I n un articolo sul Post di poche settimane fa, Stefano Vizio elencava una serie di criteri per stabilire se si possa scherzare su un tema sensibile come lo stupro. Tra questi criteri ne indica uno un po’ problematico, e cioè l’identità dell’autore. “Chi fa quella battuta controversa” è secondo Vizio questione dirimente. Si tratta di una vittima di stupro? O di uno stupratore? O ancora, è una donna a farla, o un uomo? A parità di battuta, la nostra reazione dovrebbe cambiare.
Secondo questo criterio, un film come quello di Louis C.K., I Love You, Daddy, “puzza di impunità”, come ha titolato il New Yorker: restando nella metafora della comicità di cui sopra, il suo film è una battuta sullo stupro fatta da uno stupratore. Un film che parla di questioni controverse (i rapporti di genere, le accuse di molestie sessuali, persino la pedofilia) e si permette di farlo da una posizione non esattamente felice. Perché il comico è accusato di essersi masturbato davanti ad alcune sue colleghe approfittando della loro stima professionale nei suoi confronti, e come se non bastasse il suo film adotta una prospettiva poco concorde ai cori di sdegno che, a posteriori, si levano dall’America liberal, specie quella hollywoodiana. Conformemente al punto di vista secondo cui l’opera va valutata anche in base alla condotta dell’autore, l’uscita in sala del primo film da regista dello stand up comedian è stata cancellata, il 10 novembre 2017, a solo una settimana dalla data stabilita.
E invece, se potessimo guardare e apertamente discutere di questo film, – possibilità che ci è a questo punto preclusa –, avremmo un’ occasione preziosa per riflettere sulle dinamiche di genere senza nemmeno andare a scomodare la separazione, pur valida secondo chi scrive, tra autore e opera. Perché questo film offre un punto di vista interno e illuminante sulla crisi del patriarcato. Ci troviamo insomma davanti a un caso in cui la condotta non limpidissima dell’autore rende l’opera ancora più urgente, e più meritevole di visione. Perché Louis C.K., con il consueto tono intimista a cui ci ha abituato già nella sua serie e nei suoi monologhi, mette a nudo anche qui una mascolinità in crisi, allargando il campo fino a mostrarci le conseguenze dell’implosione di un sistema di potere e rapporti tra i generi su cui si era basata per millenni la nostra società.
Il film si apre con un “passaggio del testimone” tra un padre (Glen Topher, regista televisivo interpretato dallo stesso C.K.) e una madre separati: la figlia diciassettenne China (Chloe Grace Moretz) insiste per trasferirsi da lui per approfittare del suo recente successo, che comporta tra le altre cose un sontuoso appartamento a Manhattan, una casa agli Hamptons e un jet privato. Così, Glen si ritrova in casa questa ragazzina dal volto angelico e il corpo acerbo coperto solo da un bikini, appena di ritorno dallo spring break in Florida. L’amico e comico del suo show, Ralph, (Charlie Day, a cui C.K. delega tutti gli aspetti più grevi della sua comicità) illustra a Glen che tipo di intrattenimento dissoluto si conceda la gioventù dei college americani in occasione dei baccanali primaverili. C’è un gioco che si chiama Mother May I, gli spiega, in cui una ragazza, “usually the ugliest chick”, accorda e dirige i poco casti approcci tra ragazzi e ragazze. Glen è infastidito: China non parteciperebbe mai a cose del genere, è una brava ragazza, ne è sicuro. Eppure, China insiste per tornare in Florida, magari usando proprio il jet del padre, che, come gli spiega China, non è tenuto a lasciarla andare. Semplicemente, lei ci terrebbe tanto, e se potesse andare, preferirebbe moltissimo andarci con il jet.
I Love You, Daddy intende illustrare un ribaltamento dialettico di tutte le figure tipiche del discorso sul rapporto tra i generi che tradizionalmente associamo al sistema patriarcale.
