, laggiù i macchinari con cui gli americani hanno fatto a striscioline i documenti più riservati mentre le difese dell’ambasciata cadevano una dopo l’altra.
L’effetto è quello di trovarsi in una capsula del tempo chiusa nel 1979: ogni goffo e ingombrante, ma all’epoca avanzatissimo, computer che oggi occuperebbe lo spazio di un chip, è stato preservato come se l’irruzione fosse avvenuta il giorno prima. Uno schedario porta ancora i segni dei proiettili sparati per sfondarlo e le bruciature del metallo intorno ai fori d’ingresso pare non abbiano mai smesso di scottare. Su un altro gli occupanti hanno dovuto lavorare per giorni prima di riuscire a forzarlo. Ci hanno provato in ogni modo e alla fine ce l’hanno fatta grazie uno speciale martello pneumatico fatto arrivare dalla Germania. Leggo la targhetta adesiva appiccicata a uno dei cassetti ormai divelti – dice: “Made in Wyoming, 1972” – e penso a tutti quei piccoli dettagli che sopravvivono totalmente ignorati tra le pieghe delle grandi storie della Grande Storia.
Ogni spiegazione di ogni oggetto e di ogni sua losca funzione è immancabilmente accompagnata, almeno nel tono tra l’affranto e il compiaciuto della guida, da un sottile e implicito giudizio sui porci yankee. E ogni volta, quando l’ha terminata, mi sento scrutare in cerca di un qualche cenno di neutrale approvazione. Sotto quello sguardo provo costantemente un leggero disagio che, insieme a una sua certa tendenza all’apodittica, mi rende difficile porgli ulteriori domande. Non saprei descriverla che come una scissione nel profondo della mia identità, una piccola sindrome di Stoccolma che, in un luogo come questo, chiama direttamente in causa tanto il fatto che il mio è indubbiamente un passaporto occidentale, quanto il fatto che indubbiamente non è un passaporto americano. Da una parte vorrei poter genuinamente simpatizzare con il modo in cui il suo sguardo si poggia su tutto quanto mi sta mostrando, dall’altra vorrei chiedergli quanta empatia gli sembrerebbe abbastanza. Quanto disprezzo del mondo in cui vivo da 35 anni – e che i “suoi nemici” hanno grandemente contribuito a plasmare – dovrei mostrare per soddisfarlo.
Quasi al termine della visita ci accompagna in una stanza piuttosto spoglia – l’ufficio amministrativo del museo – e ci fa segno di sedere mentre lui prende posto all’altro lato di una lunga scrivania. Con fare da catechismo ci mostra alcuni libri. Pubblicati tra la fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90 sono il risultato di un lavoro decennale di ricomposizione delle striscioline di cui sopra, in cui sono stati coinvolti anche numerosi bambini (“per loro era divertente, era come fare un puzzle”, ci spiega serafico) e contengono le fotocopie (con traduzione in arabo e in farsi a fronte) dei più significativi segreti americani recuperati durante il sacco dell’ambasciata. Hanno titoli auto-evidenti come American Middle-East Strategy 1955 – 1975 o Oil Economy 1973 e così via. I volumi sono tantissimi, quasi tutti con copertine graficamente molto interessanti, e il giorno seguente ne compreremo quattro per pochissimi rial in una libreria dell’usato vicino alla Enqilab. Al termine della “presentazione” ci prega di fermarci ancora qualche minuto. Vuole mostrarci un video.
