La rivoluzione industriale e le sue conseguenze sono state un disastro per la razza umana (…). Il continuo sviluppo della tecnologia peggiorerà la situazione. Essa sottometterà gli esseri umani a trattamenti sempre più abietti, infliggerà al mondo naturale danni sempre maggiori, porterà probabilmente a maggiore disgregazione sociale e sofferenza psicologica e a incrementare la sofferenza fisica nei paesi sviluppati. (…) Il sistema tecnologico industriale può sopravvivere o crollare. Se sopravvive, potrebbe [farlo] solo al costo di ridurre permanentemente gli esseri umani a prodotti costruiti, semplici ingranaggi della macchina sociale.
Con queste parole si apre “La società industriale e il suo futuro”, il pamphlet – pubblicato nel 1995 sul New York Times e sul Washington Post – in cui è condensata l’ideologia di Theodore J. Kaczinsky, meglio noto come Unabomber: il terrorista statunitense autore di molteplici attentati esplosivi che, tra il 1978 e il 1995, hanno causato la morte di tre persone e il ferimento di altre ventitre. A rispolverare le azioni, e le teorie, di un personaggio così controverso è stata la miniserie prodotta da Netflix Manhunt: Unambomber, che ripercorre la decennale caccia all’uomo necessaria per individuare l’autore degli attentati, ma che non si lascia sfuggire l’occasione di ritrarre una figura complessa e che non può essere ridotta allo stereotipo del “pazzo bombarolo”.
Nato nel 1942 a Chicago, Kaczinsky è un alunno prodigio che ancora adolescente si aggira per i corridoi di Harvard, dove nel 1962 consegue la laurea in Matematica (dopo anni segnati anche dai brutali esperimenti psicologici condotti, su Kaczinsky e altri studenti, dal professor Henry Murray, sospettato di essere parte del fatidico progetto MK ULTRA). Passato all’Università del Michigan – dove consegue un dottorato e inizia la carriera accademica – il futuro Unabomber rassegna all’improvviso le dimissioni nel 1969 e si trasferisce nella casa dei genitori, nel sobborgo di Lombard (Illinois). Non resiste a lungo: il richiamo di un’esistenza allo stato brado è talmente forte che costruisce una capanna nei boschi fuori da Lincoln (Montana) e vi si trasferisce per condurre una vita autosufficiente; fatta di caccia e raccolta, senza elettricità né acqua corrente.
Sono i primi segnali del fatto che Kaczinsky sta mettendo in pratica nella vita quotidiana le teorie anti-tecnologiche alla base del suo pensiero (e dei suoi attentati); teorie che ancora oggi propugna (il suo ultimo libro, Anti-Tech Revolution, è del 2016) e che, nel mare magnum delle correnti politiche estremiste, vanno sotto il nome di anarco-primitivismo. Ritorno a una vita da cacciatori e raccoglitori in piccole comunità, rifiuto di qualunque strumento che l’uomo non sia in grado di costruire e controllare in autonomia, rifiuto di qualunque forma di governo e assoluto egualitarismo: in sintesi estrema, sono queste le caratteristiche di un’ideologia che trova il suo massimo esponente nel filosofo John Zerzan (autore già nel 1988 di Questioning Technology e per qualche tempo confidente di Unabomber dopo l’arresto), conta numerosi punti di contatto con l’anarco-ecologismo e ha dato vita ad alcuni gruppi estremisti e violenti come Obsidian Point o Individuals Tending Towards the Wild.
La società dell’ansia
“Voglio vedere la società di massa diventare radicalmente decentralizzata, in comunità in cui si viva faccia a faccia”, spiega Zerzan a Gizmodo. “I primi umani avevano un approccio alla vita funzionale e non distruttivo, che non richiedeva, in linea di massima, molto lavoro, non oggettificava le donne ed era anti-gerarchico. Vi sembra un modello così arretrato?”. Ma nell’anarco-primitivismo non c’è solo l’idealizzazione di una primitiva età dell’oro; c’è anche il rifiuto degli effetti collaterali della società capitalista e tecnologica: “I progressi tecnologici hanno portato solo più lavoro. Questo è un fatto”, prosegue Zerzan. “Alla luce di tutto ciò, è davvero credibile chi oggi promette che una società ancora più tecnologica porterebbe a una vita di meno lavoro?”.