Glen cede, mostrandosi da subito caratterizzato da un’arrendevolezza caricaturale. Non abituato ad assumere un ruolo paterno, confuso e lusingato dall’affetto filiale che China gli riversa addosso (“I love you, daddy”), ma soprattutto distratto dal successo tanto agognato, Glen non saprà pronunciare un singolo “no” fino a quando non sarà troppo tardi. Un “tardi” che arriva presto, sotto le spoglie di Leslie Goodwin (John Malkovich), regista iconico e artisticamente intransigente, venerato da Glen ma famigerato nell’ambiente per le voci – mai confermate – di sue relazioni con minorenni, che Glen e China incontrano a una festa. A nulla vale il femminsimo prêt-à-porter della giovane, dapprima diffidente, contro il carisma e la saggezza di Leslie, che pacatamente le spiega che la vita è complicata e che non crede che il genere faccia molta differenza, la accompagna a fare shopping e infine la convince a partire per Parigi con lui. Ma già qui le cose si complicano, perché I Love You, Daddy, e ogni piega narrativa, ogni dialogo ne dà prova, intende illustrare un ribaltamento dialettico di tutte le figure tipiche del discorso sul rapporto tra i generi che tradizionalmente associamo al sistema patriarcale. Così come Leslie, etereo e meditativo, non è il porco lubrico che tutti si aspetterebbero, la stessa China non è una preda inconsapevole, come lascerebbe pensare il suo rapporto con Leslie, ma neanche una scaltra manipolatrice, come suggerisce a tutta prima quello con suo padre.
La preda e la manipolatrice: proprio attraverso questi due estremi ha avuto luogo l’erotizzazione della donna nel patriarcato. Infantilizzazione/vittimizzazione da un lato (è per questo che la bambina, femmina e minorenne, è la vittima per eccellenza del sistema patriarcale) e sospetto dall’altro (il costante timore maschile che, nel caso più lapalissiano di dialettica servo-padrone, siano in realtà le donne a tenere le redini del potere, a manipolare gli uomini con il loro fascino). È per questo che l’ambigua figura della Lolita è il topos più pervasivo dell’immaginario erotico occidentale nel tardo capitalismo. Ancora più della matrona, della MILF (per usare un acronimo infelice), è la Lolita, o meglio ancora la statua di Pigmalione, a incarnare la fantasia più rassicurante e più adatta a una mascolinità che si sente minacciata e che per la prima volta desidera essere vista, guardata, desiderata a sua volta. Le fantasie di sottomissione maschile vengono controbilanciate da quelle più “paritarie” della donna-bambina: un oggetto sessuale a cui l’uomo maturo ha qualcosa da offrire in cambio. I soldi, lo status sociale, o, per restare nel campo del nostro film, magari una bella educazione cosmopolita, con tanto di viaggi in Europa, condita da un po’ di mansplaining sul femminismo radicale, perché no?
Invece, disattendendo le aspettative dello spettatore, il film ci rivela che China non cercava in lui né un padre, né un benefattore che le offrisse, come nel romanzo di Nick Hornby e omonimo film, “An Education”, bensì uno specchio, un campo di prova per testare il proprio potere, per sentirsi desiderata, forte della sua giovinezza e del conseguente sex appeal teoricamente irresistibile per un uomo attempato, come la nostra cultura assolutoria nei confronti del desiderio maschile predatorio non fa che ripeterci. Quella che per gli uomini di mezza età che popolano il film altro non è che una preda allettante (ruolo che, se per Leslie ne costituisce parte dell’attrattiva, preoccupa enormemente Glen), non lo è per lo spettatore, visto che la regia, qui attentissima, non la feticizza mai come oggetto erotico, ma piuttosto ne offre costanti primi piani del volto corrucciato o divertito, a suggerire che la fascinazione che gli adulti subiscono da parte sua riguarda un’idea di innocenza e di purezza vagheggiata che si accompagna al sospetto costante di cui parlavamo sopra, l’ambiguità di una fase liminale che racchiude i due poli dell’erotizzazione dell’adolescente femmina, e metonimicamente dell’intero genere femminile. Ma soprattutto, China non è un’ambita preda nella sua autopercezione, così come non lo è nella sua esperienza, visto che, come confessa a Leslie quando cerca di sedurlo alla fine, era proprio lei la “mother” dei giochi in Florida: “the ugliest chick”. Il rifiuto di Leslie arriva come una staffilata per China, che si scopre vulnerabile e sconfitta nell’unico gioco che pensava vinto in partenza. Scopriamo così che China non è né una preda né una manipolatrice: è insicura, affamata di approvazione. Come tutti, come suo padre. E se l’insicurezza e l’imprudenza che ne segue sono naturali a diciassette anni, lo sono di meno quando si parla di uomini di potere e successo di mezza età.