Sono già pronto ad assistere a immagini cruentissime e invece il video si rivela essere un cartone animato. Utilizza un linguaggio visivo che mi ricorda quei filmati, stupidi e iper-semplificanti, che le start-up occidentali commissionano a qualche animatore sottopagato di Brooklyn o Kreuzberg per sintetizzare i loro servizi con qualcosa di più colorato e divertente di un keynote. È tutto un susseguirsi di illustrazioni che si trasformano in qualcos’altro: grafici a torta che diventano pianeti, forme che diventano persone, copricapi di Ayatollah che diventano cartine geografiche, matite che diventano missili e così via. Tutto scorre velocissimo, così veloce che sembra un errore, il volume non è molto alto, l’inglese ha un forte accento mediorientale e quindi ci metto un po’ a capire cosa sto guardando anche perché inizialmente mi sembra tutto abbastanza illogico. A un certo punto ho un’illuminazione: si tratta di una Storia alternativa, di un what if?, di un’ucronia. È il racconto di un universo parallelo in cui è l’Iran ad aver fatto agli Stati Uniti quello che secondo molti iraniani – e in alcuni casi anche gli storici occidentali e la stessa CIA – gli Stati Uniti hanno fatto all’Iran: il rovesciamento di un premier molto amato, una guerra decennale usando un paese confinante come braccio armato (nel video è il Canada a fare le veci dell’Iraq e la cosa mi fa sorridere), una lunga politica di ingerenze e così via.
Il filmato termina. Di nuovo quello sguardo.
Un punto di non ritorno
Per uscire dall’ambasciata dobbiamo passare di fronte ai poster kitsch che compongono la parte più rozzamente “propagandistica” della visita. Mi rimane impresso quello che sembra una pubblicità di KFC, soltanto che al posto dell’abituale The Colonel in questo caso c’è una caricatura di Netanyahu e una scritta che dice “Killing Palestine Children”. E poi: un fotomontaggio di Obama con una lunga barba sale e pepe e un turbante nero alla maniera dell’ISIS. Ironicamente è identico alle tante immagini del genere prodotte in seno alla proto-alt-right americana all’epoca delle assurde polemiche sul certificato di nascita dell’ex-presidente. Più di tutto però mi colpisce un graffito tricolore – ambra, turchese e mogano – che gira intorno alla rampa delle scale che porta al primo piano. Stilisticamente indistinguibile da quelli che si possono incontrare in un qualsiasi angolo di Occidente, è un ciclo pittorico che, in una serie di scene madri, esalta i fallimenti della politica americana in Medio Oriente dall’11 settembre in poi. Non è tanto il ribaltamento di prospettiva a straniarmi quanto l’adozione di una tecnica – il ciclo – tipica del medioevo cristiano e di un linguaggio – il writing – nato proprio nella città delle Torri Gemelle.
Il video in stile Silicon Valley e il graffito in stile 5 Pointz sono solo le prime occorrenze di una più diffusa dissonanza cognitiva che Tehran non cesserà di stimolare per tutto il mio soggiorno. Ogni muro significativo della città è infatti coperto di enormi illustrazioni semioticamente identiche a quelle che in altre metropoli promuoverebbero l’ultima app della gig-economy o un nuovo smartphone. Qui invece celebrano le grandi gesta di qualche Sepāh, la probità della gioventù iraniana, le virtù dell’Islam. Come mi spiega Davoud, le illustrazioni sono tutte farina del sacco di uno stesso studio di design, dal gusto estremamente contemporaneo e occidentale, che lavora quasi esclusivamente su commissioni governative. Su due piedi mi sembra una resa evidente a “forme del comunicare” esogene. Su due piedi mi sembra un punto di non ritorno.
Questo fiorire di turbo-pop istituzionalizzato convive, muro a muro, con numerosi e severi ritratti di Khomeini, del suo successore Ali Khamenei o con vecchi murales scrostati dal gusto più marcatamente persiano. Soprattutto convive con le infinite schiere di volti dei “martiri” della Rivoluzione e della guerra con l’Iraq realizzati a inizio anni ‘80. Disegnati con uno stile semplice, essenziale e quasi naif, i martiri hanno profili barbuti e teste ricciolute, visi spesso molto giovani e quasi indistinguibili tra loro, resi ancora più tali dall’essere stati eternati con indosso un’identica divisa. Posseggono tutti il genere di sguardo pieno di fervore e devozione e sacrificio in nome di qualche impalpabile e astratto valore ultraterreno, che, prima di atterrare qui, ingenuamente pensavo di incontrare quasi dovunque, tra i vivi, e che, invece, nel 2018 a Tehran sopravvive quasi soltanto nel languido ammonimento di questi morti in avanzata fase di sbiadimento. In avanzata fase di oblio simbolico, a favore della gigantografia di qualche personaggio più recente che potrebbe essere stata realizzata da Jorit Agoch.
