C i sono due stati d’animo ricorrenti, condivisi da chi per mestiere fa il programmatore. Il primo è l’ebbrezza che si prova quando si capisce di aver a che fare con un linguaggio macchina cristallino: input e output, e in mezzo mattoncini che si incastrano in maniera elegante, creativa ma logica. Il punto più alto di questa consapevolezza è la soddisfazione finale che si prova nel vedere che il programma o il pezzo di programma appena scritto al computer gira, funziona. È una vertigine nota anche a chi ha provato a pasticciare con il codice sorgente solo per qualche ora, per curiosità o per passione.
Prima o poi, però, qualche crepa si apre. L’imperfezione umana è diluita nella matematica del codice, nascosta nelle strutture binarie, ma è pur sempre lì, alla base dei linguaggi di programmazione, di come sono stati ideati e di come vengono utilizzati per costruire nuovi software. E quando l’imperfezione umana emerge, arriva il rinculo: è il secondo inevitabile stato d’animo, un misto di frustrazione e stanchezza. Vengono fuori bug, errori, ostacoli. Ci si ritrova schiacciati dalla complessità delle strutture, si smarrisce il quadro generale, ci si perde nei dettagli, e per la risoluzione dei problemi ci si affida più al pensiero magico e all’istinto che alla ragione.
Nel programmatore entrano a contatto il mondo per come lo comprendono gli umani e il mondo per come va spiegato a un computer: ma quello che si produce è uno strano stato di disgiunzione.
Mi sarebbe stato utile poter leggere Accanto alla macchina negli anni dell’università, durante i corsi di programmazione, mi avrebbe senza dubbio aiutato a capire meglio l’esaltazione, la noia, la delusione e l’euforia che provavo davanti allo schermo del computer. Ellen Ullman conosce meglio di me quei sentimenti: dopo un dottorato in materie umanistiche, negli anni Ottanta si ritrova quasi per caso a fare l’ingegnere all’alba del boom del settore tecnologico. Ullman diventa una scrittrice prestata all’informatica, lavora come programmatrice, come consulente e come imprenditrice, sempre inseguita da scadenze e problemi da risolvere in tempi brevi. Accanto alla macchina è l’autobiografia di quegli anni.
Ullman racconta il suo passato con aria di distacco, eppure senza cinismo. I temi del libro sono tanti perché la sua figura è caleidoscopica: bisessuale, appassionata di vini e letteratura, con un lavoro che non sente suo e nel quale però eccelle, ex comunista e forse ancora simpatizzante, vive in un ambiente quasi esclusivamente maschile, svolge un lavoro immateriale, frenetico e instabile, che non le dà sicurezza, ma prospera grazie alle rendite delle proprietà immobiliari lasciate in eredità dal padre. Una vita definitivamente dissociata, divisa tra reale, virtuale e ideale. “Contratti che vanno e vengono. Aziende fondate e dissolte. Programmi scaricati dalla rete, provati, disinstallati. Momenti intensissimi con colleghi che poi spariscono”.
L’elemento che rende Accanto alla macchina un libro unico, però, è l’analisi del rapporto tra esseri umani e computer. Un rapporto profondo, di compenetrazione, di reciproca influenza più che di convivenza. Non c’è modo migliore di dirlo di quello che trova la stessa Ullman:
I computer non sono neutrali – proprio per questa doppia anima artificiale e virtuale, umano e matematico. C’è qualcosa nel sistema, nella logica formale dei programmi, che finisce per obliterare le culture locali e tradizionali, più lente, più vecchie: la legge, la consuetudine sociale. Pensiamo di creare un sistema per i nostri corpi. Pensiamo di crearlo a nostra immagine. Chiamiamo il processore cervello e diciamo che i computer hanno memoria. Ma non sono come noi, sono una proiezione di una parte molto sottile di noi stessi: quella in cui regnano la logica, l’ordine, la chiarezza.
Oppure, ancora, a proposito delle conseguenze dell’affidare le vite alla macchina:
È come se prendessimo il gioco degli scacchi e decidessimo di modellare su di esso ogni aspetto dell’esistenza umana. Ci circondiamo di queste piccole proiezioni di noi stessi e finiamo per farci affidamento. Ci adeguiamo al margine di movimento che il sistema ci concede. Diventiamo più ordinati, più logici. Siamo convinti di creare il sistema, ma al contempo è il sistema che crea noi. L’abbiamo costruito, ci viviamo dentro, ne siamo trasformati.
