Un giorno, tutto questo, è il tema della trentunesima edizione del Salone Internazionale del Libro che si terrà a Torino dal 10 al 14 maggio. Il Tascabile partecipa al progetto 5domande ideato quest’anno dal Salone, un questionario nato per “riflettere sul mondo in cui viviamo e sul mondo che ci aspetta, e la cui forma dipenderà evidentemente anche da noi”. Abbiamo risposto alle 5domande girandole a donne e uomini arrivati sul Tascabile dai percorsi più diversi: dallo sport all’astrofisica, passando per l’arte contemporanea. Il futuro non è ancora scritto: c’è chi però, raccontandolo, può aiutarci a cambiarlo.
Oggi ci siamo chiesti: dove mi portano spiritualità e scienza? Scienza e religione hanno dato forma alla nostra storia e al nostro pensiero. Ma sono state usate anche come strumenti di oppressione. C’è oggi una promessa di cambiamento e di futuro nella spiritualità delle religioni, nel rigore nelle scienze? O altrove?
Telmo Pievani – filosofo, Università di Padova
Vedo una promessa di cambiamento e di futuro innanzitutto nell’utilizzo inclusivo, democratico e solidale dei risultati della ricerca scientifica e tecnologica. Chi usa la scienza come strumento di oppressione tradisce volutamente la sua vocazione più profonda, che è la libertà di pensiero, lo scetticismo razionale, il rifiuto di qualsiasi autorità precostituita, la discussione tra pari, l’etica della trasparenza, la condivisione dei risultati. In sintesi: non avere Verità con la maiuscola, Verità totalizzanti e totalitarie, ma tante piccole verità con la minuscola, in espansione e aggiornamento continui. Grazie alle evidenze frutto di innovazione e creatività, oggi l’umanità ha a disposizione mezzi nuovi e influenti (come le biotecnologie) che possiamo decidere se indirizzare per fini benefici o malefici, se considerare beni comuni o privilegio di pochi.
Questa decisione politica richiede informazioni corrette (non fake news), argomentazioni razionali (non chiacchiere sui social), responsabilità etica e sensibilità verso la giustizia redistributiva. Di tutto questo, rispetto ai problemi globali che ci affliggono e che incombono (riscaldamento climatico, conflitti per le risorse, crisi della biodiversità, migrazioni forzate, diseguaglianze crescenti, economia predatoria, consumi irresponsabili), nelle campagne elettorali si parla pochissimo.
La politica ha perso lungimiranza. La selezione delle classi dirigenti è scadente. I dati scientifici oggettivi (si pensi agli squilibri demografici) sono pressoché irrilevanti nel dibattito pubblico. Per ricreare allora una consapevolezza diffusa su questi temi bisognerà attingere a tutte le risorse motivazionali e psicologiche umane, comprese le fedi religiose per chi ne possiede una. Fratellanza universale e fondamentalismo settario sono i due estremi opposti dello spettro del fenomeno religioso contemporaneo.
Per un non credente come me, la religione dovrebbe essere vissuta eminentemente come una questione privata o come il legante di una rispettosa vita comunitaria. Nei fatti non è così e allora la grande influenza pubblica e politica delle religioni (non solo dei tre grandi monoteismi) potrebbe almeno essere indirizzata, in alleanza con i saperi scientifici, verso la crescita di una coscienza comune e di una volontà di radicale cambiamento sui problemi ambientali e sulle storture che minacciano i diritti fondamentali, l’eguaglianza e la giustizia sociale. Spiritualità religiose e rigore della scienza, se accomunate dal rispetto per una democrazia sostanziale, potrebbero così tornare a dar forma alla nostra storia e al nostro pensiero, ricordando con voce univoca e tonante che Homo sapiens si sta comportando in questa fase storica in modo del tutto miope e irrazionale rispetto alla salute del pianeta e alle prospettive di benessere delle generazioni future.
Luca Parmitano – astronauta ESA
Non parlo molto di religione quando mi rivolgo al grande pubblico, per vari motivi: è un aspetto talmente personale e intimo nella vita di una persona, che non credo che sia necessario condividerlo con l’esterno. Ma quello tra scienza e religione non deve essere un rapporto mutualmente esclusivo. In un certo senso, scienza e religione sono due percorsi che vogliono giungere a uno stesso obiettivo: una universale comprensione di quello che ci circonda, della vita, del tempo, dello spazio, delle grandi forze e leggi che regolano l’universo. Non so esiste una strada migliore dell’altra: mi lascio il beneficio del dubbio.
Io, per la mia vita professionale, ho scelto una strada, che è quella del rigore scientifico, del metodo scientifico, della matematica, della fisica, della consapevolezza concreta, dell’esplorazione. Sebbene non sia un esperto di genetica, di biologia o di evoluzione, sono convinto che quello che ci spinge a essere esploratori è una parte del nostro DNA, almeno nel senso figurato del termine: è il modo in cui siamo programmati per sopravvivere Credo che alcuni, quelli che poi diventano effettivamente esploratori, nascano e crescano con questa necessità, questo desiderio irreprimibile di guardare un orizzonte e volerlo allargare, di non accontentarsi. Partendo da questo principio di base, io credo che non ci sarà mai un appagamento a questa nostra spinta, a maggior ragione se il confine è poi lo spazio infinito. Non ci stancheremo mai di esplorare.