Aggirarsi oggi per Tehran significa anche scoprire che la caffetteria del museo d’arte contemporanea serve lo stesso tè matcha e la stessa cheese cake servite alla Tate o al MoMa. Che i negozi sportivi vendono Jordan limited edition, New Balance 998, magliette di Lebron James e Cristiano Ronaldo. Che le t-shirt più indossate sono repliche di Balenciaga, Diesel e Ralph Lauren. Che i localetti dove si consumano centrifughe alla carota e zenzero su banconi in finto abete non mancano. Aggirarsi per Tehran insomma è un costante promemoria della pressione capillare – mimetica e memetica – che il soft-power occidentale riesce ancora e dovunque a esercitare. Compreso su un paese che censura sistematicamente alcuni dei suoi più potenti cavalli di Troia: il cinema, la televisione, numerosi indirizzi internet, alcune dirette sportive.
A giudicare dal volto che mostra la sua capitale, l’impressione è che l’hardware politico dell’Iran sarà forse ancora quello di una teocrazia Islamica ma che per molti, forse la maggioranza, degli abitanti di questa città, i software culturali più amati siano ormai quelli dei nemici giurati di coloro che l’hardware l’hanno progettato, assemblato e che, per il momento, hanno ancora saldamente il dito sull’interruttore. Fino a quando? Non si sa. Fino a quando probabilmente, per parafrasare Keats, “le cose si dissoceranno, il centro non terrà e la pura anarchia si rovescerà sul mondo”.
Come mi dice Davoud, davanti a una birra analcolica che beviamo inerpicati nell’angusto soppalco di un baretto scuro e fumoso: “l’Iran è un paese chiuso, orgoglioso di esserlo e che difficilmente riesce a cambiare con gradualità e senza grandi drammi. Anche quando la situazione non è ideale, per la mentalità di queste parti è comunque preferibile all’ignoto del nuovo”.
I primi a pensarla in questo modo e a essere al corrente della ormai quasi incontrollabile virulenza dei batteri del consumismo occidentale, sono proprio loro: gli Ayatollah, i Sepāh, il Majis, le grandi espressioni dell’Iran ultra-tradizionalista. Lo si capisce dall’insistenza con cui ritornano, ancora e ancora, a stigmatizzarne la diffusione tra i giovani. Se potessero trasferire tutti quanti su un altro pianeta lo farebbero domani, lo farebbero oggi. È difficile simpatizzare con le loro figure ma, al netto della difesa dei loro interessi particolari, i loro moventi sentimentali non sono impossibili da comprendere: sono gli stessi di Sayyid Qutb, un intellettuale egiziano degli anni ’50, il cui apporto alla rinascita islamista è impossibile da sottovalutare, secondo il quale il mondo occidentale era responsabile di aver corrotto e umiliato la società islamica intorpidendola proprio con i suoi prodotti più frivoli. A differenza di Qutb, però, che scriveva in un’epoca in cui in Egitto esisteva a malapena la televisione, oggi appaiono come tanti Don Quixote che, al pari di molti altri anacronismi politici “di ritorno” anche in Occidente, difendono un’idea di purezza culturale resa inservibile il giorno stesso in cui al CERN hanno acceso una cosa chiamata World Wide Web.
