N el novembre 2013, pochi mesi dopo l’esplosione del caso Snowden, ero in California per partecipare a una conferenza presso la University of San Francisco. Daniel Ellsberg, l’Edward Snowden degli anni Settanta, doveva tenere il keynote finale parlando della sua esperienza come fonte dei “Pentagon Papers” nel 1971, delle accuse di spionaggio rivolte a lui all’epoca e di quelle, identiche, sollevate contro Snowden e Chelsea Manning per il suo coinvolgimento con Wikileaks.
Ellsberg è nato nel 1931 a Chicago. La sua vita comprende un dottorato conseguito ad Harvard e una carriera tra Dipartimento di Stato, Difesa, Vietnam e Rand Corporation, uno dei maggiori think tank dell’esercito Usa. Ellsberg è un patriota americano divenuto un simbolo della controcultura statunitense per una scelta fatta nei primi anni Settanta: rivelare al mondo il vero volto della guerra in Vietnam e smontare la versione ufficiale con cui veniva raccontata dalla Casa Bianca di Johnson, prima, e di Nixon poi. Una scelta che lo avrebbe fatto diventare un traditore, un nemico pubblico o l’uomo più pericoloso d’America, come titola un documentario a lui dedicato. Una scelta arditissima, compiuta dalla stessa persona che aveva dedicato la sua tesi di dottorato in economia comportamentale alla decision theory e aveva dato il nome all’Ellsberg Paradox, dimostrando come un individuo, davanti a due scommesse, calcoli (approssimativamente) l’utilità attesa di ciascuna di esse, e scelga quella per cui l’utilità attesa è maggiore.
La storia di Ellsberg e dei “Pentagon Papers” è ora anche al centro di The Post, il nuovo film di Steven Spielberg che racconta come il Washington Post abbia pubblicato i documenti riservati scovati da Ellsberg nel 1971. Quella dei “Pentagon Papers” è una delle storie più note del giornalismo statunitense, forse seconda solo al Watergate, già portata al cinema da Alan J. Pakula con Tutti gli uomini del presidente. I “Pentagon Papers” erano un dossier di settemila pagine raccolte sotto il titolo di History of United States Decision-Making Process on Vietnam Policy, 1945-1967, documenti a cui Ellsberg aveva avuto accesso per via del suo lavoro di analista presso la Rand. Quei documenti, all’epoca non disponibili al pubblico (lo sono dal 2011), raccontavano una guerra diversa da quella delle fonti ufficiali, in nessun modo prossima a concludersi, una versione in contraddizione con quella, molto più ottimista, venduta agli americani dal governo. Parlavano di una guerra che il grande stratega del Pentagono, Robert McNamara, Segretario alla Difesa sotto JFK e Lyndon Johnson, sapeva da tempo di non poter vincere, così come da tempo era al corrente della futilità di mandare altre giovani americani a morire nell’umida giungla vietnamita, ed eppure aveva continuato a combattere per una miope teoria del contenimento dell’influenza cinese. Parlavano di una guerra in cui il morale dei soldati americani era ormai giunto ai minimi storici, con conseguenti condotte moralmente reprensibili come il famoso massacro di My Lai, e della decisione dei vertici militari statunitensi di ignorare sistematicamente tutti i segnali e le informazioni in merito.
Ellsberg passò diverse notti estenuanti a fotocopiare i documenti originali con una Xerox 914, aiutato dal collega Tony Russo, per evitare che il sequestro o la distruzione dell’unica copia realizzata potesse coincidere con la fine del leak. Ellsberg tentò prima la via istituzionale, bussando alle porti di diversi uffici di senatori e altri membri dell’Amministrazione Nixon, compreso quello di Henry Kissinger, al tempo consigliere per la sicurezza nazionale della Casa Bianca. Nessuno gli diede ascolto: un destino simile a quello di Snowden e Manning, che non ottennero alcuna risposta quando provarono a portare le loro rimostranze ai piani alti delle rispettive organizzazioni.