Personalmente, poi, la mia curiosità è stimolata dall’esistenza stessa di qualsiasi limite. I limiti mi affascinano in tutti i sensi: sia quelli interiori che quelli esterni, sia quelli invisibili che quelli visibili. L’idea che ci sia un luogo inesplorato, mai raggiunto, mai visto, o un evento unico, mai avvenuto… tutto questo continua anche adesso a stimolare la mia fantasia. Con il mio lavoro non faccio altro che seguire un istinto innato, lo stesso istinto che quando, da piccoli, ci fa guardare verso il cielo, verso le stelle, di notte, può attirarci o può respingerci. Io sono sempre stato attirato da quelle infinite luci. Dalla Stazione Spaziale, poi, dallo spazio guardando la Terra, ho avuto il privilegio di guardare tutto dal punto di vista opposto.
Tutte le esperienze, grandi e piccole, servono a cambiarci, a migliorarci. Quella di vivere sei mesi nello spazio è un’esperienza fortissima, dalle ramificazioni che vanno ben oltre l’aspetto fisico, ma che riguardano anche riflessioni psicologiche, sociali. Vedere la Terra da 400 chilometri di distanza la pone in una prospettiva diversa. L’esempio che faccio spesso, che coglie davvero il nostro rapporto con il pianeta quando siamo all’interno della Stazione Spaziale, è che con la luce del giorno l’essenza dell’uomo sulla Terra scompare: noi, quando voliamo sulle terre emerse, di giorno, non riusciamo a cogliere praticamente nessuna traccia della presenza umana, a meno, forse, di grandi opere costiere. Nella fase notturna, invece, le luci delle città – e tutto quello che è visibile dalla Stazione – è artificiale, è opera dell’uomo. Ed è bellissimo da vedere, trasmette l’urgenza dell’ingegno umano, la necessità di cambiare il mondo intorno a sé per renderlo più vivibile. È una visione che comunica un forte senso di solidarietà, la capacità che l’uomo ha di sollevarsi dalla sua mera natura animale.
Se intendiamo la spiritualità come il desiderio dell’uomo di guardarsi in maniera introspettiva e al tempo stesso riuscire a considerarsi come parte di un intero universo, sicuramente c’è un aspetto spirituale nel nostro lavoro – come probabilmente in qualsiasi altro lavoro. Ma il fatto di essere saliti di quota, a chilometri di altezza dalla superficie terrestre, non significa di certo che ci siamo avvicinati a una qualche divinità. Non è verso l’alto che bisogna guardare per accedere alla propria dimensione spirituale – probabilmente è anzi un esercizio che va fatto nella direzione opposta, verso l’introspezione, verso l’infinitamente piccolo, dentro di noi.
Ilaria Capua – virologa, University of Florida
Dimidium facti, qui coepit, habet; sapere aude, incipe.
Chi ben comincia, è alla metà dell’opera; abbi il coraggio di conoscere: incomincia.
Orazio (Epistole I, 2, 40–41)
Quando si affrontano argomenti scientifici di comune interesse e portata universale, osserviamo, oggi come ieri, degli atteggiamenti di opposizione a tale teoria, cultura o pratica, con le conseguenze più disparate. Fra gli assi portanti di questi episodi di rifiuto al metodo scientifico, c’è indubbiamente il fatto che la scienza non porta mai con sé certezze, perché la scienza supera sempre se stessa. La scienza porta con sé, e per definizione, conoscenze nuove, che verranno presto sostituite da altre più nuove, e poi ancora da altre così nuove che sono, al presente, inimmaginabili. Dunque, esiste uno spazio fra la verità assoluta e la conoscenza scientifica. In quello spazio di manovra, ipotetico ma reale, che permette alla scienza di essere lontana dalla verità assoluta, si annidano a volte il sospetto, a volte il contrasto. Perché gli scienziati hanno in ogni caso risposte parziali e mai assolute. I concetti scientifici e le teorie si superano e si affinano; spesso si ridefiniscono.
La promessa di cambiamento che dovremmo sostenere è quella di spingere il cittadino, o l’osservatore esterno della scienza, a comprendere e soprattutto accettare che essa è una dimensione in movimento, perché a ogni crescita di conoscenza si esplora una nuova parte dell’ignoto. Non avendo certezze né verità assolute, non possiamo che promettere di portare avanti i valori e il rigore della scienza al fine di assottigliare un po’ l’ignoto in favore della conoscenza e della crescita. Ma se quello spazio ignoto non lo arricchiamo con la conoscenza, si svilupperanno delle certezze granitiche che si contrappongono al metodo scientifico, perché sostanzialmente avverse alla complessità ed alle incertezze. La nostra promessa deve essere: “abbi il coraggio di conoscere: incomincia”.