L a Red Scare, ovvero l’intensa isteria anti-comunista, travolse gli Stati Uniti in due ondate distinte, entrambe coincise con i due dopoguerra. Se la più celebre fu il cosiddetto “maccartismo”, sviluppatosi alla fine della Seconda Guerra Mondiale, è già subito dopo la Prima Guerra Mondiale che i continui scioperi spingono le autorità a reprimere i sindacati in maniera energica. La Rivoluzione Russa del 1917 aveva scatenato ondate di panico tra la classe imprenditoriale americana e, di riflesso, tra il ceto politico che la rappresentava. Proprio nella culla del capitalismo moderno, ineguaglianza e sfruttamento stavano gradualmente spingendo fette consistenti di lavoratori nelle ammalianti spire della lotta anti-sistema.
Nel solo 1919 furono più di tremila gli scioperi in tutto il paese, circa quattro milioni le persone coinvolte. Con lo sciopero generale di Seattle di febbraio, capace di portare in strada 65.000 lavoratori e paralizzare la città per cinque giorni, la classe operaia organizzata dai sindacati aveva lanciato un segnale chiaro a padroni e proprietari: i tempi stavano cambiando. Le proteste si impennarono soprattutto in estate e autunno, portando così a intensificare anche le repressioni e i controlli della polizia. I giornali dell’epoca infuocavano gli animi, accusando i “radicali” di sognare di metter fine alla democrazia americana e inaugurare la dittatura del proletariato. Un decennio prima, nel 1910, il distretto di Milwaukee aveva addirittura eletto al Congresso il primo socialista, Victor Berger, consacratosi da subito a cause eretiche come la nazionalizzazione del sistema radiofonico e l’introduzione di una pensione di quattro dollari per i meno abbienti. In un’America dove il lavoro minorile era ancora pienamente legale, sentir risuonare queste proposte tra le mura del massimo organismo legislativo federale era blasfemia pura.
Vedendo minacciati i propri privilegi, l’imprenditoria statunitense chiese il pugno duro delle autorità contro i sovversivi. E lo ottenne. Nonostante la Red Scare sia passata alla storia come un’isteria collettiva che travolse la politica americana, spingendola a provvedimenti non di rado in aperta violazione di diritti civili e politici, studi recenti sostengono che furono invece proprio le autorità ad alimentare la campagna di terrorismo mediatico che portò all’inasprimento della repressione verso i cosiddetti “elementi radicali”. Una paura, quindi, in gran parte allestita ad arte.
Il personaggio che più incarnò la guerra aperta dichiarata ai sovversivi, intesi in senso lato, fu il procuratore generale Alexander Mitchell Palmer, convinto che “un giorno il governo sarebbe caduto” per mano di questi individui. Mobilitando i servizi segreti, organizzando raid anche violenti, scatenando svariate ondate di arresti di massa, Palmer si mise a capo di una vera macchina repressiva nei confronti dei cittadini in protesta, e soprattutto dei lavoratori immigrati. A coadiuvarlo nell’opera si prodigò anche John Edgar Hoover, capo della General Intelligence Division, una sezione del Bureau of Investigation (il futuro FBI), organismo creato appositamente nell’agosto 1919.
Nonostante la Red Scare sia passata alla storia come un’isteria collettiva che travolse la politica americana, studi recenti sostengono che furono proprio le autorità ad alimentare la campagna di terrorismo mediatico.
