H olger Czukay è morto lo scorso 5 settembre, all’età di 79 anni, nel vecchio cinema di Weilerswist, nei pressi di Colonia, che da qualche tempo aveva riadattato a casa/studio con l’aiuto della moglie Ursula Kloss, scomparsa un paio di mesi prima dopo una lunga malattia. E che alcuni decenni prima era stato il quartier generale di una delle avventure in musica più coraggiose e straordinarie – nel senso anche e soprattutto di fuori dall’ordinario – dell’ultimo mezzo secolo: i Can. Ribattezzato Inner Space nel 1972, quell’edificio era stato molto di più di un semplice studio di registrazione. Era il luogo in cui Czukay e i suoi colleghi, tecnici di laboratorio con la passione per l’azzardo e gli strumenti a tracolla, avevano creato quello che consideravano non un semplice gruppo rock bensì un vero e proprio organismo vivente. Michael Karoli, che dei Can era stato il chitarrista, intervistato a fine anni Novanta, quando il culto della band di cui era stato fondatore aveva conosciuto un rinnovato vigore, diceva: “L’anima del progetto non era costituita dalla somma di cinque individui ma risiedeva in una creatura chiamata Can. Ed era questo organismo vivente a creare la musica”.
L’esperimento avveniva all’interno di un ex cinema, e la settima arte ha sempre affiancato, non solo come suggestione metaforica, la vicenda del gruppo, e quella di Czukay in particolare. Se i tedeschi erano rimasti in piedi finanziariamente nei primi tempi era stato proprio grazie a una serie di lavori su commissione per il grande e piccolo schermo, colonne sonore per film di serie B e telefilm ma anche cinema d’autore (ad esempio Deep End, titolo italiano La ragazza del bagno pubblico, di Jerzy Skolimowski). Il primo album a nome Can, pubblicato nel 1969, si intitolava Monster Movie, e nel gruppo Czukay, oltre a suonare il basso, era in un certo senso l’addetto al montaggio del “girato”, le lunghe improvvisazioni in studio che, opportunamente cucite e assemblate, andavano a costituire il materiale che occupava le facciate degli LP. Un ruolo che, a partire dalla seconda metà degli anni Novanta sarebbe diventato predominante, sancendo la transizione da musicista a autore di veri e propri “dipinti sonori”: Czukay abbandona lo strumento principale per una consolle autocostruita che in concerto gli consente di manipolare nastri preregistrati e inserire nel flusso sonoro frammenti di telefonate e trasmissioni radiofoniche.
In queste settimane, il 23 marzo, data che coincide con quello che sarebbe stato l’ottantesimo compleanno del musicista, l’etichetta tedesca Grönland pubblica un box set retrospettivo in vinile che ne ripercorre la carriera solista e le numerose collaborazioni. Il titolo? Cinema. All’interno anche il secondo album a suo nome, Movies, anno 1979, il primo dopo la fine (con l’appendice di una inattesa reunion a fine anni Ottanta) della vicenda Can. Titolo che evoca colonne sonore per film immaginari, all’interno delle quali si preconizzano contaminazioni sonore tra mondi e culture per mezzo della tecnologia. Mettendo a fuoco le intuizioni apparse dieci anni prima su Canaxis 5, un disco registrato nottetempo nello studio di Karlheinz Stockhausen, di cui Czukay era stato allievo, un disco in cui la lunga Boat-Woman Song, costruita su un canto femminile tradizionale vietnamita messo in loop, rappresenta uno dei primissimi esempi di sampling applicato alla musica registrata e commercializzata.
Visioni sonore, quelle di Movies, che di lì a poco verranno ulteriormente affinate con l’album inciso a quattro mani da David Byrne e Brian Eno, My Life In The Bush Of Ghosts, con la fourth world music teorizzata dal trombettista Jon Hassell, e in generale con una nuova sensibilità che, con l’ingresso negli anni Ottanta, scorge nella musica costruita a partire da campioni di musiche preesistenti nuove e infinite possibilità. Ad esempio viaggiare avanti e indietro nel tempo e nello spazio, offrendo al termine world music, sempre più ubiquo in quel decennio, dimensioni ancora più futuribili.
Del krautrock i Can sono tra i principali protagonisti e istigatori, e la loro nascita racconta in maniera particolarmente efficace lo zeitgeist che ne è all’origine.