I “Pentagon Papers” raccontavano una guerra diversa da quella delle fonti ufficiali, in nessun modo prossima a concludersi, una versione in contraddizione con quella venduta agli americani dal governo.
La porta successiva a cui bussare, per Ellsberg, fu quindi quella della redazione del New York Times, che spostò immediatamente i Papers e i giornalisti che ci avrebbero lavorato in un luogo segreto per motivi di sicurezza, una stanza dell’Hotel Hilton. Da lì, fu tutta un’escalation. Dopo le prime tre parti di inchiesta pubblicate dal quotidiano, “l’Attorney General John Mitchell mandò una lettera al New York Times chiedendo la sospensione delle pubblicazioni e la consegna della copia dello studio”, scrive Ellsberg in Secrets, la sua autobiografia, ricordando i giorni della pubblicazione, “il Times si rifiutò e lo stesso pomeriggio il Dipartimento di Giustizia mandò una richiesta per un’ingiunzione, la prima nella Storia del nostro Paese, in un tribunale federale di New York”.
L’Amministrazione Nixon, in sostanza, cercava di bloccare la pubblicazione dei “Pentagon Papers”, impedendo al New York Times di andare in edicola: “Per la prima volta dai tempi della Rivoluzione, alle rotative di un giornale americano era stato impedito dall’ordine di un tribunale di stampare una storia programmata”, scrive ancora Ellsberg. Come se il Primo Emendamento della Costituzione degli Stati Uniti fosse stato temporaneamente sospeso. Passarono quasi tre settimane prima della cancellazione dell’ingiunzione, ottenuta davanti alla Corte Suprema, ma nel frattempo il Washington Post di Ben Bradlee era già entrato in possesso dei “Pentagon Papers”, di nuovo grazie a Ellsberg. E questa è la storia che Spielberg ha scelto di raccontare nel suo ultimo film.
Ellsberg fu immediatamente incriminato, dopo essersi presentato spontaneamente alle autorità autodenunciandosi come responsabile della fuga di notizie. Capi di imputazione: furto, cospirazione e spionaggio, ai sensi dell’Espionage Act, una legge del 1917 pensata per colpire i traditori del primo conflitto mondiale, ma che diventava così un’arma nelle mani del Governo contro i whistleblower. Nixon l’ha impugnata per la prima volta contro Ellsberg nel 1971, ma anche le due amministrazioni Obama hanno usato la legge contro otto persone, comprese Snowden e Manning. Con Trump, la stessa sorte è già toccata a Reality Winner, classe 1992, accusata di aver passato a The Intercept dei documenti segreti relativi al Russiagate.
Ellsberg venne infine scagionato, in un verdetto che decretò il trionfo del Primo Emendamento e della libertà di stampa, attestando il suo status di whistleblower al servizio dell’interesse pubblico e cancellando l’onta di essere considerato una spia nemica del proprio Paese. La verità, però, è più sfumata: a decidere le sorti legali di Daniel Ellsberg furono più che altro le diverse attività illegittime compiute contro di lui dal Governo durante il processo, comprese intercettazioni illegali e la perquisizione non autorizzata dell’ufficio dello psichiatra di Ellsberg. Responsabili di queste attività erano i Plumbers di Richard Nixon, un’unità d’investigazione segreta della Casa Bianca il cui obiettivo era proprio svolgere indagini illegali per conto del team presidenziale. I Plumbers sono passati alla storia soprattutto per essere stati i responsabili dell’irruzione negli uffici del Democratic National Committee (DNC) a Washington, presso il complesso di edifici Watergate, un caso che sarebbe costato a Nixon la Presidenza.
A 87 anni compiuti, Daniel Ellsberg ha pubblicato lo scorso anno il suo nuovo libro, il più complesso. The Doomsday Machine. Confessions of a Nuclear War Planner (Bloomsbury) è un corposo libro di memorie in cui l’autore racconta il contenuto di altri documenti, sempre da lui sottratti e mai resi pubblici, dedicati al programma nucleare Usa degli anni 60. “La verità è che dall’autunno del 1969 al momento in cui lasciai la Rand nell’agosto del 1970, ho copiato qualsiasi cosa fosse nella cassaforte top secret nel mio ufficio”, scrive Ellsberg, “le settemila pagine dei Pentagon Papers erano solo una parte”.