C’è un video poco noto e sicuramente poco adatto al click bait che parla del caso Weinstein. Si chiama “Who’s Afraid of Harvey Weinstein?”, è ad opera di Keeping It Real Art Critics, e commenta il caso riflettendo sul rapporto tra umiliazione e vergogna. Si avanza l’ipotesi che ad aver fatto emergere l’ondata di scandali sia stata l’impossibilità di continuare a giocare secondo le regole della preda: le donne che andavano in camera dell’orco/produttore Harvey Weinstein si aspettavano di trovare un individuo violento che le avrebbe prese con la forza, e la cosa le disgustava e terrorizzava ma allo stesso tempo attraeva incomprensibilmente. Era una sfida contro se stesse, oltre che contro gli uomini, un modo per testare il proprio potere, per narrativizzare la transazione sotto le spoglie di favola gotica: cappuccetto e il lupo. Invece, si trovano davanti un uomo insicuro, che si lamenta del proprio aspetto sgradevole, che non osa stuprarle ma implora un massaggio.
L’ambigua figura della Lolita è il topos più pervasivo dell’immaginario erotico occidentale nel tardo capitalismo.
Le costringe insomma a un ruolo materno, protettivo e impietosito nei confronti di quello che prima potevano almeno identificare in modo inequivocabile come un nemico, così come la dinamica poteva essere vissuta come un esplicito ricatto, o una chiara transazione di tipo economico. Il ricatto morale che invece si trovano davanti, la dinamica psicologica ambigua a cui sono costrette, è quello che fa scattare il senso di colpa, di vergogna, che le porta poi a denunciare. Pur nella sua provocatorietà, questo intervento tenta di leggere lo scandalo Weinstein come sintomatico del crollo di un sistema che chiedeva alle donne compiacenza e un preciso calcolo nell’offerta dei propri favori sessuali, ma allo stesso tempo imponeva agli uomini un ruolo dominante, forte, del tutto estraneo alla dinamica del desiderio, secondo il quale non occorreva certo a un uomo l’essere sessualmente desiderabile per ottenere del sesso.
Il sistema si incrina insomma non semplicemente quando le donne si sottraggono alla dinamica dei favori e al gioco del patriarcato, bensì quando la società dello spettacolo, del narcisismo generalizzato del self-management insinua nei maschi il dubbio che il potere della propria immagine, appannaggio prima esclusivamente femminile, sia molto più importante a livello contrattuale di quello economico o sociale che ha sempre detenuto. Un sospetto che la figura archetipica (non a caso, comica in epoca classica e sempre più tragicomica nel nostro occidente postindustriale) del maschio insicuro – di cui Louis C.K. e Woody Allen sono tipici esempi – ha introiettato già da tempo. E così torniamo a Glen, giustamente protagonista di un film che illustra la generalizzazione dell’incapacità ad assumersi il ruolo della responsabilità e dell’autorevolezza – più che della banale autorità, quella sì, di stampo prettamente maschile.
Alla dinamica atavica e ormai inservibile e giustamente inaccettabile incarnata da preda e cacciatore, già smantellata nella dialettica tra China e Leslie di cui sopra, Louis C.K. aggiunge un terzo personaggio. Quello di Glen, il padre inetto, incapace di rappresentare l’altra possibilità per il maschile: non il predatore, bensì il padre. Una figura, quella di Glen che, diversamente da quanto accade alle figure femminili adulte che lo circondano – dalla saggia ex compagna (Pamela Adlon), alla volitiva attrice con cui intreccia una relazione, Grace, all’inflessibile ex moglie, fino alla sua stoica produttrice, di fronte all’assunzione di responsabilità si appiglia maldestramente a dettami morali imposti dall’esterno. “She’s a child! Shouldn’t society protect her?” chiede a Grace parlando di China. “Society”, lo canzona lei, “You mean you?”.