I punti centrali del pensiero di Zerzan sono fondamentalmente tre: la tecnologia ha creato una società rigidamente divisa in classi, dove “gli uomini diventano semplici ingranaggi della macchina sociale”, in cui l’ambiente viene distrutto e ansia, stress, insonnia e depressione sono sempre più diffusi.
Nell’anarco-primitivismo non c’è solo l’idealizzazione di una primitiva età dell’oro, ma anche il rifiuto degli effetti collaterali della società capitalista e tecnologica.
Perché, nell’epoca del benessere, siamo alle prese con l’ansia e la depressione? In questa società, “il tempo smette di essere lineare e diventa caotico, puntiforme”, risponde un pensatore estraneo al primitivismo come Mark Fisher in Realismo Capitalista. “Il sistema nervoso viene ristrutturato allo stesso modo della produzione e della distribuzione. Per funzionare, in quanto elemento della produzione just in time, devi saper reagire agli eventi imprevisti e imparare a vivere in condizioni di instabilità assoluta. Periodi in cui lavori si alternano a periodi in cui sei disoccupato. Costretto a una fila infinita di impieghi a breve termine, non riesci a pianificare un futuro. (…) Il conflitto scatenato nella psiche degli individui non può che produrre vittime (…). Da questo punto di vista, se la schizofrenia è – come ricordano Deleuze e Guattari – la condizione che segna il limite esterno del capitalismo, allora il disturbo bipolare è la malattia mentale che del capitalismo segna l’interno. Di più: coi suoi incessanti cicli di espansione e crisi, è il capitalismo stesso a essere profondamente e irriducibilmente bipolare, periodicamente oscillante tra stati di eccitazione incontrollata (l’esuberanza irrazionale delle ‘bolle’) e crolli depressivi (l’espressione ‘depressione economica’ non è evidentemente casuale)”.
Tutto ciò non è solo teorizzato da pensatori più o meno estremi, ma supportato da dati oggettivi. Due studi inglesi citati da Oliver James ne Il Capitalista Egoista – testo a sua volta citato da Fisher – descrivono come i disturbi mentali siano quasi raddoppiati tra le persone nate nel 1946 e quelle nate nel 1970. “Per esempio”, scrive Oliver James, “nel 1982 il 16% delle donne trentaseienni ha riportato di soffrire di ‘problemi di nervi, sentirsi giù, tristi o depresse’, mentre nel 2000 la cifra per le trentenni era del 29% (per gli uomini era l’8% nel 1982, il 13% nel 2000)”.
ll più grande errore nella storia dell’umanità
Ma se per Mark Fisher e Oliver James questo aumento delle malattie mentali è strettamente legato alla società post-fordista e turbo-liberista in cui siamo immersi oggi, per gli anarco-primitivisti le cause originarie di tutti i mali della modernità vanno cercate molto più indietro nel tempo. All’epoca, per la precisione, di quello che Jared Diamond ha chiamato “il più grande errore nella storia dell’umanità”: il passaggio da un’economia basata sulla caccia e sulla raccolta a una basata sull’agricoltura. A loro dire, per rintracciare le cause del nostro malessere non dobbiamo guardare né al post-fordismo, né alla Rivoluzione industriale; ma alla Rivoluzione neolitica di diecimila anni fa.
“Recenti scoperte indicano che l’adozione dell’agricoltura, che si presume essere stato il nostro passaggio più decisivo in direzione di una vita migliore, sia stata per molti versi una catastrofe dalla quale non ci siamo mai ripresi. Con l’agricoltura sono giunte le madornali ineguaglianze sociali e sessuali, la malattia e il dispotismo che hanno dannato la nostra esistenza”, scrive Diamond nel suo celebre articolo per Discover Magazine del 1987.