I sobillatori venivano descritti come in prevalenza stranieri, ovvero elementi alieni impegnati a promuovere attività generalmente anti-americane. Nei titoli e nelle vignette dei giornali erano gli “alien reds”, o “alien labor agitators”. Una strategia facilitata dal fatto che già nella fase precedente all’entrata in guerra, alcune formazioni politiche di estrema sinistra avevano fatto campagne pacifiste e anti-militariste, tentando di boicottare l’intervento militare e promuovendo la prevalenza dell’internazionalismo di classe sul patriottismo. Si trattava ora di capitalizzare sul diffuso sentimento anti-tedesco che si era sviluppato durante il conflitto e trasformarlo in anti-comunismo. L’armistizio di Brest-Litovsk del 1918, con cui i bolscevichi avevano firmato una pace separata con la Germania imperiale, venne allora presentato come la prova dell’esistenza di un sodalizio russo-tedesco. Vennero fatti circolare alcuni documenti falsi, che attestavano come Lenin e Trotsky fossero due agenti tedeschi e come fosse stata la Germania a finanziare la Rivoluzione d’Ottobre, allo scopo di portare al collasso l’impero zarista. Un pamphlet intitolato The German-Bolshevik conspiracy spiegava il malefico complotto ordito da Pietroburgo e Berlino, solo apparentemente avversari. Tanto più che, ricordava la stampa, il comunismo era stato concepito proprio da due tedeschi. I media contribuirono ad amplificare la tesi governativa – l’equivalenza tra rivoluzionari e stranieri – fomentando la xenofobia del ceto medio americano. In pochi mesi la necessità di espellere gli elementi alieni che, foraggiati da potenze straniere, tramavano contro lo sviluppo naturale e pacifico della società americana divenne auto-evidente ad ampi settori della popolazione. “The Quicker and Harder, the Better”, si leggeva sui giornali.
Giustificata giuridicamente dal nuovo Immigration Act emanato nel 1918, che ampliava arbitrariamente la categoria di soggetti considerati “anarchici” e ne permetteva la deportazione immediata senza processo (era infatti considerata un mero atto amministrativo), l’operazione guidata dal procuratore Palmer si diresse soprattutto verso la Union of Russian Workers. L’attività politica dell’organizzazione era affiancata dall’offerta di servizi sociali fondamentali per gli immigrati russofoni dell’epoca (si parla di quasi quattrocentomila persone), come corsi di alfabetizzazione e lezioni di inglese. Questa associazione di ispirazione anarchica, fondata da esuli russi dopo il fallimento della rivoluzione del 1905, venne sostanzialmente annientata nel 1919 dal Bureau of Investigation e dal Dipartimento di Giustizia americano.
Il 7 novembre 1919, in occasione del secondo anniversario della Rivoluzione d’Ottobre, la polizia organizzò dei raid in dodici diverse sedi della Union of Russian Workers. Nonostante i soli ventisette mandati di arresto, vennero fermate quasi duecento persone. Il giorno successivo seguirono altri settanta raid, che portarono all’arresto di cinquecento persone. Queste operazioni di polizia, spesso violente, avevano principalmente una funzione deterrente e intimidatoria, puntavano a scoraggiare future proteste. Punivano arbitrariamente anche individui solo labilmente connessi a organizzazioni anarchiche o comuniste, alle quali magari non erano nemmeno iscritti. Non fu solo la Union of Russian Workers, infatti, a finire nel mirino della machiavellica macchina di repressione, ma tutta una galassia eterogenea che andava dal Partito Socialista ai Wobblies, gli anarco-sindacalisti riuniti nell’Industrial Workers of the Workers.
Degli immigrati russi arrestati nel 1919, duecentocinquanta vennero dichiarati idonei alla deportazione immediata; una nave passeggeri, di proprietà dell’esercito, venne predisposta per il loro rimpatrio in Russia. Poiché tutti gli immigrati selezionati per l’espulsione avevano lasciato la Russia quando era ancora impero zarista, tecnicamente nessuno di essi era cittadino sovietico. Gli Stati Uniti intendevano trasferirli forzatamente in uno stato che non conoscevano.
Degli immigrati russi arrestati nel 1919, duecentocinquanta vennero dichiarati idonei alla deportazione immediata; una nave passeggeri, di proprietà dell’esercito, venne predisposta per il loro rimpatrio in Russia.
Buona parte dei deportati non aveva commesso alcun tipo di reato, né aveva idea del motivo dell’espulsione. Tra loro, c’erano molti immigrati pressoché sprovvisti di basi ideologiche, che stavano frequentando dei corsi di inglese, nonché gli insegnanti. Quattordici erano “elementi indesiderati”, o perché condannati per qualche crimine minore, o perché considerati parassiti sociali. I restanti cinquantuno, infine, erano anarchici la cui espulsione era stata già decisa precedentemente. Di quest’ultimo gruppo faceva parte anche una delle sole tre donne deportate, indubbiamente la più celebre e temuta tra i sovversivi: Emma Goldman, la quintessenza del pericolo rivoluzionario. Anarchica, femminista, e soprattutto straniera. Lei e il compagno Aleksandr Berkman, nati sotto l’impero zarista, casualmente entrambi nell’odierna Lituania (rispettivamente a Kaunas e Vilnius), si erano guadagnati le prime pagine dei quotidiani già nel 1892, per aver ordito l’attentato contro l’imprenditore Henry Clay Frick, per cui Berkman aveva passato quattordici anni in carcere, dove aveva scritto Prison Memoirs of an Anarchist.
