“D are l’elenco delle innumerevoli mostre personali o di gruppo alle quali partecipai tra il 1968 e il 1979 non è praticamente possibile per chi cerca un impiego. Come non è possibile dimenticarle del tutto in un buon curriculum, indipendentemente dal peso reale che esse ebbero nella mia storia. A volte cose piccole che con il tempo si riveleranno grandi; a volte cose grandi che con il tempo appariranno minuscole”. Per non essere un’autobiografia, ma un Autocurriculum, inizia in modo del tutto imprevisto il libro che Emilio Isgrò (artista visivo, ma anche regista di teatro e poeta) scrive, arrivato ai suoi primi ottant’anni: “Se è vero che si nasce e che si muore, allora è vero che io sono nato e ancora non sono morto”.
E morto non lo è di certo: resoconto delle sue mille e una vita, Autocurriculum è il tentativo di ordinare per sommarietti eroici e divertiti un’esistenza più grande delle altre, che inizia a Barcellona Pozzo di Gotto il 6 ottobre del 1937, alle ore quattro e mezza del mattino (“una levataccia che ancora oggi mi pesa”), per poi passare da Venezia a New York, dal teatro siciliano, a Milano, alle gallerie di tutta Europa. Cosa mangia Montale, La confessione di Pound, e Le zampe della Guggenheim: ecco i titoli dei capitoli con cui Isgrò prova a condensare ottant’anni di vicissitudini, lavori, incontri straordinari e quotidiani, cercando di rimanere entro i margini della pagina, mescolando incontri impossibili con avventure minime. Se le regole di un buon curriculum prevedono che questo contenga solo le esperienze più importanti di una carriera, stavolta il maestro delle cancellature decide di non tralasciare proprio niente, neanche quell’interminabile viaggio tra Modena e Belgrado che gli costa quasi l’amicizia con Franco Vaccari (“perché, mi rinfaccia ancora Vaccari, cominciai ad allacciarmi la cintura a Trieste e a Belgrado non c’ero ancora riuscito”).
Così c’è Paolo Volponi “capacissimo di telefonarti a mezzanotte imitando la voce di Leopoldo Pirelli o di Giulio Einaudi” e che scoppia a ridere perché tutti cadono nella sua trappola; c’è Anna Magnani, incontrata al Lido veneziano, insieme a Pasolini in occasione della proiezione di Mamma Roma, e che, a un’amica che le si getta al collo dicendo “Anna m’hai fatto piagne”, risponde “E a me che me ne frega?”; ci sono John Fitzgerald Kennedy incontrato alla Casa Bianca nel maggio 1963 e Peggy Guggenheim che si cruccia dell’indifferenza dei veneziani.
Poi ancora Virna Lisi “alla ricerca di un progetto abbastanza acido da affrancarla dal suo ruolo di vamp acqua e sapone”: in questo libro Isgrò confessa, per rubare le parole a un altro poeta, di aver vissuto e di averlo fatto più intensamente e meravigliosamente degli altri; e allora si impegna a scrivere una storia che, come la vita, tenga insieme l’alto e il basso, il comico e il sublime. E allora di Nam June Paik e della sua compagna, la violoncellista Charlotte Moorman, non ne ricorda le esibizioni alla Biennale, ma quella volta che li aveva ospitati a casa sua e lui, da buon buddista aveva rifiutato il letto per dormire per terra, salvo poi chiedergli una bottiglia di gin, che si era bevuto all’alba successiva, solo, sul tratto di spiaggia di fronte all’Hotel Excelsior, e un po’ di soldi per proseguire il viaggio verso Stoccolma, dove erano attesi per un concerto. Di Ileana Sonnabend, la leggendaria gallerista americana, ricorda che girava per la laguna con un borsone da massaia penzolante dal braccio. Ignora, Isgrò, quelli che chiama “i nevrotici problemi d’immagine indotti e provocati dalla globalizzazione delle intelligenze”:
Per cui se oggi esponi alla Biennale di Venezia, non sta bene che tu esponga domani all’Associazione dopolavoristica di Gallarate o Canicattì; e se domani ti presenti al MoMa non è giusto che ti esibisca dopodomani in un sottoscala. Il circolo dell’Italsider di Taranto, dove pure io esposi con altri poeti visivi, non mi diede insomma meno soddisfazioni di quante me ne darà in futuro la mostra sull’arte italiana allestita alla Hayward Gallery di Londra.
Continua, poi, dicendo che non deve “destare meraviglia che i Manzoni e i Fontana più interessanti io li abbia ammirati in fumose osterie meneghine dove I Gufi cantavano a squarciagola Porta Romana bella”. Sono infinite le storie che l’artista siciliano racconta, ma questo non è un libro di aneddoti che vanno bene per le cene. E non è neanche un libro che parla di un’Italia che non c’è più, perché quella che descrive è piena di artisti che provano a campare nonostante tutto, di stanze condivise e viaggi in macchina, un po’ alla Bianciardi, un po’ identica al presente.
In questa autocertificazione di esistenza, c’è un po’ di tutto, tranne che gli stucchevoli intenti nostalgici: Autocurriculum è spinto dal desiderio di celebrare quello che è stato, perché è stato, perché tutto ha aiutato a formare e alimentare la sua intelligenza artistica; è un manifesto tascabile dell’abbondanza, firmato dall’artista che poteva cancellare tutto e non dimenticare niente.