Un gioco di parole
L’Iran – precisa qualche giorno dopo Bijan – è però anche un paese “doppio” che nella sua storia recente spesso ha fatto di nascosto molte cose che apertamente prometteva di non fare. “Non sempre” – aggiunge – “per colpa solo sua. A volte la rigidità, la sfiducia e la doppiezza delle classi dirigenti locali sono state un semplice riflesso della rigidità, della sfiducia e della doppiezza con cui l’Iran è stato trattato e percepito all’esterno”.
Gli ultimi quindici anni di storia dei rapporti tra Iran e Stati Uniti sono, in questo senso, eloquenti: un perfetto sistema di feedback.
Anche per ovvi interessi regionali, nel 2002 il moderatamente progressista Presidente Mohammad Khatami si offre di aiutare le truppe americane in Iraq e Afghanistan. E in effetti fornisce loro parecchia intelligence ma, alla fine dei conti, tutto quello che ottiene è di ascoltare George W. Bush inserire pubblicamente l’Iran tra i paesi della cosiddetta “asse del male”. Risultato: l’Iran elegge il radicale Ahmadinejad, ovvero il candidato iper-conservatore e violentemente antisemita dei Sepāh. Nel frattempo alla Casa Bianca arriva Obama, il quale propone una politica distensiva con l’Iran, parla di “aprire il pugno e tendere la mano” e – tramite Kerry – porta avanti una estenuante trattativa per fermare il programma nucleare dell’Iran, promettendo in cambio aiuti economici e la fine delle sanzioni che da dieci anni frenano la crescita dell’economia locale. Risultato: il paese passa a Rohuani, notoriamente moderato e da sempre critico degli eccessi verbali del predecessore. In seguito però emerge come, dietro il volto conciliante del nuovo Presidente, attraverso i Quds l’Iran sta approfittando della passività obamiana e degli squilibri prodotti dalla guerra in Siria per portare avanti una chiara politica di potenza in Medio Oriente in chiave anti-israeliana ed è direttamente coinvolto pressoché in tutte le attività di destabilizzazione dell’area, dal Libano allo Yemen passando per la stessa Siria. Risultato: arrivato alla Casa Bianca, Trump ha buon gioco nel dipingere l’Iran come uno stato canaglia e smontare pezzo per pezzo le politiche cooperative di Obama e Kerry, a cominciare proprio dalla bozza di accordo sul nucleare siglata nel 2015. Risultato: come già nel 2005, lo “stato profondo” iraniano si sta ora muovendo per cercare un nuovo Ahmadinejad da dare in pasto a un elettorato che, nel 2021, sarà con ogni probabilità sempre più disilluso circa l’affidabilità americana e ancora più economicamente frustrato dalla mancata fine delle sanzioni.
Quello che da anni si gioca da queste parti sembra insomma il più classico dei giochi a somma zero. Un Grande Gioco contemporaneo che coinvolge alcuni degli attori e dei temi politici più rilevanti del pianeta: dalla Russia neo-zarista agli interessi dei Sauditi, dalla questione del petrolio a quella israelo-palestinese, dalla crisi Siriana a quella Yemenita, dalla proliferazione nucleare alla guerra culturale tra Islam e mondo secolarizzato.
Il fatto è che ognuna di queste questioni è così intrecciata a tutte le altre da rendere impossibile sfiorarne una soltanto senza ottenere un gigantesco effetto domino. E così, gattopardescamente, a livello macro-politico in Iran “tutto cambia perché nulla cambi”.
È un sistema, mi sembra, in cui tutti perdono e nessuno vince, solo perché il contrario significherebbe una rottura dello status quo che probabilmente nessuno davvero auspica. Di certo non la nuova destra americana, in grado di ragionare solo nei termini dei suoi legami particolari con Nethanyahu e l’Arabia Saudita, e neppure l’Iran tradizionalista a cui fa comodo avere uno spauracchio al proprio esterno da agitare di fronte all’elettorato. È evidente che non è negli interessi di nessuno di questi soggetti l’emancipazione politica ed economica di un enorme paese persiano-sciita con vocazione di leadership sull’area.
