“I l grande romanzo contemporaneo è una macchina a moto perpetuo che pare essere stata spinta a tutta velocità. Sembra si voglia abolire la quiete, quasi ci si dovesse vergognare del silenzio.” È il luglio del 2000 quando, sulle colonne di The New Republic, James Wood firma un pezzo che darà il via a una serie di accese polemiche: nell’articolo il critico americano prende romanzi come Infinite Jest di David Foster Wallace, Underworld di Don DeLillo e, soprattutto, Denti Bianchi di Zadie Smith, li raccoglie in un unico fascio e ci appiccica l’etichetta di “realismo isterico”, accusando questi autori di voler “trasformare la narrativa in teoria sociale”, nel tentativo di dire al lettore “come il mondo funzioni, piuttosto che come qualcuno si senta riguardo a qualcosa.” Da allora sono passati quasi vent’anni, il mondo “reale” in cui Wood aveva vergato il suo controverso manifesto è radicalmente cambiato. Anche il panorama letterario ha mutato pelle, al punto che oggi, a leggere certa critica americana, il realismo sembra essere diventato un vizio, un rinculo inaggirabile che affligge anche alcuni degli autori che Wood aveva messo alla berlina.
Eppure, se vogliamo tenere fede alla definizione tradizionale di realismo letterario, inteso come rappresentazione della realtà nella sua complessità al netto di distorsioni ideologiche o emotive – “l’imitazione seria del reale”, per dirla con Erich Auerbach – basta dare una rapida occhiata al panorama letterario attuale per rendersi conto che, nell’epoca dei social network, dei bitcoin, delle intelligenze artificiali, le opere realistiche presentano ingombranti punti ciechi. Per contro, negli ultimi anni sta emergendo una chiara tendenza, che riguarda chiunque si occupi di storie: in assenza di vincoli stringenti (legati magari a vicende storiche o a canoni di genere) molti prodotti narrativi vengono ambientati in un passato recente, che in molti casi altro non è che una rivisitazione di un immaginario anni Ottanta o Novanta. Anche quando questi due decenni non vengono esplicitamente chiamati in causa, l’impressione è di ritrovarsi in una sorta di ambiente neutro, bonificato da ogni tecnologia mobile e social, un “passato senza tempo” che è in tutto e per tutto identico al presente, eccezion fatta per Twitter, Google, Facebook e tutte le innovazioni tecnologiche che rendono più difficile raccontare una storia e gestirne i conflitti.
Il realismo ha bisogno di un presente inquadrabile, relativamente statico e dunque fotografabile. Oggi, un tentativo di fotografare la realtà contemporanea è destinato nella maggior parte dei casi a fallire: il presente è un concetto sempre più mutevole, impossibile da inquadrare in tempi utili, ogni “fotografia” che si tenti di scattare rischia di uscire dallo sviluppo già ingiallita. Non è un caso. Negli ultimi dieci anni, il nostro modo di interagire e comunicare è cambiato esponenzialmente: nel 2008 Facebook aveva meno di 100 milioni di utenti, Twitter meno di 6, l’iPhone era appena uscito, i tablet non esistevano, come non esistevano Whatsapp, Tinder, Instagram e molte delle app che oggi fanno da tessuto connettivo virtuale della società distribuita.