Ellsberg fu immediatamente incriminato, dopo essersi presentato spontaneamente alle autorità autodenunciandosi come responsabile della fuga di notizie. Capi di imputazione: furto, cospirazione e spionaggio.
La storia di questi documenti trafugati, forse ancora più segreti e cruciali dei “Pentagon Papers”, meriterebbe un film a sé. Scrive Ellsberg che nei giorni in cui era braccato dall’FBI per via delle prime pagine relative al Vietnam, ne aveva consegnato le copie al fratello Harry in una scatola, nascosta prima sotto un cumulo di compost nel giardino della casa di lui a Hastings-on-Hudson nello Stato di New York e in seguito spostata, per sfuggire a una perquisizione, nella discarica della cittadina. Una vecchia cucina gettata via avrebbe dovuto segnalare il luogo preciso del seppellimento di alcuni tra i maggiori segreti della strategia nucleare Usa e della possibile fine del mondo. Il ciclone tropicale Doria, che colpì la costa atlantica nella stessa estate del 1971, fece collassare la pila di rifiuti in cui i documenti erano stati nascosti, rendendoli introvabili. Altri documenti tornarono in superficie, ma non quelli sul programma nucleare: dopo qualche mese la discarica fu rimossa per costruire un condominio, le cui fondamenta ora probabilmente poggiano su alcuni dei più oscuri segreti degli USA di Kennedy.
The Doomsday Machine è costruito a partire dalle memorie di Ellsberg dei suoi anni passati a lavorare per conto della Rand nei più alti ranghi dell’intelligence americana proprio sui temi della possibile guerra nucleare e su molti di quei materiali perduti, in parte ora “liberati” grazie alla desecretazione avvenute negli anni seguenti. In quel periodo Ellsberg fu autore di alcune linee guida top secret sulla guerra nucleare. Fu sempre lui a fornire a McGeorge Bundy, assistente di Kennedy per la sicurezza nazionale, una previsione sugli effetti di un eventuale conflitto atomico nelle prime settimane di insediamento alla Casa Bianca della nuova amministrazione. Infine, nel 1962, fu l’unico a far parte di due diversi gruppi di lavoro dell’Executive Committee of the National Security Council durante la crisi dei missili cubana. Di fatto, Ellsberg stesso definisce “nuclear war planner” il suo lavoro di quegli anni e scrive di quando gli fu mostrato un documento top secret, redatto per essere mostrato solo al Presidente, che illustrava le potenziali vittime di un attacco nucleare contro Cina e Unione Sovietica. La stima era: 275 milioni di morti entro il primo mese e di 325 entro i primi sei mesi. “Mi venne mostrato il modo in cui il nostro mondo sarebbe finito”, ricorda Ellsberg.
La storia di Daniel Ellsberg è attraversata dal dilemma della scelta tra due opzioni, che hanno caratterizzato tutta la sua vita: restare in silenzio oppure “chiedersi cosa poter fare per accorciare quella guerra, una volta deciso di essere pronto ad andare in prigione pur di farlo”. Daniel Ellsberg ha scelto la seconda opzione. Evidentemente ha ritenuto fosse quella con l’utilità attesa maggiore. Se non direttamente per lui, di sicuro per tutti noi.
A San Francisco Ellsberg fece il suo discorso, mi firmò la mia copia di Secrets, e rimase diverso tempo a parlare con gli altri partecipanti alla conferenza per poi andarsene. L’ultima immagine che ho di Daniel Ellsberg è lui che mi supera in macchina, una Mazda cabrio rossa così adatta a lui, mentre cammino lungo una delle tipiche discese di San Francisco per andare a prendere il bus e tornare in albergo