Nelle stesse settimane in cui si celebra questa uscita discografica, trent’anni dopo i natali del Nostro, nato Holger Schüring in una Danzica ancora città-stato autonoma alla vigilia della Seconda Guerra Mondiale, ed esattamente mezzo secolo fa, nascevano da una fortunata concatenazione di eventi i Can. Il gruppo viene alla luce in una turbolenta Germania postbellica, alla vigilia di un Sessantotto particolarmente animato e violento, con cui una intera generazione non solo prende parte a un movimento giovanile globale, ma è determinata a distanziarsi definitivamente dalla complicità con il nazismo di cui si è macchiata quella precedente.
Una carica rivoluzionaria che si manifesta non solo politicamente, generando movimenti politici ambientalisti così come eccessi di violenza culminanti nelle tragiche imprese terroristiche della RAF, ma anche musicalmente, dando vita a una scena musicale ricca e sfaccettata, decisa soprattutto a differenziarsi dalle direttrici anglocentriche che caratterizzano inevitabilmente il rock dell’epoca. Traendone ispirazione e al contempo tradendole in maniera particolarmente creativa. Quella scena musicale viene ribattezzata krautrock, un termine nato negli ambienti della stampa musicale britannica con intento derisorio e velatamente razzista ma che i diretti interessati riciclano come vessillo, poco propensi a essere incasellati ma nondimeno affratellati da un comune approccio fuori dagli schemi.
Di quella scena i Can sono tra i principali protagonisti e istigatori, e la loro nascita racconta in maniera particolarmente efficace lo zeitgeist che ne è all’origine. Il conto da saldare col passato, nel loro caso, passa attraverso la scommessa di coniugare formazione musicale accademica e avanguardie con la cultura rock degli anni Sessanta. Due dei fondatori, il tastierista Irmin Schmidt e lo stesso Czukay, sono stati allievi di Karlheinz Stockhausen, nome fondamentale dell’avanguardia novecentesca. Il primo è destinato – e già avviato – a una carriera di direttore d’orchestra, il secondo è finito a fare l’insegnante in Svizzera, dove un suo allievo, il poco più che adolescente Michael Karoli, lo inizia al rock facendogli ascoltare I Am The Walrus dei Beatles, convincendolo che fondere avanguardia e rock non solo è possibile, ma pure auspicabile. Alla stessa conclusione è giunto Schmidt dopo un viaggio negli Stati Uniti, nel 1967, nel corso del quale non solo ha incontrato la scuola minimalista newyorchese di Terry Riley e La Monte Young, ma ha pure conosciuto chi ne ha applicato le intuizioni al formato rock: i Velvet Underground di Lou Reed e John Cale.
I tre, Schmidt, Czukay e un Karoli ingaggiato come chitarrista, incontrano sulla loro strada Jaki Liebezeit, batterista jazz che come Schmidt e Czukay ha appena superato i trent’anni, e che da qualche tempo si è appassionato al free jazz – anche se ha iniziato a pensare che l’estrema libertà formale del genere possa correre il rischio di trasformarsi in un vicolo cieco. Qualcuno, al termine di un concerto, gli ha tuttavia suggerito come uscire dall’impasse: basta forme libere, è più interessante suonare ritmi monotoni e ripetitivi. Liebezeit, capace di scandire il ritmo con la metronomica freddezza di una macchina e allo stesso tempo di inserire micro variazioni e dettagli sempre diversi, diventa la chiave di volta dell’intero progetto. Dice lo stesso Czukay, interpellato da David Stubbs per Future Days, monumentale saggio del 2014 sulla storia del krautrock: “Ripetendo una cosa, puoi creare ogni volta qualcosa di nuovo al suo interno”.
Il gruppo viene alla luce in una turbolenta Germania postbellica, alla vigilia di un Sessantotto particolarmente animato e violento.
All’equazione, caratterizzata dall’assenza di qualsivoglia gerarchia tra i musicisti, manca ancora una voce, e il primo a occupare il ruolo è qualcuno che non ha mai cantato prima: Malcolm Mooney, scultore afroamericano che, tornando da un viaggio in India, ha fatto tappa in quel di Colonia. E manca ancora il luogo in cui sintetizzare e applicare la nuova formula. Viene in soccorso uno scultore che organizza mostre nel castello di Nörvenich, sempre nei pressi di Colonia, il quale dà al neonato gruppo la possibilità di sfruttare alcuni spazi dell’edificio per approntare uno studio di registrazione. È dunque anche la possibilità, all’epoca rarissima, di avere a disposizione un luogo in cui registrare senza restrizioni orarie, a produrre una musica affascinante e aliena, fisica e primitiva ma allo stesso tempo astratta e cerebrale, il cui presupposto è comporre mentre si suona, utilizzando le bobine di nastro analogico come se fossero spartiti. Una musica che escogita soluzioni geniali partendo da limiti autoimposti, come quello di registrare e assemblare le lunghe sessioni in studio utilizzando un mixer con appena due piste, in un epoca in cui otto tracce sono la norma.