Di solito, di fronte a una considerazione di questo tipo, alcuni storcono il naso, affrettandosi a rimarcare come il romanzo sia per sua natura “conservativo”, ed è futile dunque pretendere (o auspicare) che le sue dinamiche si adattino ai mutamenti tecnologici e sociali in cui viene concepito. Eppure il modo in cui le persone comunicano è un aspetto cruciale di qualsiasi storia. Che si tratti di un thriller, di una commedia o di un romanzo storico, la trama si articola attorno a una serie di personaggi e ai conflitti che li muovono all’interno di una situazione: perché la matassa narrativa possa dipanarsi, questi personaggi devono interagire tra loro, e per interagire devono comunicare. Ed è qui che la tecnologia del presente entra a gamba tesa. Oggi viviamo immersi in un flusso incessante di informazioni, comunichiamo in continuazione, spesso con più persone in parallelo, e lo facciamo da remoto, utilizzando dispositivi che per una serie di ragioni risultano poco narrabili. Le narrazioni ambientate prima del boom di internet (o anche solo del boom dei social, quindi prima del 2007) consentono di inserire i personaggi in una cornice di relativa scarsità comunicativa: se un personaggio voleva comunicare in tempo reale e a distanza con un altro personaggio doveva utilizzare un telefono fisso, oppure rintracciarlo di persona. Non stupisce dunque che molti decidano di trincerarsi in questo territorio di lavoro. Ma esiste un approccio alternativo alla narrazione del presente?
Il termine “realismo aumentato” è emerso per la prima volta, nella sua connotazione provocatoria ed esplorativa, durante una conversazione informale che ho avuto con Claudia Durastanti e Gianluca Didino. Eravamo seduti al tavolo di un pub a Canary Wharf, per diverse ragioni in quel periodo tutti e tre ci stavamo confrontando con narrazioni futuribili per le quali le etichette tradizionali parevano insufficienti. Claudia stava curando (insieme a Veronica Raimo) la versione italiana dell’antologia Le Visionarie, Gianluca Didino stava cominciando a lavorare a un saggio sul superamento del postmoderno, io ero alle prese con l’ultima stesura di Un attimo prima. Tutti e tre eravamo d’accordo che il termine “fantascienza” sia in molti casi fuorviante: nelle storie di cui stavamo discutendo la scienza non ha un ruolo predominante, come non lo hanno gli elementi allegorici, o quelli di anticipazione. La proiezione futuribile non ha tanto un carattere speculativo, quanto esplicativo. Opere come Generosity di Richard Powers, The heart goes last di Margaret Atwood, Solar di Ian McEwan, Odds against tomorrow di Nathaniel Rich e Valley of the Girls di Kelly Link sono fortemente ancorate al presente, e gli elementi di stranezza hanno come effetto principale quello di rivelare aspetti della realtà impossibili da distinguere con un’angolazione tradizionale. Insomma, per inquadrare una dinamica, una realtà in divenire, è necessario mettersi in movimento, scegliere un punto d’osservazione più avanzato. A questo proposito, parlando del suo romanzo Sottomissione, Michel Houellebecq ha dichiarato:
Sono molto poco soddisfatto del trattamento mediatico riservato al mio libro in Francia… il punto centrale non è l’Islam, il mio è un attacco feroce all’Occidente… non credo che l’essere umano possa vivere in un mondo che cambia di continuo. L’assenza di equilibrio, di un progetto di equilibrio, è di per sé invivibile. L’idea del cambiamento perenne rende la vita impossibile.
Come dicevamo, la reazione più diffusa di fronte alla sfrenata mutevolezza del presente è quella di ambientare le proprie storie in un passato recente o eliminando ogni tecnologia (a partire dagli smartphone) dall’equazione. Negli ultimi tempi però si sta facendo strada una soluzione diversa, più ambiziosa e interessante: se il presente cambia troppo in fretta, un’alternativa percorribile è utilizzare come sponda il futuro prossimo. Per raccontare un aspetto della realtà contemporanea, Houellebecq ha spostato in avanti l’orizzonte di qualche anno, ha fatto invecchiare il presente secondo una precisa direzione, per poterne così portare a galla le contraddizioni. Sostiene qualcosa di simile Kim Stanley Robinson quando dice:
La letteratura speculativa è il realismo dei nostri tempi. Descrive il presente nello stesso modo in cui un tiratore colpisce un piattello, mirando un poco più avanti della posizione in cui è il bersaglio, rivelando ciò che pur non essendo ancora presente, sta già avendo un impatto. […] Non si tratta di preconizzazione. È il prodotto di un’azione duplice, come le lenti di un paio di occhiali 3D. Attraverso una lente, ci impegniamo nel tentativo di ritrarre un futuro possibile. Attraverso l’altra, vediamo il nostro presente metaforicamente. […] Alcuni lettori non riescono a unire queste due visioni, per questo non gli piace la fantascienza.
