I l mio primo contatto con quello che sarebbe diventato il mio film preferito, 2001: Odissea nello spazio, avvenne il 13 gennaio del 1979. Sono stato in grado di ricostruire con esattezza la data per via di una serie di coincidenze con altri accadimenti, il cui racconto annoierebbe il lettore. Il film era uscito il 6 aprile del 1968 negli Stati Uniti, ma io lo vidi oltre dieci anni più tardi in un cinema secondario di Roma che lo riproponeva per non so quale ragione. A ogni modo, non esagero se dico che la visione di quel film, quando avevo poco meno di otto anni, è stato uno degli eventi memorabili della mia esistenza. Avevo convinto mio padre a portarmi al cinema dopo aver visto dei manifesti promozionali che mostravano astronauti, navi spaziali e scimmioni preistorici – ovvero tre dei miei principali interessi a quell’età. Ciò a cui assistetti quella sera, però, era qualcosa a cui ero totalmente impreparato. Le sequenze finali, in particolare, mi lasciarono profondamente turbato. C’era qualcosa, in quel film, che risvegliava emozioni che devono aver fatto parte del nostro bagaglio di specie per decine o centinaia di migliaia di anni: l’attrazione e il terrore nei confronti dell’ignoto, il desiderio di controllare e tenere a freno l’imponderabile, il disagio causato dall’incomprensibile. Non potevo capire tutte le implicazioni di 2001, all’epoca, ma ho continuato a elaborare per quarant’anni ciò che Kubrick e Clarke hanno immaginato e messo in scena. Oggi mi sembra ovvio che non si tratti solo di un viaggio esteriore, ma soprattutto di una esplorazione del senso di ciò che ci rende umani. Un’esplorazione che ha a che fare anche con il tentativo di capire qual è il nostro posto nel cosmo.
Gli anni in cui fu concepito 2001 sono gli anni in cui la scienza ha iniziato, per la prima volta, a occuparsi seriamente della questione della vita extraterrestre. L’indagine sulla nostra solitudine cosmica era stata per secoli materia esistenziale, filosofica. Ma, con l’inizio dell’era spaziale, l’interesse per la questione aveva iniziato a oltrepassare l’ambito speculativo e si era affacciato, seppure a fatica, nei laboratori e negli osservatori. La NASA fu fondata nel 1958, e fin dai primi anni uno degli obiettivi scientifici dell’agenzia fu quello di andare in cerca di possibili evidenze scientifiche di vita fuori dalla Terra. Il biologo Joshua Lederberg (premio Nobel per la medicina proprio nel 1958, per i suoi studi sulla genetica dei batteri) aveva iniziato in quel periodo a valutare il possibile impatto biologico dell’esplorazione spaziale. La preoccupazione era che batteri terrestri potessero contaminare le sonde spaziali ed essere esportati verso altri corpi del sistema solare, ma anche che le sonde, rientrando sul nostro pianeta, potessero introdurvi eventuali agenti patogeni di origine extraterrestre. Nel 1960, Lederberg coniò il termine “esobiologia” (oggi rimpiazzato dal più generale “astrobiologia”) per riferirsi a un nuovo campo di studi scientifici che esplorasse il legame tra la vita – terrestre e no – e l’universo.
L’influenza di Lederberg spinse la NASA a considerare la ricerca di vita uno dei possibili obiettivi di una futura missione verso Marte. L’ubriacatura per il pianeta rosso vissuta a cavallo tra il diciannovesimo e il ventesimo secolo – con i famigerati (e immaginari) canali marziani di Schiaparelli, e le ipotesi scientifiche e fantascientifiche sulle civiltà marziane – era ormai tramontata. Ma sebbene negli anni Cinquanta e Sessanta la possibilità di vita intelligente marziana non avesse più alcuna credibilità negli ambienti scientifici, la presenza di organismi più semplici sul pianeta rosso era ritenuta estremamente probabile. In generale, l’idea che la vita fosse il risultato di reazioni chimiche potenzialmente comunissime nell’universo aveva guadagnato terreno dopo che, nel 1952, Stanley Miller e Harold Urey avevano sintetizzato amminoacidi in un’ampolla a partire da una semplice miscela di gas – la cui composizione, all’epoca, era ritenuta simile a quella dell’atmosfera della Terra appena formata. L’esperimento di Miller e Urey dava sostegno alle ipotesi del biochimico russo Aleksandr Oparin, che negli anni ’20 aveva teorizzato l’origine della vita a partire da un “brodo primordiale” di molecole organiche.