La stampa affibbiò alla Usat Buford, la nave scelta per il trasferimento, il soprannome di “Soviet Ark”, una denominazione dal richiamo biblico che evocava efficacemente le finalità purificatrici di un gesto spettacolare e inaudito: una deportazione di massa, trans-oceanica, senza alcun accordo con lo stato di destinazione. Washington, infatti, neppure riconosceva ufficialmente la Russia bolscevica. Perciò, si confrontò prima con Riga sulla possibilità di far passare i deportati attraverso il territorio lettone fino in terra russa, ma le condizioni economiche che la Lettonia richiedeva per tale “favore” portarono gli Stati Uniti a orientarsi verso la Finlandia, preoccupata solo che l’operazione avvenisse interamente a spese degli americani. L’Arca Sovietica partì da Ellis Island, nel porto di New York, a dicembre. Ricordando la nave lasciare il porto della sua “amata New York, la metropoli del nuovo mondo”, Emma Goldman scriveva laconica: “Era l’America, proprio l’America a ripetere ora le stesse terribili scene della Russia zarista”, riferendosi all’abituale prassi della deportazione nei gulag impiegata dalle autorità imperiali. L’approdo avvenne il 17 gennaio 1920 sulle coste finlandesi di Hanko, da dove i confinati vennero in seguito condotti prima via treno e poi a piedi oltreconfine, fino a Beloostrov.
Non si sa molto del destino di questi immigrati rimpatriati d’ufficio. Alcuni di loro vissero un iniziale entusiasmo verso l’esperimento bolscevico, presto scemato di fronte alla degenerazione repressiva ed anti-libertaria che ne seguì. Dall’esperienza Goldman estrarrà una serie di scritti autobiografici, pubblicati in My Disillusionment in Russia (titolo imposto all’autrice obtorto collo). In The Bolshevik Myth (Diary 1920–1922), che si apre con una descrizione della traversata trans-oceanica, Berkman riecheggia considerazioni simili.
Non si sa molto del destino di questi immigrati rimpatriati d’ufficio. Alcuni vissero un iniziale entusiasmo verso l’esperimento bolscevico, presto scemato di fronte alla degenerazione repressiva e anti-libertaria.
Nonostante operazioni spettacolari come la Soviet Ark, le repressioni guidate da Palmer non ebbero comunque l’effetto sperato: gli scioperi dei lavoratori statunitensi continuarono. Non si fermarono, dunque, nemmeno le retate della polizia: nel solo gennaio 1920 vennero fermate oltre quattromila persone. A ciò seguì la chiusura di giornali considerati sovversivi: nel 1921 venne chiuso Novyj mir, uno dei cinque soli giornali russofoni rimasti aperti quegli anni dei cinquantadue esistenti a inizio secolo.
Spuntarono tuttavia le prime voci critiche, come quelle del prete Percy Stickney Grant, che diffondeva il messaggio: “deportation is unamerican”. Grant si diceva addirittura convinto che la Soviet Ark si sarebbe guadagnata nella storia americana una fama simile a quella di un’altra nave, la Mayflower, per quanto molto più ignominiosa. Si sbagliava, la deportazione trans-oceanica dei sovversivi rimase una storia laterale, dimenticata in fretta.
Fu la recessione economica a distogliere piuttosto repentinamente l’attenzione pubblica dalla minaccia sovversiva: con la crescita della disoccupazione e il crescente impoverimento di ampi strati sociali, già dalla primavera del 1920 le rivendicazioni salariali delle organizzazioni dei lavoratori si dileguarono velocemente. Il Senato, preoccupato per i primi segnali della crisi, cominciò a ritenere eccessive le spese sostenute per la lotta al radicalismo. Dopo anni di crescente intensità, il conflitto sociale visse allora una fase di riflusso e nel marzo 1920 il 70% degli arrestati durante i raid vennero rilasciati. Così terminò la prima stagione della Red Scare, lasciando delle ceneri che verranno riattizzate tre decenni dopo dal senatore Joseph McCarthy.