L’informatica oggi è al centro delle nostre quotidianità, eppure occupa un posto ancora periferico nell’immaginario letterario. Se non contiamo le distopie fantascientifiche e la letteratura di genere, la tecnologia è di solito un luogo poco frequentato dagli scrittori, che forse hanno paura di sporcarsene le mani, di macchiare la prosa, di raffreddare la narrazione. Ullman procede spedita controcorrente: Accanto alla macchina è l’esatto tentativo di comprendere la tecnologia con gli strumenti della letteratura, svolto da una persona sospesa tra i due mondi.
Accanto alla macchina venne pubblicato per la prima volta nel 1997, ed è arrivato in Italia solo ora grazie a minimumfax, con la traduzione di Vincenzo Latronico. Proiettiamoci un attimo in quel periodo storico: alla fine degli anni Novanta la Silicon Valley attraversa un periodo di grande fermento. In quello stesso 1997, ad agosto, Steve Jobs torna alla Apple, azienda informatica in crisi di idee, per tentare di risollevarla. Poco dopo, a settembre, Larry Page e Sergey Brin decidono di rendere pubblico il loro progetto di dottorato a Princeton e registrano il dominio google.com.
1997 – 2018. Due decenni sono praticamente un’epoca geologica se tradotti in anni tecnologici. Eppure Accanto alla macchina non è un libro avvizzito dal tempo. Sono davvero pochi i momenti in cui ci si accorge di star leggendo il racconto di un mondo ormai lontano. Per sua intelligenza, per caso o per fortuna, Ullman è comunque riuscita, alla fine degli anni Novanta, a leggere la matrice di quel mondo informatico ancora naïf e embrionale, ne ha intuito già all’epoca gli aspetti caratteristici, i nodi decisivi che sarebbero venuti poi al pettine. Due esempi su tutti.
Nel 1997 solo l’1.7 % della popolazione mondiale aveva possibilità di connessione a internet. Zuckerberg aveva 13 anni, la privacy era un valore, l’espressione dati personali aveva un senso più profondo di quello che ha oggi (e l’enfasi andava ancora messa sul termine personali). Eppure già in quegli anni Ullman veniva assunta da aziende e imprese che volevano ottimizzare la produzione installando un sistema informatico locale nelle loro sedi e – visto che c’era – non è che si poteva anche trovare il modo di sapere, per esempio, gli spostamenti dei dipendenti? Quanto tempo trascorrevano effettivamente al computer a lavorare? Se davvero avevano mandato quella mail, o riempito quel modulo?
Questa bramosia di dati è diventata qualcosa a cui mi sono abituata. È stata istituzionalizzata come lato positivo di un sistema informatico: interconnessione, la possibilità di incrociare i database e scoprire un sacco di cose che in origine neppure ti interessavano.«Scommetto che questo coso può dirmi cosa fanno i miei dipendenti tutto il giorno».
Nel 1997 i bitcoin non esistevano, non esisteva neanche il termine criptovaluta, che sarebbe stato inventato un anno più tardi. Eppure, in qualche modo, in una versione ancora più eterea e vaga, i bitocoin vivevano già nei pensieri di hacker e programmatori. Ullman racconta così la smania anarcocapitalista di Brian, uno dei suoi colleghi e amanti:
Mi sono mai chiesta cos’è di preciso il denaro? No, ma nelle prossime ore (…) avrò modo di scoprire che Brian, invece, se l’è chiesto eccome. Il suo scopo, la sua missione nella vita, è creare un sistema bancario globale completamente anonimo. Non mi dice di preciso per quale ragione, se per diventare ricco o controllare il mondo, o anche solo per dimostrare che è in grado di farlo. (…) La sua strategia, dice, consiste nell’«arbitrare i regimi legali di vari paesi per creare un sistema bancario senza essere una banca».
Leggendo Accanto alla macchina mi è tornata in mente la celebre introduzione di Paura e disgusto a Las Vegas, dove Hunter Thompson racconta l’onda altissima e meravigliosa degli anni Sessanta e il modo in cui si è infranta al suolo nel giro di poco: la disillusione dopo il mito, l’alienazione che ha preso il posto della ribellione. Thompson scrive Paura e disgusto a Las Vegas come fosse la ricerca del “punto in cui l’onda, alla fine, si è spezzata per tornare indietro”. L’informatica, internet e la Silicon Valley negli anni Novanta hanno generato un’onda altissima, per certi versi simile a quella degli anni Sessanta. Non saprei dire se altrettanto meravigliosa, di sicuro non sembra destinata a infrangersi nel giro di poco. Accanto alla macchina è la ricerca del punto in cui quell’onda si è sollevata.