Utilizzando parole che farebbero la gioia di qualunque primitivista, Diamond spiega: “Sparse per il mondo, molte decine di gruppi di cosiddetti primitivi, come i Kalahari o i Boscimani, continuano a vivere da cacciatori e raccoglitori. Si è scoperto che queste persone hanno molto tempo libero, dormono parecchio e lavorano molto meno dei loro vicini agricoltori. Per esempio, il tempo dedicato ogni settimana all’ottenimento del cibo è solo di 12/19 ore per un gruppo di Boscimani; 14 ore o meno per i nomadi della Tanzania.”
Lavorano meno, hanno più tempo libero, sono meno soggetti a ineguaglianze sociali di ogni tipo. E sono anche più in salute: “Mentre gli agricoltori concentrano la loro dieta in colture come il riso o le patate, il mix di piante e animali selvatici nella dieta dei gruppi ancora esistenti di cacciatori e raccoglitori fornisce più proteine e un migliore equilibrio degli altri nutrienti”, prosegue Diamond. “È quasi inconcepibile che i Boscimani, che mangiano circa 75 tipi diversi di piante selvatiche, possano morire di fame nel modo in cui sono morti centinaia di migliaia di contadini irlandesi durante la carestia di patate del 1840”.
Non è il caso di soffermarsi sulle ragioni che hanno comunque portato l’uomo a scegliere una vita agricola (ampiamente spiegate nell’articolo di Jared Diamond), è però importante notare come la Rivoluzione neolitica potrebbe anche essere alla base della diffusione delle epidemie:
Il solo fatto che l’agricoltura abbia incoraggiato le persone a riunirsi in società affollate, molte delle quali praticavano il commercio con altre società altrettanto affollate, ha portato alla diffusione di parassiti e malattie infettive. (…) Le epidemie non potevano diffondersi quando la popolazione era sparsa in piccoli gruppi.
Ma come potremmo oggi rinunciare alle innovazioni in campo scientifico e medico che hanno portato ai vaccini, alla sconfitta di molte malattie, alla drastica riduzione della mortalità infantile e l’allungamento della vita umana? “Una delle conquiste della modernità è l’aumento della longevità, non c’è dubbio”, spiega Zerzan. “Ma ci si deve riflettere sopra: cos’è la qualità della vita? Le condizioni critiche continuano ad aumentare anche se le persone riescono in media a vivere più a lungo. Non ci sono evidenze a favore di un ulteriore aumento della longevità. E le nostre capacità fisiche? I nostri sensi un tempo erano molto più acuti ed eravamo molto più robusti di quanto non siamo oggi”. Il punto, probabilmente, sta nel decidere se la qualità della vita si possa misurare in termini numerici; che mostrano percentuali e cifre dove altri si soffermano su aspetti, appunto, qualitativi.
Concetti simili si ritrovano anche in uno studioso distante dai radicalismi primitivisti come l’israeliano Yuval Noah Harari, che in Sapiens scrive: “Il successo evoluzionistico di una specie si misura in termini di copie di DNA: una specie del cui DNA non rimangono più copie è dichiarata estinta (…). Se invece essa può vantare molte repliche del proprio DNA, ha successo e prospera. Guardando la cosa da questa prospettiva, mille copie del DNA sono meglio di cento copie. Sta qui l’essenza della Rivoluzione agricola: la capacità di mantenere in vita più gente in condizioni peggiori. Ma perché gli individui dovrebbero badare a questi calcoli sul meccanismo dell’evoluzione? Perché mai una persona sana di mente vorrebbe abbassare la propria qualità di vita giusto per moltiplicare il numero di copie del genoma di Homo Sapiens?”.