L’analogia di Robinson è efficace, ma allo stesso tempo tradisce un preconcetto tipico di molta letteratura speculativa, secondo cui il mondo dei lettori si dividerebbe in due macrocategorie che si intersecano a malapena: da un lato ci sarebbero gli schiavi del realismo a tutti i costi, troppo limitati (o in cerca di rassicurazioni) per spingere lo sguardo oltre l’orizzonte più vicino; dall’altro ci sarebbero le menti visionarie, capaci di disancorarsi un poco dal terreno solido della realtà presente per lasciar l’immaginazione libera di correre.
Questa suddivisione è stata messa fortemente in crisi, di recente, grazie a una serie-TV antologica – Black Mirror – che sebbene includa nelle sue trame elementi futuribili, sebbene utilizzi alcuni espedienti narrativi tipici delle distopie, viene apprezzata da un pubblico amplissimo, tra cui anche da molti che solitamente la fantascienza non la toccherebbero nemmeno coi guanti. Questo accade non soltanto per l’originalità delle storie o della cornice scelta, quanto per l’utilizzo di un approccio diverso, in cui le componenti esotiche e allegoriche lasciano spazio a ponti diretti con il presente, riferimenti talmente vicini e riconoscibili da lasciar pensare più a una nuova forma di realismo che a un nuovo genere di fantascienza.
Uno dei motivi per cui molti lettori trovano respingente la fantascienza è che essa richiede una ricodifica dei riferimenti a cui ancoriamo la nostra visione della realtà. Che si tratti di nomi d’invenzione per tecnologie stravaganti, pianeti altri, creature aliene, specifiche ultratecniche, lo sforzo richiesto porta molti lettori a trovare faticosa (ancor prima che surreale) la letteratura fantascientifica. Se ci pensiamo, il racconto realistico non richiede quasi ricodifiche, il ruolo del lettore è attivo, certo, ma anche spontaneo, fluido, le parole su carta producono un’immagine istantanea nella testa del lettore. La stessa cosa può accadere anche quando si sposta la narrazione in un futuro prossimo, a patto che gli elementi scientifici, tecnologici, politici e sociali siano presentati come organici alla storia, quotidiani e senza didascalismi.
Basta cercare su Google il neologismo “blackmirroresque” per farsi un’idea del tipo di esigenza narrativa che Charlie Brooker e colleghi sono riusciti a intercettare: l’aggettivo viene utilizzato ormai non solo per serie TV e film, ma anche per romanzi, racconti, opere teatrali, persino articoli di consumo. Non è però un caso che questo tipo di storie abbia avuto una consacrazione di massa sul piccolo schermo. Le tecnologie che oggi promettono di stravolgere la nostra vita hanno a che fare con il nostro modo di comunicare, di creare nuove connessioni, di virtualizzare esperienze fino ad oggi ostacolate dal peso specifico della realtà tangibile.
Uno dei motivi per cui molti lettori trovano respingente la fantascienza è che essa richiede una ricodifica dei riferimenti a cui ancoriamo la nostra visione della realtà.
Questo significa, tuttavia, che la letteratura si trova di fronte a un tipo di sfida diversa, che costringe chi scrive a esplorare una direzione più consona alle sue dinamiche. Tentare di riprodurre su carta un immaginario visivo à la Black Mirror sarebbe fatica sprecata, perché ci ritroveremmo a sfruttare troppi caratteri per descrivere innovazioni visive che invece dovrebbero apparire istantaneamente fruibili (e torniamo quindi al problema della ricodifica).