Gli anni in cui fu concepito 2001 sono gli anni in cui la scienza ha iniziato, per la prima volta, a occuparsi seriamente della questione della vita extraterrestre.
Se la vita era comune nell’universo, non era impossibile che in altri pianeti della nostra galassia esistessero forme di vita intelligenti e tecnologicamente avanzate. Nel 1959 i fisici Giuseppe Cocconi e Philip Morrison avevano pubblicato su Nature l’articolo “Searching for Interstellar Communications”, il primo studio scientifico sulla possibilità di intercettare segnali radio extraterrestri di origine artificiale. Nel 1960, il radioastronomo Frank Drake aveva puntato il radiotelescopio di Green Bank, in West Virginia, verso due stelle vicine al Sole, Tau Ceti e Epsilon Eridani, ma non aveva trovato nessuna evidenza di comunicazioni da parte di civiltà tecnologiche. Nel 1961, lo stesso Drake aveva riunito una serie di studiosi provenienti da diverse discipline per discutere i fattori che potevano influenzare l’abbondanza di specie extraterrestri intelligenti nella galassia: il risultato, una formula statistica nota da allora come equazione di Drake, è ancora oggi alla base di molti studi sulla probabilità che la nostra specie non sia la sola civiltà tecnologica nell’universo.
Tra i presenti alla riunione del 1961 c’era un giovane astronomo il cui nome sarebbe diventato molto popolare nei decenni successivi: Carl Sagan. Nel 1966, Sagan pubblicò, assieme all’astrofisico sovietico Iosif Shklovskii, il libro Intelligent Life in the Universe. È documentato che Kubrick lesse e apprezzò il libro di Sagan e Shklovskii durante la preparazione di 2001, che era iniziata nel 1964. Ma questa non fu certamente l’unica fonte di Kubrick, che era persona di enorme curiosità e di ottime letture. Tra i libri consultati da Kubrick figurano tanto testi divulgativi (come il famoso We Are not Alone di Walter Sullivan, del 1964), che volumi tecnici, tra cui la prima raccolta di articoli scientifici sulla ricerca di vita intelligente (Interstellar Communication, a cura di Alastair Cameron, del 1963). In effetti, fin da quando Kubrick iniziò a pensare di realizzare “il film di fantascienza per eccellenza”, i suoi punti di riferimento furono esclusivamente personalità provenienti dal mondo dell’accademia e della ricerca – a partire dal collaboratore principale, Arthur Clarke, esponente di punta della fantascienza “dura”, dotato di una solida preparazione tecnica. Gli extraterrestri di Kubrick sono compatibili con la cultura scientifica dell’epoca, e non hanno nulla a che fare con l’immaginario ufologico, che pure impazzava in quegli stessi anni nella cultura popolare e cinematografica. Peraltro, Kubrick e Clarke furono testimoni, nel 1964, dell’avvistamento di un oggetto volante non identificato, che segnalarono debitamente all’aviazione militare americana: ma furono loro stessi a trovare la spiegazione naturale del fenomeno, il passaggio del satellite per telecomunicazioni Echo. (È interessante notare come un altro film che immagina il primo contatto con alieni intelligenti, Incontri ravvicinati del terzo tipo, uscito esattamente dieci anni dopo 2001, sia invece molto meno selettivo nei suoi riferimenti culturali, più vicini alla pseudoscienza e al complottismo che non alla scienza.)