La Rivoluzione agricola potrebbe quindi essere stata una truffa dal punto di vista salutare e sociale. E non solo: “Si è trattato di un passaggio fondamentale, dal prendere quello che la natura offre al dominio sulla natura”, spiega Zerzan sempre a Gizmodo. “La logica intrinseca della domesticazione di animali e piante è quella di una progressione ininterrotta che rafforza e rende sempre più profondo l’ethos del controllo. Oggi, ovviamente, il controllo ha raggiunto il livello molecolare con le nanotecnologie, e la sfera di quelle che ritengo le fantasie poco salutari delle neuroscienze transumaniste e dell’intelligenza artificiale”.
Libertà primitiva e controllo tecnologico
Il dilemma controllo o libertà, immersi come siamo nel pieno della rivoluzione tecnologica, è un tema più attuale che mai. Ogni volta che facciamo affidamento su un dispositivo affinché gestisca per noi le nostre vite (dai navigatori satellitari agli assistenti virtuali, fino alle auto autonome) stiamo inevitabilmente cedendo una parte di libertà e autonomia. Uno scambio che ha innegabili vantaggi, ma che spesso viene vissuto acriticamente.
Da questo punto di vista, per Zerzan, la divisione fondamentale è tra strumenti e dispositivi tecnologici. I primi sono quelli che rimangono sotto il controllo di chi li usa (un martello, per esempio); mentre i secondi “conducono chi li usa sotto il controllo di chi li produce”. Non è difficile immaginare cosa possa pensare il filosofo primitivista del tema della raccolta dati condotta da aziende private che arrivano a conoscere anche i dettagli più intimi delle nostre vite, spesso senza che l’utente ne sia pienamente consapevole.
La tecnologia, dopo averci promesso più tempo libero e una vita più comoda, si è dimostrata un’alleata della società turbo-capitalista, limitandosi a renderci più produttivi ed efficienti.
Sempre in Sapiens, Harari scrive: “Durante gli ultimi decenni ci siamo inventati innumerevoli arnesi che fanno risparmiare tempo e ai quali si attribuisce la capacità di farci vivere più rilassati: lavatrici, aspirapolvere, lavastoviglie, telefoni cellulari, computer, posta elettronica. Prima ci voleva un po’ di tempo per scrivere una lettera, apporre l’indirizzo, affrancare una busta e portarla fino alla buca della posta. E ci volevano giorni o settimane, magari anche mesi, per ricevere una risposta. Oggi posso buttare giù una mail, inviarla dall’altra parte del globo e (se il mio destinatario è online) ricevere una risposta un minuto dopo. Ho risparmiato tutto quel traffico e quel tempo, ma davvero faccio una vita più rilassata? Purtroppo, no. (…) Oggi io ricevo decine di mail ogni giorni, tutte da persone che si aspettano una pronta risposta. Pensavamo che questo volesse dire risparmiare tempo; invece abbiamo accelerato di dieci volte la ruota che macina la nostra vita e reso i nostri giorni più ansiosi e agitati”.
La tecnologia, dopo averci promesso più tempo libero e una vita più comoda, si è dimostrata una semplice alleata della società turbo-capitalista; limitandosi – come analizzato di recente – a renderci più produttivi ed efficienti, ma di certo non più liberi e rilassati. Insomma, che sia colpa della rivoluzione agricola, di quella industriale o di quella tecnologica, il risultato è lo stesso: le migliori condizioni di salute generali odierne sono pagate al prezzo di un’inferiore qualità della vita; la società della scelta (o del rischio, come direbbe il sociologo Ulrich Beck) porta con sé ansia e depressione e la tecnologia ci ha portato ad avere ritmi di vita sempre meno naturali.