Parlando della sua collaborazione al film Minority Report, il saggista e futurologo Kevin Kelly ha spiegato come la lezione più preziosa che ha imparato da Spielberg è che il progresso non è una piallatrice: “il vecchio persiste”, gran parte delle infrastrutture che esistono oggi probabilmente permarranno anche nel futuro, e questo per una ragione pratica (se una cosa c’è già, e funziona, ha più senso usarla come base per costruire qualcosa di nuovo che raderla al suolo); per questo è ragionevole che il futuro proiettato assomigli al presente, o almeno ne mantenga l’intelaiatura. In un certo senso, il tipo di storie di cui stiamo parlando raccontano un presente invecchiato lungo direzioni già in essere. Kim Stanley Robinson parlava di occhiali 3D, ma come abbiamo detto sopra l’analogia funziona meglio con i dispositivi per la realtà aumentata: così come i Google Glass arricchiscono la nostra percezione della realtà tangibile, integrandola con elementi informativi esterni, così queste opere utilizzano il futuro imminente come sponda per “aumentare” la messa a fuoco del presente.
“La nostra realtà non è più piana: è proiettata” diceva Evgenij Zamjatin. Affinché sia possibile effettuare una proiezione è necessario avere un punto di partenza fisso e definito. Per questo le speculazioni del realismo aumentato includono sempre tecnologie e dinamiche già esistenti (o basate su principi in fase di esplorazione); in un certo senso, più che di futuro, si potrebbe parlare di “presente invecchiato” (o di “estremo presente” per citare Antonio Scurati). Questa proiezione può avere segno negativo (come avviene generalmente nelle distopie), o positivo (come avviene raramente in alcuni racconti utopici), ma la vera sfida è utilizzare una sponda neutra.
Per ragioni evolutive, l’essere umano tende a immaginare futuri nefasti (la nostra capacità narrativa e predittiva serviva anche a prepararci al peggio). È necessario dunque un nuovo paradigma di proiezione, disancorato dalla visione accumulativa, progressiva e consumistica che caratterizza la società capitalistica, e quindi abbandonare la vocazione distopica di molte opere speculative. In Vizio di Forma Primo Levi scriveva:
Le gigantesche trasformazioni, in corso nel mondo oggi, buone o cattive, hanno avuto origine nei laboratori, e non nei parlamenti: nuove coltivazioni e nuove armi, nuove malattie e nuove terapie, nuove fonti di energia e nuove contaminazioni.
Levi accusava alcuni autori di fantascienza – che chiamava “profeti tecnografi” – di avere inventato “catastrofi titaniche, tragicamente gloriose”, senza rendersi conto che la fine del mondo sarà più probabilmente “gretta, sordida, prosaica come un fallimento commerciale”.
Onde evitare di perdersi in preconizzazioni inutilmente tragiche, e si riesca a far prevalere la componente realistica a discapito di quella esotico-allegorica, è necessaria una preparazione di base sul punto di fuga che si è scelto di utilizzare per proiettare il presente. Il realismo aumentato, insomma, non si improvvisa: laddove il realismo presuppone una conoscenza approfondita della realtà, il realismo aumentato richiede una conoscenza approfondita delle dinamiche che si intende proiettare. La sponda speculativa, insomma, deve avere un contrafforte scientifico: e qui con “scienza” intendo qualunque tipo di ambito di studio sia alla base della dinamica affrontata (perciò non solo biologia e ecologia, ma anche sociologia, geopolitica, economia etc.).
Il fatto che questo tipo di realismo imponga una fase di ricerca non significa che i frutti di questa ricerca debbano apparire in primo piano; la componente scientifica è uno strumento utile all’autore, più che al lettore; l’ideale è dunque che questa impalcatura venga totalmente coperta dall’edificio del racconto. Uno degli aspetti più respingenti della fantascienza è che in molte storie la cornice di genere (ossia l’espediente scelto, il what if su cui si incardina la narrazione) è un elemento preponderante. In Hieroglyph per esempio, antologia pubblicata nel 2014, Neal Stephenson ha raccolto i contributi di vari autori e scienziati che, a partire da alcune innovazioni tecnologiche e scientifiche, hanno confezionato storie intenzionalmente realistiche. Il problema di queste storie era che la cornice scientifica era talmente spessa da oscurare la storia, e i continui riferimenti agli studi consultati, invece di rendere il racconto più credibile, avevano il sapore di excusationes non petitae che ottenevano l’effetto opposto.