La proverbiale meticolosità di Kubrick si spinse al punto di reclutare una ventina di importanti scienziati per realizzare quello che doveva essere una sorta di documentario di contorno al film vero e proprio.
La proverbiale meticolosità di Kubrick non si limitò alla raccolta delle informazioni tecniche necessarie a rendere credibile il racconto (una verosimiglianza che è stata ripetutamente sottolineata negli ultimi cinquant’anni e che tutt’oggi si rivela sorprendente, soprattutto se confrontata con quanto il cinema di fantascienza ha prodotto persino in tempi ben più recenti) ma si spinse al punto di reclutare una ventina di importanti scienziati per realizzare quello che doveva essere una sorta di documentario di contorno al film vero e proprio. Nel 1966, Roger Caras, assistente del regista, filmò ore di interviste che però, alla fine, Kubrick decise di non includere nel film. Le pellicole sono andate perse, ma le trascrizioni dei colloqui sono state raccolte anni fa in volume (in Italia, con il titolo di Interviste extraterrestri, le ha pubblicate la casa editrice ISBN nel 2006). Il risultato è piuttosto impressionante. Tra gli scienziati interpellati da Kubrick c’erano i già citati Oparin, Drake e Morrison, ma anche gli astrofisici Harlow Shapley e Bernard Lovell, l’esperto di intelligenza artificiale Marvin Minsky, il fisico Freeman Dyson, lo scrittore Isaac Asimov, e molti altri. Manca proprio Carl Sagan (che pure era stato uno dei primi scienziati contattati da Kubrick), escluso a causa delle richieste economiche esorbitanti che aveva avanzato per fornire il suo contributo (lo 0.002% degli incassi lordi del film moltiplicati per i minuti di intervista, oltre al controllo editoriale sul risultato). Dal documentario perduto emerge una fotografia dettagliata del pensiero scientifico sulla questione della vita extraterrestre, nel pieno della corsa allo spazio. Tutti gli studiosi intervistati si dicono certi che la Terra non sia l’unico pianeta popolato da esseri intelligenti, e che nel giro di pochi anni ne avremmo potuto trovare le prove.
Come sappiamo, non è andata così. Uno dei cliché che circondano il capolavoro di Kubrick è che esso abbia anticipato il futuro. Ma al di là di qualche elemento secondario (i tablet esibiti dai personaggi, e poco altro) non c’è molto nel mondo del Ventunesimo secolo che somigli alla visione di 2001. La realtà mostrata in quel film è una realtà parallela, il risultato di un elaborato e ambizioso “se fosse”. Come qualsiasi opera d’arte, 2001 parla soprattutto del tempo in cui è stato realizzato. E tuttavia, come tutti i grandi capolavori, esplora idee e sentimenti universali. Le emozioni che ha risvegliato dentro di me, quando l’ho visto per la prima volta da bambino, sono le stesse che hanno risuonato negli spettatori che lo hanno ammirato negli ultimi cinquant’anni, e sono anche quelle che accompagnano da sempre il cammino dell’umanità. L’alba dell’uomo coincide, probabilmente, con la nascita della consapevolezza che c’è altro, là fuori, e con il bisogno di fare domande. La chiave del film, in fondo, è dichiarata fin dall’inizio. Il buio, il silenzio, il cielo, e poi le note dello Zarathustra nietzschiano musicato da Richard Strauss. Il poema sinfonico del compositore austriaco è un dialogo muto tra l’uomo e il cosmo. La domanda inespressa che ci portiamo dentro, e che Kubrick fa vivere nella sua odissea spaziale, è quella implicita nella riflessione di Pascal: “L’eterno silenzio di questi spazi infiniti mi spaventa”. Arthur Clarke la metteva in maniera leggermente diversa: “Esistono due possibilità: siamo soli nell’universo, oppure no. Entrambe le alternative sono terrificanti”. Ma siamo esseri umani e, quale che sia la risposta, non possiamo fare a meno di cercarla.