N on sempre una persona dichiarata morta lo è davvero. Ne sa qualcosa Constantin Reliu, l’uomo rumeno il cui certificato di morte è stato emesso nel 2016, dopo una lunga assenza in cui aveva interrotto i contatti con la famiglia, e che da marzo si trova in un limbo legale perché, essendo passato troppo tempo, il suo ricorso per far annullare il certificato di morte è stato respinto. Le procedure per emettere un certificato di morte in absentia possono variare nei dettagli a seconda della legislazione, ma solitamente il requisito è un’assenza di contatti che si sia prolungata per qualche anno (da 5 a 10 per la maggior parte dei paesi), a meno che non vi siano elementi per ritenere la morte probabile. Per esempio, le vittime di un naufragio, di un attacco terroristico o di un incidente aereo che non siano state tratte in salvo si considerano legalmente morte dopo qualche giorno o qualche settimana. La morte può anche derivare da un errore di battitura: da un rapporto della Social Security Administration del 2011, emerge che negli anni dal 2007 al 2010 oltre 36.000 persone sono state erroneamente dichiarate morte negli Stati Uniti per sviste nella digitazione del loro numero di sicurezza sociale (un analogo numerico del nostro codice fiscale).
Tuttavia, anche in presenza di corpo la morte è una questione controversa. In mancanza di flusso sanguigno e di ossigeno, i tessuti umani muoiono a tempi diversi. Per esempio, nel caso di un arresto cardiaco, le cellule cerebrali, che consumano molto ossigeno, cominciano a morire in pochi minuti, mentre i tessuti strutturali e connettivi (pelle, ossa, tendini, cornee) sopravvivono e sono adatti ai trapianti anche 24 ore dopo la cessazione del battito. Per questo motivo, in genere è più corretto considerare la morte come un processo graduale, piuttosto che come un evento singolo. Alcune trasformazioni del corpo segnalano con certezza che si è giunti a un punto irreversibile. Tra queste ci sono alcune classiche trasformazioni post-mortem come il livor mortis, la formazione di chiazze violacee sulla parte del corpo che si trova più in basso. La decapitazione e la maciullazione sono altre circostanze in cui si può considerare certo il decesso (a meno che non ipotizziamo scenari futuristici di crioconservazione delle teste recise).
Nella maggior parte dei casi, però, le circostanze non permettono di attendere che la morte diventi evidente a tutti. Si devono stabilire criteri, il più possibile oggettivi, per cui un paziente che ha perso determinate funzionalità in modo irreversibile possa essere dichiarato morto. La questione ha un’alta rilevanza etica nei casi in cui il paziente sia idoneo alla donazione di organi e tessuti: i segnali più evidenti del decesso, infatti, non si manifestano fino al deterioramento delle parti del corpo che dovrebbero essere trapiantate. È normale che in questi casi si debbano adottare cautele straordinarie, ma una cautela eccessiva in presenza di specifici segnali rischia di condannare a morte anche chi (spesso più di una persona) è in attesa del trapianto. Inoltre, per quanto cinico possa sembrare, anche rendere o meno disponibili dei posti letto e delle risorse ospedaliere è un fattore che può decidere la sorte di altri pazienti.
Nell’antichità, si era soliti conservare il cadavere per tre giorni e attendere le prime fasi di putrefazione per essere sicuri del decesso. I Romani avevano l’abitudine di tagliare un dito per verificare che non sanguinasse. Le prime definizioni biomediche di morte risalgono al Diciottesimo secolo, e si basavano sulla perdita di battito cardiaco, respirazione e responsività agli stimoli; tuttavia, mancavano adeguati test diagnostici per stabilire la morte con certezza. Questo portò a un numero relativamente alto di sepolture premature derivanti da una diagnosi errata di morte, specialmente in presenza di epidemie, che a partire dall’Ottocento scatenarono moderate ondate di panico per la paura di essere sepolti vivi. Un rischio che, allo stato attuale della medicina, si può considerare trascurabile nei paesi industrializzati e post-industriali, ma che nondimeno suscita ancora qualche comprensibile fobia.
Quale morte?
La definizione del decesso si basa oggi sul criterio cardiorespiratorio e su quello cerebrale; nel primo caso, si adotta una versione standardizzata del criterio storico, che prende in considerazione il battito cardiaco e la respirazione; nel secondo si effettua una misurazione diretta o indiretta della funzionalità dell’encefalo. La definizione di morte cerebrale ha ormai acquisito un ampio consenso ma, come vedremo, anche definire cosa si intenda per “cerebrale” è una questione tutt’altro che risolta.