La migliore metafora di questa tragica impasse – della matassa di ipocrisie e doppiezze che avviluppa l’Iran al suo interno come al suo esterno – si trova forse in Una Separazione, il film di Asghar Faradi premiato nel 2011 come miglior pellicola straniera agli Oscar. Raccontava la storia di due famiglie di Tehran – una estremamente povera, sanguigna e molto devota, l’altra borghese, più razionale e religiosamente emancipata – che rappresentano esattamente le due facce della società locale e che, anche per questo, si fanno una guerra a colpi di bugie, incomprensioni e mezze verità finendo per uscirne entrambe distrutte, pur non avendo nessuna delle due del tutto torto ma se per questo neppure del tutto ragione.
Nel mezzo di questa guerra: le due figlie delle rispettive famiglie. Sono gli unici personaggi che provano a dire la verità fino in fondo e a cercare una qualche forma di empatia reciproca che vada oltre le loro differenze. Sembrerebbero rappresentare una qualche forma di speranza riposta da Faradi nelle nuove generazioni. Purtroppo sono anche le due figure che subiscono maggiormente la situazione e che, alla fine, vengono travolte dagli errori dei “grandi”.
L’ultima sera a Tehran finisco a casa di un amico di Davoud e Bijan. A differenza loro parla poco inglese e non è un “intellettuale”. È ben piantato, assomiglia vagamente a Messi, fa il pompiere e vive in una bella villetta arredata con un certo gusto. Al centro del salotto è acceso un grande televisore alla quale è attaccata una X-Box. Beviamo delle birre analcoliche guardando un vecchio show di Louis C.K. che ho già visto un paio di volte. C’è una parte in cui Louis C.K. scherza su come la cultura cristiana occidentale abbia vinto tutto nel “grande Monopoli delle civiltà” e lo dimostra il fatto che tutto il mondo conta gli anni dalla morte di Gesù Cristo anziché da quella di qualche altra figura. È una battuta che mi fa ripensare al tema dell’ “umiliazione culturale” di cui scriveva sessant’anni fa Sayyd Qutb, ma soprattutto è una battuta particolarmente straniante da riascoltare nel 1397 iraniano. I miei ospiti però non battono ciglio.
Li metto al corrente degli ultimi serissimi guai del comico e mi accorgo che la cosa suscita meno clamore di quello che mi sarei aspettato, dopodiché Bijan insiste per mostrarmi l’account instagram di una sua ex. Ha i capelli tinti di blu ed è una gamer abbastanza famosa per una serie infinita di video in cui si riprende mentre gioca a questo o quel videogioco. In nessuno di essi porta il velo.
Birra analcolica a parte, è la tipica serata casalinga tra amici maschi che facevo quando avevo qualche anno meno di loro.
Dopo un paio d’ore ce ne andiamo. Salgo sulla macchina di Bijan, sono le 2 di notte e le tangenziali di Tehran sono ancora trafficatissime. Da quando hanno scoperto che sono un fan del genere, i ragazzi non fanno altro che farmi ascoltare rap iraniano e chiedermi “ti piace questo pezzo? E questo?”. Mentre mi domando cosa significhi fare rap in un paese in cui gran parte di ciò che compone l’immaginario del genere è di fatto vietato dalla legge, Davoud si ricorda di una canzone del 2007 che devo “assolutamente ascoltare”, a suo parere il più grande classico della storia del rap locale. Parte un beat abbastanza generico, a metà tra un classico boom-bap e una melodia mediorientale, seguito da un cantato che è praticamente un unico lungo ritornello in cui si ripetono due parole – Khatte man – di cui chiedo il significato.
“In pratica” – mi spiega Bijan con divertito entusiasmo – “è un gioco di parole: significa sia ‘il mio sentiero’, in senso religioso e spirituale, sia ‘una riga’ nel senso della cocaina. In questo modo ognuno può sentirci quello che preferisce e il governo non censura la canzone. Geniale, no?”.
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