Se le costrizioni aguzzano l’ingegno Mooney, anch’esso dotato di uno stile ripetitivo e ossessivo, al centro di quell’imponente flusso energetico finisce per restare soggiogato dall’intensità dell’esperienza e decide di ritornare in patria. Il gruppo, alla ricerca di un sostituto, si trova a Monaco per un concerto, e nelle ore che lo precedono si imbatte in un artista di strada giapponese, Damo Suzuki, che viene immediatamente arruolato e che porta in dote al gruppo una presenza sciamanica e testi cantati in un inglese che è più suono onomatopeico che lingua vera e propria. Suzuki resta per tre album che fissano il peculiare canone del gruppo, Tago Mago, Ege Bamyasi e Future Days, gli ultimi due registrati nel già citato Inner Space di Weilerswist, che eredita il nome dallo studio di Nörvenich, a dimostrazione che si tratta di uno spazio mentale ancor prima che fisico. Una forma mentis che consente di sperimentare e affinare soluzioni, e allo stesso tempo una vera e propria installazione sonora che diventa a sua volta strumento musicale.
A partire da dischi come Soon Over Babaluma (1974) e Landed (1975), con quest’ultimo che segna il passaggio dalla United Artists alla inglese Virgin, etichetta emergente che contribuirà a rendere il krautrock un fenomeno di culto Oltremanica, la musica si normalizza pur lasciando spazio a occasionali lampi di genio e improbabili hit (I Want More, 1976, che quasi sfocia, a suo modo, in territori disco music). Czukay lascia il basso a Rosko Gee, già bassista dei Traffic, mentre le percussioni di Rebop Kwaku Baah, pure lui ex Traffic, affiancano quelle di Liebezeit, e poi lascia definitivamente il gruppo, poco prima che l’esperienza si esaurisca con una manciata di album che non impressionano e non stupiscono più.
Czukay lascia portando però con sé un modus operandi che applica ai dischi solisti e a quelli degli ex soci cui continua a partecipare, ma anche a collaborazioni con artisti molto diversi tra loro: David Sylvian, Jah Wobble, addirittura un The Edge in libera uscita dagli U2. Czukay sviluppa ulteriormente il lavoro di montaggio-contaminazione già utilizzato in seno al gruppo, il quale aveva sviluppato nel corso degli anni una serie di bozzetti sonori catalogati come Ethnological Forgery Series, dove “ethnological forgery” sta per “contraffazione etnologica”. Persian Love, da Movies, con le voci di cantanti iraniani catturati alla radio a onde corte che forniscono la linea melodica, arriva idealmente da lì. Ma Czukay è soprattutto, lungo tutta la sua carriera, un visionario che concepisce i propri lavori come opere sinestetiche (uno dei suoi brani più ambiziosi si chiama, non a caso, Ode To Perfume) condite di umorismo bizzarro e surreale: nel video da lui stesso girato per Blessed Easter (1987), brano costruito intorno al frammento di una messa pasquale cantata da Giovanni Paolo II, è lo stesso musicista che entra nel quadro e alleggerisce il pontefice del portafoglio, metafora del “furto” perpetrato da chi costruisce nuova musica partendo da frammenti preesistenti. Un artista che trasporta le intuizioni avanguardistiche dei Can in una nuova era di stimoli e suoni globali, mantenendo una concezione musicale quasi alchemica, magica e, come dicevamo, sinestetica.
Non è un caso che il più curioso fra i contenuti annunciati del box set celebrativo in uscita sia un particolarissimo vinile in formato sette pollici, realizzato con una tecnologia che “rende possibile immagazzinare materiale video su vinile”. Manca ancora la prova empirica del suo reale funzionamento, ma ci sembra un modo perfetto, poetico, per omaggiare uno scienziato pazzo – questo l’aspetto che il Nostro amava coltivare, con bislacca ironia – che non faceva differenze tra musica e immagini, lavorando in un ex cinema dove era stata scoperta e sintetizzata la musica del futuro: priva di gerarchie, liberissima all’interno di limiti autoimposti, proiettata al di fuori del flusso spazio-temporale.