In questa incertezza ha giocato un ruolo decisivo l’evoluzione del concetto di irreversibilità: i progressi della medicina d’urgenza hanno reso possibile il recupero da condizioni che in precedenza erano considerate inequivocabilmente fatali. Un esempio su tutti è proprio l’arresto cardiorespiratorio: una volta, la cessazione del battito cardiaco e della respirazione comportava inevitabilmente la morte. Quest’accezione è rimasta nella locuzione “morte clinica”, che nella terminologia medica è considerata equivalente all’arresto cardiaco. Ma grazie allo sviluppo delle tecniche di rianimazione cardiopolmonare, all’uso di adrenalina e alla diffusione dei defibrillatori, la morte clinica non è più uno stato irreversibile (è significativo come in inglese la rianimazione sia indicata con il termine resuscitation).
Anche quando la funzionalità di alcuni organi risulta compromessa in modo irreversibile, l’individuo può essere mantenuto in vita per un periodo di tempo limitato grazie all’uso di attrezzature come il bypass cardiopolmonare, che si sostituisce a cuore e polmoni filtrando il sangue e mantenendolo in circolazione in attesa di un trapianto.
È più corretto considerare la morte come un processo graduale, piuttosto che come un evento singolo: alcune trasformazioni del corpo segnalano con certezza che si è giunti a un punto irreversibile.
In alcuni casi l’arresto cardiorespiratorio può ancora essere utilizzato come criterio definitivo per stabilire la morte, per esempio se le lesioni sono tali da rendere impossibile la rianimazione. Attualmente, la definizione di morte dell’individuo coincide in genere con la diagnosi di morte cerebrale, ossia la sospensione irreversibile dell’attività elettrica del cervello. Tale cessazione di attività deve prolungarsi per un certo periodo di tempo: in Italia, la morte celebrale è dichiarata (secondo la Legge 29 dicembre 1993, n. 578 e successivi decreti) secondo una misurazione di parametri (elettroencefalogramma piatto, assenza di certi tipi di riflessi, acidità del sangue) che confermino la perdita della funzionalità neurologica e respiratoria; tali parametri devono persistere per almeno sei ore. Nei bambini l’elettroencefalogramma può non essere un esame affidabile; pertanto sono richieste altre analisi, come la misura del flusso sanguigno al cervello, e la finestra di tempo in cui i sintomi di morte persistono può allungarsi fino a 24 ore. Inoltre, si devono escludere fattori temporanei, tra cui l’assunzione di medicinali o sostanze stupefacenti che sopprimano artificialmente l’attività elettrica cerebrale o causino squilibri nei parametri usati per valutare l’assenza di funzionalità respiratoria.
In questa definizione, si dà per scontato che l’attività elettrica cerebrale rappresenti la coscienza del paziente (e il termine coscienza già di per sé è fonte di controversie). In alcuni paesi, come gli Stati Uniti, la misura di elettroencefalogramma piatto non è sempre necessaria per la definizione di morte.
Nella maggioranza dei casi, il decesso non coglie di sorpresa, ma è conseguente all’invecchiamento o a una malattia abbastanza lunga; in questi casi, i pazienti attraversano fasi riconoscibili, distinte dal semplice decorso della malattia, dette di pre-agonia e agonia. Durante la pre-agonia, nel paziente si accentuano la stanchezza, l’inappetenza, il disinteresse a ciò che lo circonda, la confusione e l’agitazione. Nessuno di questi sintomi di per sé è segno di pre-agonia, quanto piuttosto il loro progressivo intensificarsi.
Durante l’agonia, che può durare da poche ore o qualche giorno, si verifica un graduale declino fisiologico di tutte le funzioni vitali. Il respiro può diventare intermittente o può trasformarsi in rantolo, il sangue circola con sempre minor efficienza e, non irrorando più adeguatamente i tessuti, causa un cambiamento dell’apparenza del malato: gli occhi si infossano, le estremità si raffreddano, impallidiscono e diventano bluastre, la deglutizione diventa difficile. L’evoluzione della coscienza in punto di morte è molto variabile; alcuni pazienti sono privi di coscienza già dall’inizio dell’agonia, altri sembrano restare lucidi fino alla fine, altri ancora scivolano nel delirio. Nei casi che seguono a un evidente stato di agonia, la morte viene stabilita tramite criteri neurologici (pupille che non reagiscono alla luce, nessuna risposta riflessa agli stimoli, perdita del controllo degli sfinteri) indicativi di morte cerebrale. L’elettroencefalogramma può comunque essere richiesto come conferma.
Cerebrale
Anche in presenza di elettroencefalogramma piatto, non esiste un accordo universale di cosa si debba intendere per “cervello” quando si menziona la morte cerebrale. Nella maggior parte dei paesi si adotta la definizione più conservativa, che prevede la cessazione totale e irreversibile dell’attività elettrica di tutti gli organi dell’encefalo, incluso il tronco encefalico. Quest’ultimo fa da ponte tra il cervello vero e proprio e il midollo spinale, è sede di alcuni nervi facciali e viscerali e controlla alcune funzioni basilari come il ritmo cardiaco, la respirazione, la sensibilità al dolore e il ciclo sonno-veglia. Le funzioni superiori si trovano invece nella corteccia cerebrale; la morte di quest’ultima coinciderebbe con la perdita non recuperabile (almeno secondo le attuali prospettive della medicina) di qualunque funzione cognitiva, della memoria, dell’apprendimento, del pensiero e della personalità.