Glen sembra sulla carta una persona ragionevole e mossa da buone intenzioni. “Hai pensato a cosa fare della tua vita?” chiede alla figlia, e davanti a un “reverse horror porn movie” in cui la protagonista uccide gli uomini con cui si accoppia, la istruisce sul fatto che il femminismo non implica la vendetta contro gli uomini, quanto piuttosto l’essere indipendenti, l’iscriversi al college e il trovarsi un lavoro. A Grace spiega invece che la storia di cui lei non si pente con un uomo molto più vecchio quando aveva solo quindici anni, è stato un caso di abuso sessuale: “I am sorry Grace, but you were raped”. La sua inettitudine come padre sembra quindi legata all’impossibilità di essere all’altezza del rigido codice morale che si prefigge. Ma presto emerge un’altra evidenza: Glen non sa opporsi alla relazione tra China e Leslie perché è a caccia dell’approvazione del regista, spera persino che questi lo aiuti a scrivere il suo primo lungometraggio autoriale. Quella che avviene è insomma una tipica transazione tra uomini ai potenziali danni dell’adolescente, nel rapporto di scambio tribale tutto al maschile di cui parlava la studiosa femminista Luce Irigaray. Glen vende sua figlia, e infatti arriva a tagliare i ponti con lei solo quando comprende che Leslie non ricambia in nessun modo la sua stima.
Del resto Louis C.K. non è un regista, bensì uno degli stand up comedians più brillanti, dolorosamente onesti e sensibili che negli ultimi anni abbiamo avuto la fortuna di ascoltare.
Sarà solo nell’epilogo, grazie alla sua ex compagna, che Glen rincontrerà China, scoprendo non solo che lei e Leslie non si frequentano più e che questa ha iniziato a lavorare in un grande magazzino, ma che Leslie (che si fregiava di non aver mai fatto televisione) ha vinto un Emmy per uno show con Ralph, il suo storico protagonista, mentre a lui non è rimasto niente. Non Grace, non sua figlia China, nemmeno il suo lavoro e il successo che credeva di avere ottenuto. Sicuramente non la stima e il rispetto di sé – qualcosa che forse aveva perso da tempo, come gli fa notare l’ex moglie, inizialmente accusata da lui di averlo lasciato per via del suo essere uno spiantato, ma in realtà, scopriamo verso la fine, semplicemente stanca dei suoi costanti tradimenti.
È un peccato aver dovuto raccontare, con tanto di spoiler, tutta la trama di un film intelligente che non vedrete mai (più, se non eravate alla première a Toronto lo scorso autunno). Va detto che i meriti prettamente cinematografici del film sono limitati, e non vanno molto oltre l’omaggio didascalico (nella figura di Leslie, certo, ma anche nelle scelte del milieu metacinematografico e upper class rappresentato, del bianco e nero e della colonna sonora jazz) al maestro Woody Allen. Ma del resto Louis C.K. non è un regista, bensì uno degli stand up comedian più brillanti, dolorosamente onesti e sensibili che negli ultimi anni abbiamo avuto la fortuna di ascoltare. E la grandezza del suo film sta infatti tutta nella scrittura, perché I Love You, Daddy è il film più acuto e puntuale (anche in termini del suo, pur sfortunato, timing), su quel fenomeno che sociologi e analisti definiscono la morte del padre. Se come lo studioso junghiano Luigi Zoja (riferisce questo articolo di Alberto Lais), sostiene a questo proposito che “di una persona si parla molto e molto bene soprattutto in occasione del suo funerale”, l’intelligenza del film di Louis CK risiede proprio nel fatto che di questa morte del padre l’autore firma un commiato tutt’altro che nostalgico.
È nel presentare la possibilità di un’altra mascolinità (quella paterna) come sfida e obiettivo futuro e non come qualcosa che è andato perso con il patriarcato, che Louis CK riesce a offrirci la “screwball dramedy” che meglio fotografa il momento storico che stiamo vivendo. Quello in cui un sistema di potere che privilegiava alcuni, ma che funzionava per tutti, improvvisamente si inceppa, non funziona più, lasciandoci di fronte la necessità urgente di un’assunzione di responsabilità che parta non da un’autoimposizione morale (o moralista) ma dal desiderio. Glen non sa cosa vuole, non solo con sua figlia, ma anche nel suo lavoro, come gli fa notare Leslie nel loro primo incontro. È semplicemente a caccia di approvazione, non vuole che se stesso, vittima (e artefice) di un’insicurezza e di un narcisismo patetici. Se la dinamica di preda e cacciatore riguardava, seppur barbaricamente, il desiderio, la figura di Glen ne incarna la morte, e probabilmente non è un caso se è Glen la figura in cui si immedesima Louis C.K., tornando alle accuse di cui parlavamo in apertura. L’esibizionismo del comico ci parla di una sessualità egoriferita, che implora di essere guardata, con una compulsione che sembra indifferente a chi sia il soggetto che lo guarda. Ma se i personaggi di I Love You, Daddy non sanno cosa vogliono, è proprio dal desiderio che si può ripartire.