Nel frattempo – come anticipato da Foucault, secondo cui la Rivoluzione industriale ha avuto anche l’obiettivo di imporre una maggiore disciplina alla società – il controllo sociale si è fatto più serrato. Vuole la leggenda che Kaczinsky abbia avuto la sua prima “illuminazione primitivista” trovandosi fermo in macchina a un semaforo rosso. Da destra e da sinistra non arrivava evidentemente nessuno. Eppure quella luce rossa che gli intimava di restare fermo fino al via libera aveva una tale presa su di lui da rendere impossibile utilizzare il semplice buon senso e decidere di procedere nonostante il rosso. A chi non è mai capitato di fare un pensiero simile, fermi in attesa del verde indipendentemente da quanto la strada fosse sgombra? Per evitare il caos, e quindi per il bene della società, rinunciamo a una parte di libertà.
Primitivisti versus Transumanisti
È curioso come una teoria che si pone all’estremo opposto dell’anarco-primitivismo – come il transumanesimo – abbia individuato gli stessi identici problemi: “Come transumanista sono completamente d’accordo con la visione dei primitivisti, secondo i quali cui la tecnologia e il progresso stanno fondamentalmente cambiando la vita dell’umanità in peggio”, scrive su Motherboard il filosofo e futurologo Zoltan Istvan. “La tecnologia e la civilizzazione sono decisamente uscite dal nostro controllo. (…) Il cervello e il corpo umano non sono fatti per una tecnologia così radicale, per le gigantesche metropoli in cui molti di noi vivono, o per gli schemi sociali e lavorativi intensivi che ci ritroviamo a vivere”.
C’è meno enfasi sulla questione ambientale; ma di fondo i problemi individuati sono gli stessi. La soluzione, però, è drasticamente diversa: “(Noi transumanisti) vogliamo lasciarci alle spalle la razza umana e accogliere un futuro tecnologico e dominato dalla scienza, fatto di protesi robotiche, ecosistemi digitali, un ampliamento indefinito della vita e nuove filosofie sociali”, prosegue Istvan. “Il punto di scontro fondamentale di ‘anarco-primitivismo versus transumanesimo’ è che le persone tendono a pensare che siamo ancora umani. Una descrizione [che] perde completamente la sua rilevanza quando si discute con chi indossa un esoscheletro, possiede un microchip RFID, assume occasionalmente del Viagra e indossa dei Google Glass. Siamo esseri umani? Non più, e abbiamo iniziato a dirigerci verso il transumanesimo molto tempo fa, quando abbiamo ricevuto il nostro primo vaccino”.
È curioso come il transumanesimo, una teoria che si pone all’estremo opposto dell’anarco-primitivismo, abbia individuato gli stessi identici problemi.
La soluzione, quindi, non può passare da un ritorno a uno stile di vita primitivo, ma piuttosto dal trovare il coraggio – sostengono i transumanisti – di accettare le estreme conseguenze del progresso tecnologico e abbracciarlo senza remore; trovando nella tecnologia le risposte ai problemi che la stessa tecnologia ha (in parte) posto.
Entrambe le teorie potrebbero essere derubricate a utopie radicali che vivono solo nella mente di filosofi scollegati dalla realtà – peraltro il primitivista Zertan e il transumanista Zoltan hanno recentemente dato vita a un dibattito alla Stanford University – ma il primitivismo sembra aver colto con maggiore lucidità la principale incognita della nostra epoca: ha senso continuare a sfruttare uomo e ambiente a beneficio di un capitalismo che non giova più alla società nel suo complesso? Un tema che le classiche categorie socio-politiche non affrontano ancora con sufficiente determinazione.
Ed è forse proprio questo che va salvato della teoria primitivista: la corretta individuazione di problemi che non popolano l’agenda politica, ma attorno ai quali sta iniziando a formarsi una certa consapevolezza. Non torneremo a essere cacciatori e raccoglitori (non fosse altro che per una semplice questione numerica: siamo troppi) e nemmeno sembrano riscuotere successo vie “moderate” come la decrescita felice (rinnegata dai primitivisti); ma se riusciremo a inquadrare correttamente i mali del nostro tempo, e a porvi rimedio, potrebbe anche essere merito di movimenti estremisti, utopisti e “impossibili” che li hanno individuati.