In presenza di attività del tronco encefalico, il paziente può comunque trovarsi in uno stato di veglia incosciente e mantenere alcune funzionalità, tra cui la reazione ad alcuni stimoli esterni. L’unico supporto vitale necessario solitamente è un sondino nasogastrico, in quanto questi pazienti hanno perso la capacità di ingoiare e quindi non possono nutrirsi. Una persona in questo stato (detto vegetativo) non viene automaticamente dichiarata morta, ma in molte legislazioni è possibile valutare, dopo un tempo opportuno trascorso senza miglioramenti né prospettive di recupero, se il mantenimento dell’alimentazione e dell’idratazione forzata sia equiparabile ad accanimento terapeutico, richiedendo la sua sospensione. I casi di Terri Schiavo in America e di Eluana Englaro in Italia hanno dimostrato quanto il significato di vita o morte in relazione alla coscienza divida ancora l’opinione pubblica.
Vi sono stati diversi casi di controversie legali in cui i familiari del paziente non hanno accettato la diagnosi di morte cerebrale o si sono rifiutati di effettuare gli esami che l’avrebbero diagnosticata.
L’inclusione del tronco encefalico nella definizione di morte cerebrale non sembra comunque aver sopito tutte le preoccupazioni. Vi sono stati diversi casi di controversie legali in cui i familiari del paziente non hanno accettato la diagnosi di morte cerebrale o si sono rifiutati di effettuare gli esami che l’avrebbero diagnosticata. Sono situazioni particolarmente difficili; non è raro che si tratti di genitori che, comprensibilmente, si oppongono all’idea di perdere il proprio figlio, come nei casi di Israel Stinson e Jahi McMath.
Dispute legali
La famiglia di Israel Stinson, bambino di due anni dichiarato legalmente morto nell’aprile del 2016, perse una lunga e dolorosa battaglia per mantenere la ventilazione artificiale, sostenendo che il bambino presentava segni vitali non compatibili con la diagnosi di morte cerebrale e che avrebbe potuto riprendersi; alla fine, nell’agosto del 2016, dopo due trasferimenti, un’ultima decisione della Corte Suprema della Contea di Los Angeles dispose la sospensione della ventilazione meccanica, che portò rapidamente all’arresto cardiorespiratorio del bambino. Nel caso di Jahi McMath, invece, la causa sta ancora proseguendo, aggravata da sospetti di negligenza medica. La tredicenne McMath fu dichiarata cerebralmente morta a dicembre 2013, in seguito a un’emorragia avvenuta dopo un intervento chirurgico per correggere dei problemi respiratori. La famiglia ha trasferito Jahi in New Jersey, dove la legge permette di esercitare l’obiezione di coscienza per opporsi alla sospensione del supporto vitale, e sta fornendo nuovo materiale che, a quanto affermano, mette in discussione la diagnosi di morte cerebrale.
Di queste dispute legali ed etiche, che nascono da un complesso insieme di fattori culturali, psicologici, sociali e legali, si è occupato un comitato della American Association of Neurology (AAN) che, lo scorso gennaio, ha pubblicato un rapporto in cui prende in considerazione alcuni aspetti nella determinazione della morte cerebrale, che possono aver contribuito a scatenare la controversia. Il rapporto conferma la validità dei criteri neurologici attualmente adottati, e mentre una minoranza di esperti definisce la morte come arresto irreversibile delle funzionalità cardiache e polmonari, vi è consenso pressoché unanime sul fatto che la definizione di morte come cessazione di qualunque funzionalità dell’encefalo (ivi incluso il tronco cerebrale) porti inevitabilmente all’arresto cardiopolmonare, in assenza di supporto vitale, e quindi al degradamento di ogni altro organo. Non sono stati documentati casi di recupero delle funzioni neurologiche una volta che la morte cerebrale era stata diagnosticata secondo le linee guida emanate dall’AAN nel 2010.
L’AAN ha comunque sottolineato l’importanza di uniformare i protocolli istituzionali adottati nei diversi stati, che spesso mostrano incoerenze con le linee guida di riferimento; a causa di questo, come abbiamo visto, alcune famiglie hanno deciso di trasferire il paziente dichiarato cerebralmente morto nella speranza di mettere in discussione la diagnosi. Il rapporto evidenzia la necessità di sensibilizzare e addestrare il personale medico e legale di tutti gli Stati in modo che aderisca agli standard riconosciuti per diagnosticare e certificare la morte secondo i criteri neurologici. Soprattutto, una particolare importanza rivestiranno i progetti finalizzati ad aumentare la consapevolezza pubblica nei confronti dei criteri medico-legali utilizzati per stabilire la morte. Tutte queste iniziative hanno l’obiettivo di limitare il più possibile lo scatenarsi di dispute legali che rischiano di minare la fiducia nelle istituzioni sanitarie in circostanze così delicate.