D’altronde, perché sia possibile disancorare definitivamente questo genere letterario dalla fantascienza e dal realismo magico, è necessario rinunciare alle componenti surreali o fantastiche tipiche di quei generi, inclusi aspetti sulla cui attendibilità non ci si può ancora esprimere, come ad esempio l’esistenza di alieni o la fattibilità dei viaggi nel tempo. Prendiamo ad esempio il racconto Sleep Donation di Karen Russell: nonostante sia ambientato in un futuro prossimo e la cornice fantascientifica sia ridotta al minimo, l’idea attorno a cui è tessuta la trama (ossia che il sonno possa essere “donato”) non ha al momento alcun legame con la realtà, non si può quindi parlare di realismo. La sfida, perciò, è dare solidità concettuale al punto di partenza della proiezione senza per questo scadere nel didascalismo pedante tipico della fantascienza “hard”; in sostanza: impalcare un contrafforte solido per poi renderlo invisibile.
Se da un lato è necessario nascondere l’impalcatura scientifica, dall’altra è fondamentale rendere visibili quei lati della realtà che spesso rimangono in ombra, i punti ciechi che il realismo tradizionale non riesce a colmare. Margaret Atwood ha ribadito il concetto più volte: “La mia non è fantascienza, tutto quello che accade nei miei romanzi non è solo possibile, potrebbe stare già accadendo oggi”. Allo stesso modo, il realismo aumentato non si picca di prevedere il futuro, quanto di rendere visibile quella parte di presente che il realismo tradizionale non è in grado di inquadrare nella sua complessità. Esistono dinamiche – come quelle geopolitiche, ambientali, tecnologiche etc. – che non è possibile raccontare se non “in movimento”. Ad esempio: possiamo raccontare che Google e altre aziende stanno testando le auto senza guidatore gestite da un’intelligenza artificiale, ma abbiamo bisogno di una sponda futura per raccontare come questa novità stia per modificare la quotidianità delle persone e il loro modo di vivere la città; analogamente: possiamo fornire dati sullo scioglimento della calotta polare artica, ma per avere una misura di quello che sta accadendo, dobbiamo descrivere un futuro imminente (e ormai inevitabile) in cui la militarizzazione del polo ha creato nuovi attriti tra Russia ed Europa. In Momenti di essere, Virginia Woolf, per descrivere la permanenza del passato nell’esperienza presente, parla di “presenze invisibili”:
Non è dunque possibile, mi sono chiesta spesso, che le cose vissute con grande intensità posseggano una vita indipendente dalla nostra mente; continuino anzi tuttora a esistere? E se è così, non sarà possibile in futuro inventare una macchina per intercettarle? […] Fino ai quarant’anni e oltre fui ossessionata dalla presenza di mia madre. Ne udivo la voce, la vedevo, mi immaginavo cosa avrebbe detto o fatto in ogni momento della mia giornata. Era una delle presenze invisibili che svolgono tanta parte in ogni vita umana.
Un po’ come il passato di Woolf, il nostro futuro prossimo è inciso nel risvolto nascosto del presente: in forma di tecnologia non implementata, di tendenza in crescita, di fenomeno distribuito, un germe di potenzialità che per ragioni di convenienza politica rimane ingabbiato. L’unico modo per scardinare questa gabbia è raccontarlo, farlo esplodere, “proiettarne l’ombra”, per parafrasare ancora una volta Primo Levi. Ed è proprio questa, credo, la sfida che il realismo aumentato si sta ponendo: fare emergere il sommerso, rivelare il retro insieme alla facciata. Aumentare il presente, insomma, per renderlo più visibile. E comprensibile.